sabato 22 dicembre 2012

10 anni senza Joe

Quando è morto Joe Strummer avevo 20 anni. E adesso ne ho 30. Joe è sempre stato il mio eroe. E anche se il punk ci ha sempre insegnato che non bisogna averne, di eroi, lui - cazzo - lo era. Lo è stato sin dall'inizio, da quando a 14 anni ho scoperto la musica dei Clash prima sulle pagine di un libro, "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", e poi nella canzoni di una cassetta ("The singles") che mi ero regalato in quarta ginnasio per il primo bel voto di greco (dopo è stato un disastro, fino a ottobre però promettevo bene).
Mi ricordo ancora come ho saputo la notizia della morte di Joe il 22 dicembre di dieci anni fa, anzi era il 23. Perché qui da noi si è saputo solo il giorno dopo cosa fosse successo. Internet non era ancora il mezzo di comunicazione globale che è oggi. C'era ancora un piccolo filtro per i profani. E così, mentre ero in camera a cazzeggiare in attesa della cena pre-natalizia organizzata sopra l'agenzia di viaggi di Fabio, mi arriva un messaggio sul cellulare: è Marco, un mio compagno di università. Nel sms c'è scritto "soltanto": è morto Joe Strummer. E nient'altro.
Ho faticato parecchio a decifrare quelle quattro parole in croce. E mi sono subito precipitato ad accendere la tv per controllare sul televideo (sembra davvero passato un secolo). Fra le "ultim'ora" messe in fila sullo schermo luminoso e spartano del servizio d'informazione Rai spiccava, tra un pezzo di cronaca e un'agenzia politica, la notizia che stavo cercando ma non avrei mai voluto leggere: è morto Jo Strummer, cantante dei Clash. Inutile dire che è stato un bruttissimo colpo. Perché se pensi che un amico ti possa fare uno scherzo di cattivo gusto, quando leggi una cosa del genere su organo di informazioni, sai che che purtroppo è tutto vero. Chi darebbe mai una notizia falsa su Joe Strummer? Ma soprattutto: chi se lo cagava, all'epoca, Joe Strummer fuori dal giro punk? Ormai il mio eroe era un simbolo per pochissime persone: un totem del tempo che fu, un cinquantenne che era tornato a fare musica senza troppi clamori e con un successo inferiore a ciò che avrebbe meritato. Negli anni Novanta, quando l'ho conosciuto per la prima volta con quella mitica cassettina, Joe, ma anche i Clash, erano roba per carbonari. Sì, qualche adulto si ricordava vagamente di loro, ma i miei amici quindicenni manco sapevano cosa fosse il punk. Per me Joe è sempre stato un piccolo grande eroe per pochi eletti. E solo dopo la morte, come accade spesso, la sua fama è ritornata quella degli anni belli di fine Settanta inizio Ottanta.
Comunque: quando ho capito che Marco, nel suo messaggio semplice e glaciale, non stava scherzando la prima reazione è stata quella di mettermi a piangere. Non lo facevo da anni. E mia madre, quando mi ha visto così malpreso si è persino spaventata. Poi mi sono chiuso nella mia cameretta e ho infilato "London calling" nello stereo. Sono andato alla cena di Natale che ero un straccio. Ho portato una cassetta dei Clash e mi sono ubriacato con i miei amici, anche se per loro Joe era un cantante come tanti e non è che gliene fregasse molto.
Io invece coi Clash ho passato alcuni dei momenti più belle della mia vita. Mi ricordo praticamente tutto dei miei incontri con la loro musica. Il disco omonimo, per esempio, che in cd si trovava in due versioni, quella americana  - con dentro anche alcuni singoli - e quella inglese. L'ho comprato alla Fiera del disco per 15 mila lire e adesso ce l'ho anche in vinile. "Giv'em enough rope" l'avevo preso invece da New Deal, il negozietto di Sestri che per qualche mese fece sconti pazzi e che poi chiuse all'improvviso portandosi dietro centinaia si caparre di ordini mai fatti. "London Calling" invece è arrivato una calda estate di 15 anni fa, dopo aver distribuito volantini per il Festival d'Irlanda. Mentre "Sandinista!" è stato un bellissimo regalo di Natale, anche se all'epoca c'avevo messo un po' a capirlo e ad amarlo. "Combat rock" l'avevo preso nuovamente da New Deal, prima ancora di "London calling" e ricordo che all'inizio sentivo solo "Should I stay o should I go". Poi ho comprato anche "Cut the crup", usato al Libraccio, perché anche se tutti dicevano che era brutto, volevo avere la discografia completa. E quando su "Musica" di Repubblica ho visto che Joe sarebbe tornato con una nuova band, i Mescaleros, e avrebbe fatto tappa in Italia ho messo a perdere i miei per andare al concerto. Avevo 17 anni, era l'inizio di settembre del 1999. Sono andato all'Indepedent Day Festival con due amici e i loro genitori. Pioveva e all'arena Parco Nord si era formato uno strato di fango appiccicoso. Quando Joe è salito sul palco mi sono messo a ridere dalla gioia. E non appena, sotto la pioggia, ha intonato "London calling" ho iniziato subito a cantare nel mio inglese stentato, facendo attenzione a beccare le uniche parole che conoscevo. Ancora oggi quello resta il concerto più bella della mia vita e uno di quei momenti che ricorderò per sempre.
Forse aver bisogno di eroi è sbagliato. E sono stati proprio i Clash a insegnarmelo. Ma per me Joe resterà sempre una figura mitica. Non un amico più grande da voler emulare. No, lui è il mio eroe. L'unico e ultimo della mia vita del cazzo.

domenica 9 dicembre 2012

Dischi 2012

Ed ecco la solita manfrina che piace tanto ai giovani (e pure a me): la classifica dei dischi dell'anno in ordine sparso.

1) GREEN DAY "Uno", "Dos", "Tre"
2) NOFX "Self entitled"
3) TY SEGALL "Twins"
4) OFF "Off"
5) DIAFRAMMA "Niente di serio"
6) I FENOMENI "Un vuoto appeso - Memorie della vita di G.L."
7) TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI "Nel giardino dei fantasmi"
8) TUNAS "Tunas"
9) HEROIN IN TAHITI "Death surf"
10) EDDA "Odio i vivi"

giovedì 6 dicembre 2012

Ricomincio da tre (album) - Green Day vi voglio bene

Forse dovrei aspettare l'uscita ufficiale di "Tre", il terzo album della trilogia dei Green Day, per parlare di questa nuova follia di Bollie Joe e compagni. Ma visto che ieri notte, grazie al solito Youtube, mi sono sentito anche l'ultimo capitolo in streaming, credo sia arrivato il momento per scrivere due o tre cazzate su questi tre dischi.
Allora: parlare dei Green Day con obiettività non è mai stato il mio forte. E devo ammettere che qualche volta sono stato eccessivamente partigiano nei loro confronti. Certo, poi il tempo mi ha dato - personalmente - ragione, ma la questione è sempre rimasta all'interno di un discorso alquanto soggettivo. Tanto per fare un esempio, anch'io come molte persone, dodici anni fa, ero rimasto spiazzato da "Warning". Perché insomma dopo "Nimrod", che secondo i miei canoni conteneva già una buona dose di "tradimenti", quel nuovo album sembrava una robetta buttata lì per doveri di contratto. Poi invece ho imparato ad amarlo e oggi  ritengo che sia "Warning" che "Nimrod", a parte "King for a day" che trovo orrenda e demenziale, siano due ottimi dischi. Su "American idiot" nulla da dire: appena è uscito mi è sembrato uno degli album più belli incisi negli ultimi dieci anni (dal '94 al 2004 s'intende). Mentre "20st century breakdown" fatico ancora a digerirlo completamente (anche se contiene almeno un pezzo importante - per me - e un altro di altissimo livello). In poche parole, da quando i Green Day hanno abbandonato il classico suono punk-rock - il dopo "Insomniac" tanto per capirci - ho avuto molti conflitti con i loro nuovi dischi. Ogni volta, però, sono riuscito a ricredermi e ad abbandonare quasi tutte le mie perplessità.
Ma torniamo alla trilogia. Aspettavo questi tre album con una certa ansia e il fatto che i Green Day, all'ultimo momento, avessero annullato il concerto di Bologna aveva alimentato ulteriormente i miei dubbi sul loro futuro. Poi è uscito "Uno" e mi sono subito fiondato da Disco Club e l'ho comprato. Quando sono arrivato a casa e l'ho fatto girare nello stereo il primo pensiero che ho avuto è stato: ok, poteva andare peggio. Lo so che è una cazzata, ma quando ami una band e sai che gioca sul filo del rasoio fra la classifica e le sue radici underground che te l'hanno fatta amare, temi sempre che ti possa deludere. O, ancora peggio, hai paura di non voler ammettere che abbia inciso un album di merda. "Uno" invece, a dispetto di alcune recensioni piuttosto negative, si è rivelato un bel disco. E se fosse stato l'unico cd partorito dai Green Day quest'anno sarei stato persino contento. La cosa più importante, secondo me, era affrancarsi dal formato concept che ormai aveva esaurito la sua carica di novità e freschezza (parlo sempre in termini di punk-rock e pop). E i Green Day questa volta ci sono riusciti. Di pezzi brutti, su "Uno" non ce ne sono molti. L'unico davvero schifoso è "Kill the dj". Ma quando si fa prima ad elencare le ciofeche rispetto alle canzoni interessanti si è già sulla buona strada.
Un mese dopo è stata la volta di "Dos". Prima che uscisse però sono riuscito a sentirlo in streaming su Youtube e l'impressione iniziale è stata terrificante. Quando poi sono riuscito a metterci le mani sopra (Gian sia lodato!) ho cambiato radicalmente idea. Anche in questo caso, però, almeno una canzone di merda, i nostri ce l'hanno infilata. "Nightlife", infatti, col suo finto rap rock, è il peggio del peggio e sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto. A parte questa schifezza il resto del disco viaggia su buoni livelli, con punte altissime e qualche riempitivo di lusso. Insomma se "Uno" si merita un 7, a "Dos" si potrebbe dare persino 7,5. Ma comunque i due album si equivalgono. Certo, secondo le intenzioni dei nostri, il primo disco sarebbe quello più pop-punk mentre il secondo avrebbe un tiro più garage. Ma, a dirla tutta, né l'una né l'altra definizione sembrano descrivere al meglio i due lavori. Diciamo che nel primi si guarda più alla melodia e nel secondo ci sono più chitarre ruggenti. Ma siamo sempre nella solita formula di punk-rock misto a power-pop dei Green Day, poche palle.
Detto dei primi due cd, eccoci finalmente arrivati a "Tre", anche se qui il giudizio resta a metà, visto che l'ho potuto ascoltare solo su Youtube. La prima impressione però, salvo rettifiche, resta tutto sommato buona. Magari questo terzo capitolo è leggermente inferiore agli altri due soprattutto dal punto di vista "rock", ma si lascia comunque ascoltare piuttosto bene. E se è vero che, rispetto ai suoi due predecessori,"Tre" è quello più vicino alle ultime cose scritte dei Green Day, con tanto pianoforte e molte canzoni lunghe e "articolate", bisogna anche ammettere che non mancano alcuni pezzi più veloci e divertenti. A differenza di "Uno" e "Dos", poi, in quest'ultimo capitolo non c'è il pezzo "cesso" e anche se alcune canzoni sono meno belle di altre, tutte quante, comunque, conservano una certa dignità. Forse è l'insieme che non colpisce più di tanto. Se dovessimo usare il solito metro numerico, "Tre" si beccherebbe un bel 6/7.
Insomma volendo fare i matematici fino in fondo, la media di questa trilogia dei Green Day, secondo il mio opinabile parare, è 7 pieno. E anche se sono d'accordo che se da questi tre album ne avessero tirato fuori uno solo da 15 pezzi ci sarebbe scappato un mezzo capolavoro: alla fine, forse, è stato giusto così. Lo stesso discorso, 30 anni fa, qualcuno lo fece per "Sandinista!" dei Clash. Con tutto il rispetto per i Green Day, però, il paragone con quel progetto è decisamente blasfemo.
Visto che vi ho annoiato fin qui, continuerò a farlo ancora per qualche riga, scrivendo quello, che secondo me, sarebbe potuto essere il "disco perfetto" fondendo il meglio di "Uno", "Dos" e "Tre". I pezzi sono in ordine sparso:

Nuclear family
Fell for you
Oh love
Loss of control
Angel blue
Stray heart
Makeout party
Ashley
Lazy bones
Baby eyes
Lady cobra
Missing you
X-Kid
99 Revolution

venerdì 19 ottobre 2012

The shape of pop-punk to come

Forse è solo una massa confusa di cazzate. Ma tutto questo "nuovo" interesse intorno al pop-punk e al punk-rock ramonesiano mi ha fatto riflettere. L'epoca d'oro di questa specie di sottogenere è - anno più anno meno - il periodo di tempo che va dal 1990 al 1997 circa: e cioè il momento di massima espansione della Lookout Records, l'etichetta regina della musica veloce, melodica e basata sui soliti tre accordi, che ha chiuso i battenti circa un anno fa, dopo aver tirato a campare (male) per ben due lustri. Tirare fuori i soliti nomi di Screeching Weasel, Queers, Mr T Experience, Pansy Division ecc è quasi pleonastico, però tanto per mettere i puntini sulle i è proprio grazie a queste band (e non solo loro) che il verbo del pop-punk è arrivato anche in Italia. Anzi il nostro Paese, sedici-diciassette anni fa, è stato letteralmente conquistato da questo tipo di gruppi, tanto che persino qui da noi hanno iniziato a formarsi le prime band di ispirazione Lookout Records. Parte del merito, naturalmente, è stato del revival punk del 1994 scaturito dall'uscita di "Dookie" dei Green Day, ma era già qualche anno che un manipolo di coraggiosi, fra fanze, band ed etichette, aveva messo a germogliare i primi semi di questa scena. SenzaBenza, Fichissimi, Kill Joint e Manges sono stati il risultato dell'ondata pop-punk italiana anni Novanta: un fiume in piena di energia e melodia durato meno di dieci anni, ma che ha lasciato decisamente il segno. Poi basta. Come accade spesso i corsi e ricorsi storici della musica alternativa hanno azzerato anche la scena pop-punk italiana e prodotto un ricambio generazionale che ha messo le basi per un nuovo ed ennesimo revival: l'emo. A chi pensa ancora che l'hardcore emozionale sia nato nel 1998 grazie ai Get Up Kids o ai Jimmy Eat the World è fin troppo facile consigliare di consultare il catalogo Dischord degli anni Ottanta, magari andando a riscoprire le band della cosiddetta Revolution Summer. Non si inventano mai nuovi generi, quindi andate in pace. (Fra l'altro da qualche anno stiamo persino assistendo a un interessante - dico sul serio - revival del revival emo con qualche piccola novità autarchica)
Comunque: fatta questa lunghissima e arzigogolata premessa torno subito al punto di partenza: il pop-punk, che ora sembra tornato abbastanza di moda, è stato buono buono fino a metà anni Duemila. Tanto che i pochi rimasti fedeli alla linea hanno faticato parecchio a trovare nuove band fra la fine degli anni Novanta e il 2005. Uno dei momenti cruciali di questo ritorno in grande spolvero è, secondo me, "Total" dei Teenage Bottlerocket, uno dei dischi "Lookout style" (anche se uscito per la Red Scare) più belli di sempre, quasi a livello dei migliori lavori dei Queers e degli Screeching Weasel. Quell'album e tanti altri fattori hanno ridato linfa a un fiume carsico che aveva mantenuto, come unico e ultimo baluardo, gli annuali tour dei Queers in tutto il mondo e specialmente in Italia. Un appuntamento per nostalgici e "vecchietti" con le All Star, che ha saputo travalicare le mode e mantenere vivo un sottobosco di appassionati. In Italia a tenere duro sono stati, per un certo periodo, quasi solo i Manges, mentre in Europa si poteva contare sugli Apers, qualche altra band della Stardumb e nulla più. Dal 2005 in poi però tutto è cambiato e sono letteralmente esplose case discografiche come la già citato Red Scare, l'It's Alive, la Monster Zero e in Italia la Making Believe. Adesso, anzi da qualche annetto ormai, è tutto un fiorire di nuovi gruppi, anche nel nostro Paese. Vecchie band che si riformano - non credo proprio per far soldi visto che guadagnare qualche euro col punk-rock è quasi impossibile - e aprono blog e webzine dedicate al genere. Insomma l'epoca flower-punk (tanto per citare l'omonima compilation che fece ordine nella scena quasi 20 anni fa) è tornata. Anzi: era tornata e forse oggi sta iniziando nuovamente la sua parabola discendente. A farmi partorire tutta questo grumo di stronzate è stato il concerto di martedì sera degli Hard-Ons, altri eroi anni Novanta per gli amanti dei Ramones (anche se la band australiana, il suo meglio, lo aveva dato a fine Ottanta). Prima di loro hanno suonato gli italiani Riccobellis, un onesto terzetto dedicato al culto dei quattro fratellini newyorkesi. Loro, come i Locals, i Sensibles, i Tough (guarda caso con gente della vecchia scena), i riformati Monelli, i Goonies, Teenage Bubblegum, i Teenage Gluesniffers e molti altri sono le band della "nuova" ondata a cui si aggiungono i numi tutelari Manges. Ora mandatemi affanculo senza problemi.

lunedì 15 ottobre 2012

La regola del gioco

Giovedì scorso - voi avete tempo fino al 21 ottobre, quindi andate, sbrigatevi, correte - sono andato a vedere "La regola del gioco" di Elisa D'Andrea, regia di Emanuele Conte al Teatro della Tosse. Aprire una stagione con il testo di un'esordiente - anche se Elisa non è certo l'ultima arrivata - è stata una vera e propria scommessa. Ma quando uno spettacolo è bello, ben scritto, ben recitato e ben messo sul palcoscenico ci sono pochi cazzi: funziona. Ed è così che è andata per "La regola del gioco". Una rappresentazione carveriana mi verrebbe da dire, veloce come un colpo di pistola, che fotografa la vita di tre coppie (o forse quattro) in un attimo fuggente della loro esistenza. Due anziani, due ragazze lesbiche e un marito, una moglie e un'amante (anche se all'inizio aleggia persino lo spettro dell'amante di lei). Insomma il gioco dell'amore con soggetti e regole diverse, tanto per riprendere il titolo dello spettacolo, con dialoghi diretti e asciutti quanto una scenografia azzeccata: sette sedie bianche e le assi del palcoscenico nude e crude.
Il piccolo mondo contemporaneo dei protagonisti è fatto di litigi, speranze, abbracci e rifiuti, pensieri detti ad alta voce, routine dilanianti e promesse. Mentre due di loro parlano gli altri continuano silenziosamente a portare avanti la loro vita e, su un grande schermo alle spalle degli attori, scorrono capovolte le immagini di ciò che lo spettatore vede realmente. Una sorta di raddoppio di quello che avviene in scena, mentre le luci inquadrano via via i protagonisti, lasciando gli altri nell'ombra. Elisa non intende dare alcuna lezione. Ritaglia un pezzo di vita da ciascun personaggio e ce lo racconta. La forza dello spettacolo, come appunto i libri di Carver e di altri "veristi" contemporanei, non sta nella storia in sé, ma nelle parole e nella bellezza della semplicità umana. Certo poi ci sono trovate che tengono desta l'attenzione dello spettatore come la "teatralizzazione" degli sms (scopritelo da soli), ma il succo è che quando si accendono le luci, gli attori fanno gli inchini di rito e cala il sipario: ne vorresti ancora. Anche la fine è spiazzante, perché potrebbe essere l'inizio, oppure il centro di un'altra storia.
Il fulcro de "La regola del gioco" è la famiglia sgretolata e frammentata di oggi. Le diverse derive dello stare in coppia, sia fisicamente sia mentalmente. Ma c'è anche una dilaniazione continua dell'essere umano di fronte alla vita. Un pezzetto di noi in ognuno dei personaggi, che nel silenzio del teatro sembrano parlarci personalmente. Anche gli attori (Silvia Bottini, Linda Caridi, Bruno Cereseto, Sara Cianfriglia, Andrea Di Casa, Sara Nomellini e Lucia Schierano) sono bravissimi. Perché per mettere in scena uno testo così, paradossalmente, bisogna essere il meno teatrali possibile e rimanere umani al cento per cento.
E poi dove lo trovate uno spettacolo che inizia con la musica dei dEus? Fatevi un favore: andate alla Tosse e godetevi questo racconto. Se sottoscrivete la tessera sostenitori "Cantiere Campana" e avete meno di 28 anni l'ingresso costa persino poco. Altrimenti bevetevi due aperitivi di meno e andate a vedere "La regola del gioco". Non stasera, certo, che è lunedì e il teatro è chiuso, ma da domani e per tutta la settimana. L'appuntamento è alle 20,30. Dopo il teatro avrete anche il tempo per andare a casa a fare l'amore.


mercoledì 10 ottobre 2012

No fun house for the Doggs

A volte le cose capitano per caso. Del tipo che scrivo un post psichedelico su i Trans Upper Egypt e finisco per conoscere il cantante dei Doggs e trovarmi fra le mani il loro ultimo disco, "Red sessions". Otto pezzi di garage oscuro e malato, che hanno superato alla grande sia il test doccia, sia il test "notte". Mi spiego meglio. Visto che ho poco tempo per stare a casa e non possiedo iphone e cazzi simili, posso ascoltare musica solo in alcuni momenti cruciali della giornata: e cioè quando mi faccio la doccia e la barba al mattino, piazzando lo stereo portatile davanti alla porta del bagno, e quando vado a letto la notte, spostando il lettore cd all'ingresso della camera. Robe turche lo so, però non ho molte alternative. Quando stai fuori casa 12 ore, devi ingegnarti per ascoltare i dischi. Soprattutto se ne compri tanti.
Tornando alle qualità di "Red session", la prima cosa che mi è venuta in mente appena è partita "Midnight eyes" sono stati gli Stooges e chiunque conosca un minimo i Doggs penserà: bravo bella scoperta, questo lo sapeva anche mia nonna. Ok, è un'ovvietà. Però è bene dirla. Anche perché più che gli Stooges di primo o di ultimo periodo, questi pezzi mi ricordano quelli crepuscolari e tossici di "Fun house". Un groviglio di chitarre slabbrate e quella voce lontana e intensa, che sa tanto di garage fine anni Sessanta: un suono per nulla spensierato e rassicurante. Una sorta di rock'n'roll della crisi, tanto per capirci. Iggy e compagni però non sono l'unica influenza che si può trovare in queste otto tracce: fra un pezzo e l'altro, infatti, c'è anche un bel po' di lascivia alla Velvet Underground, miscelata all'odore di benzina e di chiuso dei bassifondi milanesi. Quella nebbia mista a smog della capitale amorale d'Italia, figlia del berlusconismo e nipote di Formigoni. Insomma un bella dose di musica incazzata e funerea, ma anche selvaggia e senza dio. "Wild boy", "Durgstore" la finale "Wax doll" corrono lente e ad ali spiegate e sono figlie del punk americano più deleterio. La voce di Marco è cupa come la sei corde di Christian. Mentre Grazia, alla batteria, insieme a Marco che suona anche il basso, stende un tappeto di ritmi tribali e sconci da farti girare la testa. C'è poco da dire: era un sacco di tempo che non sentivo un disco italiano suonare così. E anche se probabilmente non c'entra un cazzo, la cupezza di questi otto pezzi mi ha ricordato le vecchie canzoni dei Gags e degli Huns. La Milano punk di fine Settanta, per chi se la ricorda o l'ha recuperata in qualche modo: quella allergica al morbo hardcore che sarebbe arrivato tre anni dopo. Insomma quella di Glezos e soci, che più che all'America guardava all'Inghilterra dei Pistols e di Adam Ant. Le radici dei Doggs, nome perfetto tra l'altro, stanno anche lì, nonostante la band abbia una potenza e una consapevolezza maggiore rispetto al primo punk meneghino e segua soprattutto la strada tracciata oltreoceano.Ciò che hanno in comune questi due mondi, la Milano di ieri e di oggi, sono la cupezza e il nichilismo, la violenza e i vestiti neri. 
Per saperne di più comunque fatevi un giro sul loro sito Internet www.thedoggs.com. Questi ragazzi vi faranno ammattire!


domenica 30 settembre 2012

Rocking like an Egyptian

Non me ne ne fregava un cazzo di essere a stomaco vuoto e di aver passato una di quelle giornate spaccaculi al lavoro, dove non alzi quasi mai la chiappe dalla scrivania. Appena ho potuto mollare quella maledetta sedia, giovedì sera, intorno alle dieci ho preso la macchina parcheggiata di rapina vicino alle strisce blu e sono andato in Buridda. C'erano i Trans Upper Egypt e il resto contava poco e niente. Era quasi un anno che li volevo vedere. Dopo che mi avevano fulminato alla Claque con la combriccola della Borgata Boredom. Musica acida e krauta, psichedelia nuova di zecca e attitudine "no wave". Un bel mistone di cose, anche se alla fine non si tratta che di rock'n'roll cosmico a bassa fedeltà.
Un altro dei motivi per cui non avevo la minima intenzione di perdermi il loro concerto riguarda la mia eterna fissazione per i dischi, insomma il feticismo dell'acquisto compulsivo. E siccome dei cari "egiziani de Roma"  avevo soltanto una canzone contenuta nella compilation della Borgata, ero pronto a fare man bassa. E così manco il tempo di entrare e di ordinare una Menabrea al bar, che ero già al banchetto, mentre dietro suonavano i Cuccioli  Morti. In un secondo ho agguantato sette pollici e lp. Ma sapevo che sarei tornato a "sprecare" le mie palanche. Nel frattempo le birrette correvano come macchine impazzite. E lo stomaco protestava. Dei McNamara Playhround Heroes non ho un gran ricordo. Ma appena sono saliti sul palco gli Hiss, sempre romani e sempre del solito giro buono, mi sono avvicinato con curiosità. Minchia: batteria furiosa, basso ed effetti, la formazione definitiva. Due pazzi al timone e un suono così acido e marziale, che mi faceva sobbalzare. Anche se ero in piedi. Robe belle. E infatti mi sono messo il 10 pollici in saccoccia (risentito è uno sballo). A quel punto non toccava ad altri che ai Trans Upper Egypt: le star della serata. E in effetti hanno suonato da paura. Sporchi, marci e imbecilli come pochi. Dilatati alla massima potenza e furiosi. Dal vivo (ho scoperto dopo) sono un po' diversi rispetto al disco. Tanto che sembrano quasi due band differenti. Splendide in entrambe le versioni, sia chiaro. Ma quasi l'alter ego l'una dell'altra. Parte della bellezza sta anche nel loro approccio alle cose e questo vale per tutte le band della Borgata. Gente che va in saletta e si registra senza troppe cazzate. Produce cdr e vinili con tanto di supporto di quei pazzi della Bubca Records, mentre tutti suonano con tutti, in cento gruppi diversi. Una sorta di Great Complotto all'amatriciana. Dove il genere che si fa non è importante. Basta tirare fuori ciò che hai dentro in quel momento. Ed è solo quello che conta.
Che dire del resto, a inizio serata ho persino fatto un piccolo smarrone con il loro bassista, visto che il giorno prima avrei dovuto intervistarli per il "Corriere Mercantile" ma poi sono scoppiati i soliti casini e ho dovuto fare dell'altro. Quando mi sono "denunciato" al bar mi ha dato un pacca sulla spalla e ha fatto un sorrisone. Come ho detto più volte: i Trans Upper Egypt sono una band da leccarsi le dita dei piedi.


giovedì 20 settembre 2012

I've got a new NOFX album again

E' un periodo in cui mi stanno passando per le mani parecchi dischi. Quando sono andato in ferie ho avuto due giorni di follia su Ebay e ho preso di tutto (aspetto ancora una compilation surf dall'Inghilterra). E poi naturalmente Gian e Taxi Driver, i concerti: insomma, mi sono rovinato.Però nessuno di questi - e qui parte la scomunica - mi ha colpito come "Sefl Entitled" di NOFX. Sarà che ormai per me Fat Mike e soci rappresentano una questione di cuore. Un pezzo importante della mia adolescenza (ma che dico: tutta quanta), con tanto di prime sbronze, primi concerti, casini a scuola e "Durgs are good" (titolo di una loro canzone) scritto sulle mani col pennarello. Robe sceme da bambino punk, che però ti restano sempre. E a cui ripensi con un po' di indulgenza ma anche con molta soddisfazione.
Come accade per altri gruppi poi, anche per i NOFX, mi ricordo quando e dove ho comprato tutti i loro dischi. Il primo - per me - "Heavy petting zoo", l'ho preso da Sonorama a Pegli dopo una cassetta che mi aveva letteralmente fulminato (ero stato costretto a vendere "Blood sugar sex magic" per trovare i soldi). E poi "So long" da Ricordi dopo la recensione su "Musica" di "Repubblica", Punk in Drublic in via del Campo e tutti i dubbi che mi sono venuti la prima volta che l'ho messo su (ora è uno dei miei dischi da isola deserta). E ancora: "The longest line" nuovamente da Ricordi dopo uno sciopero a scuola, "White trash" preso a Madrid in gita scolastica e "Liberal animation" da Dibe (<guarda che fa schifo> mi aveva avvertito). "S&M airilnes" l'ho comprato al Music Store prendendo l'1 da Pegli e bossandomi i compiti per il giorno dopo, mentre "Maximum rock'n'roll" dopo molto peregrinare l'ho trovato da Pink Moon. "The decline" invece l'ho aspettato giorni e giorni da Discanto a Sestri, dove ho preso anche "Pump up the valuum" la sera prima del loro concerto a Milano. Lo split coi Rancid me lo sono procurato nel negozio degli Ignoranti, Wynona Records e la raccoltona con le rarità me l'ha fatta arrivare a Pegli M Musica, giusto qualche mese prima di chiudere e sei mesi dopo aver aperto. "Ribbed", comprato tardissimo perché avevo una cassetta scalcinata che mi avevano fatto dei ragazzi più grandi a scuola, l'ho comprato alla Fiera del disco, mentre per "War on errorims" mi sono rivolto a Felipe. "Wolf in wolves' clothing" invece è arrivato con la posta tramite Ebay, "Coster" l'ho preso da Fnac e "Self Entitled" infine da Disco Club
Tornando proprio a questo nuovo "parto" dei NOFX (contenti che vi ho risparmiato dove ho preso le altre raccolte, i singoli, gli ep ecc?) sono giorni che non faccio altro che ascoltarlo, prima su Youtube e da ieri, finalmente, nel mio stereo. La prima volta che ho schiacciato il tasto play e mi sono sistemato il portatile sopra le coperte ho pensato che Mike si fosse bevuto il cervello. Non trovavo né un capo né una coda al disco. Mi sembrava solo un minestrone. Poi ho dato un'occhiata ai testi (il mio inglese fa pena, ma mi sono arrangiato), ho risentito il super-file di Youtube di nuovo per intero e ho cominciato a sentire che qualcosa stava cambiando. I ritmi erano veloci senza mai una pausa, i pezzi incazzati me sempre melodici. E così ho capito quello che mi aveva spiazzato all'inizio: non c'era una canzone di punta. Erano tutte sullo stesso livello. E tutte spaccavano. E così da un 6 politico iniziale, sono arrivato a un 7 e mezzo, se non di più. Ma passiamo alle canzoni. "72 hookers", il primo pezzo è una cavalcata hardecore a mille all'ora, mentre brani come "I Believe in goddes" e "She didn't lose her baby" sono classiconi NOFX un po' più ruvidi. Poi ci sono fulmini come "Cell out" e melodie quasi pop come "This machine is 4"; per non parlare della ballatona post divorzio con tanto di autocitazione "I've got one Jelous again, again", infarcita di riferimenti a band anni Ottanta e cantanta con un'amarezza mai sentita in Fat Mike. Il resto, direbbe Flaiano, fa volume. E invece no, perché tutti i 12 pezzi del disco funzionano alla grande. Il modo migliore per sentirli però è partire dal primo all'ultimo. Senza scorporali, o cambiargli di posto. "Self Entitled" si ascolta tutto insieme. E' un disco punk, anzi hardcore melodico nella più nobile accezione del termine. Semplice, diretto e potente, tanto per tirare fuori un po' di banalità. Però è vero. L'unica avvertenza è che se vi fa cagare al primo ascolto, sarebbe il caso di dargli almeno un'altra possibilità. Se il sintomo persiste consultare il medico (o tornare ad ascoltare i Guns n' roses e andare a fanculo).


mercoledì 1 agosto 2012

Tony Sly and the family stoned

Sono qui che mi bevo l'ennesima birra presa dal frigo e ascolto i No Use For A Name. Come il più tipico e insulso fan sconvolto, appena ho saputo che Tony Sly, il cantante e fondatore dei No Use, era morto, mi sono buttato sul divano e ho cominciato ad attaccarmi alla bottiglia. Nel verso senso della parola. Carlsberg gelata, perché alla Coop erano in offerta. Prima di stappare la seconda birra, però, ho preso il vinile di "Leche con carne" e l'ho infilato sul piatto. E appena finirà il lato B, butterò dentro lo stereo il cd di "More betterness, il mio album preferito dei No Use e anche l'unico che abbia veramente comprato (quell'altro me l'ha dato in comodato d'uso Andre). Insomma per farla breve sta notiza della morte di Tony Sly mi ha sconvolto. Letteralmente. Cazzo: aveva 41 anni e sul sito della Fat non c'è scritto quasi nulla sulle cause. Dicono solo che Tony non c'è più e bla bla bla. Il motivo al momento resta ignoto. Non che importi poi molto, per carità, però quando muore qualcuno che ti ha tenuto compagnia per così tanti anni, prima nella tua cameretta e poi nel buco che hai eretto a tua nuova ed eslcusiva dimora, è normale voler conoscere ogni minimo dettaglio sull'accaduto.
Anche perché - diciamocelo - non è che io i No Use gli ascoltassi tutti i giorni. E come ho detto prima non li seguivo neanche in maniera morbosa, da comparmi ogni loro singolo disco. Nonostante questo però li ho sempre considerati un gruppo speciale, che ha associo a parecchi bei momenti della mia adolescenza e dei miei vent'anni. La prima volta che li ho visti dal vivo non sapevo molto di loro. Era il 2000, credo, e mi trovavo a Bologna per il secondo Indipendent Day Festival. I No Use hanno suonato nel cuore del pomeriggio. Sotto un sole da vertigini e allucinazioni mistiche. Ma la cosa che ricordo di più di quel caldo giorno di fine agosto (forse addirittura di inizio settembre) di dodici anni fa è un tizio coi capelli rossi e la maglietta dei Descendents, che, in mezzo al pogo polveroso, canta spensierarato e a scuarcia gola "Coming too close". Una scena che chissà per quale motivo mi è rimasta stampata nella testa.
Qualche anno dopo invece, nel 2005, li ho rivisti al primo Rock in Idro insieme a un'ammucchiata di band da lacrime agli occhi (Nofx, Offspring, Me First, Pennywise, Turbonegro, Hives, Millencolin: la summa della mia adolescenza hardcore melodica). E anche in quel caso Tony e compagni non si sono risparmiati. Ci hanno regalato quasi un'ora di melodie cristalline e chitarre elettriche, belle canzoni e sorrisi.
Anche perché se devo essere proprio sincero (e qui forse mi sputtano definitivamente) i No Use che ho sempre amato di più sono stati quelli del medio-ultimo periodo. Quelli più melodici e power-pop, insomma, magari un po' scontanti, ma sempre forti della stupefacente capacità di Tony di scrivere pezzi magnifici. Forse da qualche anno erano diventati un gruppo più pop-core, che una band punk-rock. Ma per me non è mai stato un problema. Anzi, quando sentivo la voce cristallina di Mr.Sly rincorrera la sua chitarra Les Paul sulla classica ritmica hc melodica anni Novanta non potevo fare a meno di sorridere. D'ora in poi sarà più difficile.

lunedì 2 luglio 2012

Walking out on Paul

Era da quando avevo sentito i Radio Days suonare "Rock'n'roll girl" che volevo vedere Paul Collins dal vivo. E tutte le volte che il re del power pop aveva fatto tappa in Italia me l'ero perso. Così, sabato, dopo aver agguantato di culo un giorno di festa nel fine settimana (con la promessa di lavorare domenica, però) non potevo certo lasciarmi scappare l'occasione di vedere i Beat, o quello che restava di loro, allo Shake della Spezia. C'è da dire, poi, che ogni volta che vado da quelle parti, finisco per fantasticare su come sarebbe bello trasferirmi lì.Vivere in Val di Vara o alla Piana Battolla dove ha la casa Alberto. Prendere la residenza a Ca' di Mare o fare qualche tuffo a Portovenere. Insomma ho scoperto che la riviera di Levante, non quella genovese, quella spezzina, mi fa andare fuori di testa. Quel punto di collegamento fra la spiaggia e la campagna placida e silenziosa, coi grilli e l'erba alta, le strade polverose e l'acqua limpida, resta per me un luogo magico. E poi alla Spezia c'è la Skaletta, c'è lo Shake e c'è una scena punk che noi ce la sognamo. La provincia ha superato il grande centro urbano (non quello di Casini...). Da alemno 15 anni lì accadono delle cose, mentre noi restiamo a rimorchio. Pazzesco. Anche Paul Collins, cazzo, mica è venuto a Genova. C'è toccato guidare fino allo Shake per vederlo. Detto questo è anche vero che andare ai concerti resta una bella occasione per fare una gita. Buttarsi in macchina verso le sei con Grazia, mettere "Exodus" di Marley e godersi l'autostrada libera. Chiacchiere, siga, baci e poi una cena a Muggiano, su una piazzette disegnata apposta per noi dove c'hanno portato ravioli di pesce e sgabei. La ciliegina sulla torta è stato il concerto, che prima di partire sembrava l'obiettivo finale e poi, forse, si è rivelato solo un pretesto. Un pretesto stupendo, intendiamoci. Perché Paul, irriconoscibile fisicamente rispetto agli anni d'oro dei Beat, con quella pelata da zio d'America e il fazzoletto rosso al collo, sa ancora farti palpitare il cuore a dovere. Certo, la voce sembrava un po' più roca e meno pulita di un tempo, ma i suoni erano fantstici, le chitarre risplendevano a ogni accordo e Dario dei Radio Days (il cerchio si chiude) era perfetto nel ruolo di sei corde solista della band. Il concerto è inziato tardissimo. Alle 2. Giusto in tempo per farsi mangiare dalle zanzare e scolarsi qualche birra con Cecio (che per fortuna ci ha ospitato alla Piana), Grazia e Joe Falchetto (che come un eroe se l'è fatta a piedi dalla stazione). Paul, comunque, ha saputo farsi perdonare. Uno dopo l'altro ha suonato tutti i suoi pezzi più belli. Praticamente l'intero primo album dei Beat, più qualcosa dal secondo e dai suoi lavori più recenti e, naturalmente, i singoloni dei Nerves. E mentre i ragazzi sul palco suonavano mi veniva da pensare ai vecchi componenti dei Beat, quelli che hanno inciso il disco d'esordio tipo Steve Huff o Michael Ruiz. Chissa che fine hanno fatto. Magari, mentre Paul gira il mondo con quei pezzi, sono a casa, in qualche Stato sperduto degli Usa a guardare la tv come dei normali cinquantenni. Con la moglie che gli rompe le palle e i figli che vanno male a scuola. <Guarda che questi prendono tutto dai Beatles> mi riportava sulla terra Cecio. Lo so, cazzo, però a me piacciono di più. Io a Lennon e co. preferisco i loro imitatori. Che ci posso fare. Dovevate sentirle quelle chitarre: sembrava che cantassero. E quando è partita "Walking out on love" ho preso l'ascensore per andare in Paradiso.

domenica 24 giugno 2012

Il mio Universo

Ci sono poche canzoni capaci di commuovermi. Non perché sia un duro, anzi. Però è difficile vedermi piangere. E negli ultimi dieci anni è successo davvero raramente. Ogni volta che ascolto "Universo", però, un pezzo dei Ritmo Tribale contenuto in un loro disco di metà anni Novanta, qualcosa dentro di me comincia a muoversi. Ed è sempre stato così, sin dalla prima volta che mi sono imbattuto in questo brano. Mi è succeso anche stamattina mentre risentivo il pezzo su youtube, perché fisicamente l'album non ce l'ho (sì lo so sono un coglione). Ma forse c'entra anche il fatto che ieri sera, finalmente, dopo tre anni di attesa, ho visto Edda, l'ex cantante della band, suonare dal vivo. Me l'ero perso già due volte, da quando, nel 2009, un po' in sordina, era tornato a scrivere musica dopo 13 anni di silenzio, droga, comunità e ponteggi. La prima volta l'ho sfiorato per pochi minuti, aveva iniziato prestissimo, di spalla agli Afterhours. Il concerto era partito alle otto e mezza e finito alle nove perché il giorno dopo Edda doveva alzarsi alle cinque di mattina per andare a lavorare. La seconda volta, pochi mesi fa: mentre andavo alla Claque a sentirlo mi si è bucata una gomma e vista la mia manualità è stato un delirio. Insomma sembrava una maledizione. E anche ieri, per qualche istante, ho temuto di non farcela. Poi però, nonostante il lavoro e i casini, sono riuscito ad arrivare in tempo: ho comprato a scatola chiusa i dischi al banchetto (prima di sentirlo su cd volevo avere la prova live e mi sono tenuto tutto questo tempo lontano dai suoi lavori) e mi sono piazzato davanti al palco del Festival delle Periferie insieme a pochi altri eletti. Edda è un tipo schivo, timido e geniale. Ha parlato poco e quando l'ha fatto sembrava emozionato come un bambino. Proprio lui, cazzo, che ha fatto la storia del rock italiano. I pezzi erano sconnessi, folli: sembrava un cantautore nero. Usava la voce come uno strumento e come contorno aveva un tappetto di musica elettrica fatta di due chitarre e un basso. Una struttura essenziale e dissonante, al servizio di testi incasinati e bellissimi. Come se qualcuno volesse costruire la felicità usando la sofferenza. Era incredibile. Mai sentito nulla di più intenso e bastardo. Molti l'hanno snobbato, qualcuno gli ha concesso la sua attenzone per quello che aveva fatto coi Ritmo Tribale in passato. Io invece sono rimasto pietrifcato di fronte a tanta bellezza. Fare due chiacchiere con lui, come mi è capitato a fine concerto insieme a Roby, Fabry e Giulio, è stato frustrante e divertente allo stesso tempo. Nel senso che Edda ha una propensione a sminuire il proprio lavoro che è quasi imbarazzante. E' una persona buona, che ha fatto degli errori (ricaduti esclusivamente su se stesso) dei quali continua a portare il fardello. E' come se chiedesse sempre scusa e "permesso". Mentre io avevo solo voglia di abbracciarlo e stringergli la mano. Anche perché oltre ai complimenti per il concerto, avrei tanto voluto parlargli di queste lacrime che contnua a farmi scendere quando ascolto "Universo". Questo magone, misto a una gioia immensa che arriva ogni volta che sento la strofa correre verso il ritornello. C'è una frase in particolare che mi fa venire la pelle d'oca, sin da quando ho sentito questa canzone per la prima volta a 14 anni, nel 1996, grazie a una compilaiton su cassetta che mi aveva comprato mio padre alla fine della terza media. "Hai avuto tutto, io invece no. A me non sembra giusto: giuro che mi vendicherò". Da 16 anni mi identifico totalmte in quei versi. Nella prima parte che descrive alla perfezione la mia frustrazione proletaria nei confronti della vita e degli altri e poi nella seconda, quando arriva la reazione cattiva e redentrice, una manciata di parole che da ragazzino mi hanno aperto un mondo. Lo so che a qualcuno potrebbero apparire un mucchio di stronzate infilate una dopo l'altra, ma ricordo perfettamente che quando a 14anni cantavo "Universo" davanti allo specchio, dopo averla sentita a ripetizione tutto il giorno, iniziavo la strofa con una voce sommessa per poi esplodere in un sorriso bastardo. Era la declinazione al futuro della mia voglia di rivincita sulla vita. E ancora oggi è così. "Universo", e forse solo adesso me ne rendo conto, è stata la canzone che mi ha educato al punk.

martedì 19 giugno 2012

Bestiacce e bestiari

E' pazzesco: sono di nuovo qui a farmi pubblicità da solo. Però, al di là della mia partecipazione, il "Bestiario del lavoro" pubblicato dalla casa editrice indipendente genovese Bradiponauta è davvero un libercolo che merita di essere letto e comprato. Per prima cosa è completamente Diy: essenziale, anche se curato, semplice, ma ben fatto. E poi dentro ci sono i disegni di Alessandro Ripane, detto Ripa, uno degli artisti underground genovesi più interessanti che conosca. Il progetto è semplice: i ragazzi di Bradipo (essenzialmente Giacomo Bagni) hanno chiesto a tredici persone di scrivere alcune rige - tipo enciclopedia - su una serei di animali fantastici e strambi disegnati da Ripa. A me è toccato - guarda caso - Il Gufo Impiegato, ma ci sono anche la Formica Cuoco, il Gallo Skinhead, l'Amantide Religiosa Cameriere e così via. Uno zoo dell'assurdo, fra Diderot e Debord, corredato dai disegni di Ripa - fatti a penna o col pennino - che in pochi tratti riescono a dare vita a una realtà sghemba e ingarbugliata. Prendete l'animaletto che mi è stato affidato, il Gufo Impiegato, dietro i suoi occhioni da sfigato e i vestiti da quattro soldi, c'è tutto un piccolo mondo di fantasia malata e terrificante realtà. Nella prima parte della spiegazione "scientifica" in cui parlo delle abitudini del pennuto, devo essere sincero, mi sono ispirato alla saga di Fantozzi, anche perché alla parola "impiegato" non ho resistito e mi è subito venuto in mente il mitico ragionier Ugo. Poi, dopo questo omaggio, ho cercato di cavermela da solo.
Oltre alle mi stronzate, nel "Bestiario del lavoro" si trovano parecchi pezzi interessanti come quello di Detrocboi sul già citato Gallo Skinhead e quello di Giulio Olivieri sulla Mantide (roba kafkiana mica da ridere). Ma ripeto: a parte le deliziose follie scritte dentro questo volumetto, la cosa più interessante sono senza dubbio i disegni in bianco e nero e dall'aria spugnosa a tonadeggiante di Ripa.
Il "Bestiario" lo potete trovare direttamente da Bradiponauta su bradiponauta.wordpress.com o da BooksIn in vico del Fieno (Genova). Costa 6 euro. Sono 150 copie numerate a mano. E io ho la numero 5: olè

venerdì 25 maggio 2012

Jeffrey Lewis ti voglio bene

Di solito la regola è: non avere troppe aspettative quando ti consigliano di andare a vedere il concerto di un gruppo di cui non hai mai sentito parlare. E io, naturalmente, l'ho infranta. Anche perché da qualsiasi parte mi arrivasse "l'invito" per la serata in questione, il nome di Jeffrey Lewis & The Junkyard era accompagnato da aggettivi che definire esaltanti era decisamente un eufemismo. E così, quando è stato il momento di andare alla Claque e assistere a sto benedetto concerto un po' di paura-pacco, in fondo in fondo, c'era. Se non altro perché in ste situazioni la sfiga è sempre in agguato e perché anche io, sull'onda dell'entusiasmo, avevo speso nei confronti di Jeffrey e compagni un buon numero di lodi sperticate. "Com'è sta roba che c'è domani alla Claque?" mi hanno chiesto in due o tre. "Ah, una figata pazzesca...!" garantivo io, pentendomi appena un secondo dopo dell'azzardo appena compiuto. Insomma per la serata di mercoledì avevo firmato un po' di assegni a vuoto, non solo con me stesso ma anche con alcuni amici. Ma cazzo se avevo (inconsapevolmente) ragione! Il concerto di Jeffrey Lewis & The Junkyard è stato uno dei più belli in assoluto visti quest'anno e ancora mi mangio le mani per non essere andato a sentirlo la prima volta che è venuto a Genova un anno e mezzo fa. Parlare di anti-folk però, la definizione per eccellenza che è stata appiccicata alla sua musica, secondo me è piuttosto riduttivo. Se non altro perché, come tante etichette che si sprecano in questi casi, difficilmete rende bene l'idea di ciò che è accaduto l'altra sera sul palco della Claque. Prima di totto, ok, è vero: Jeffrey suona folk, ha una chitarra acustica e nella band c'è una tipa che ogni tanto tira fuori un violino. Però non aspettatevi un classico cantautore americano dall'aria triste che racconta quanto vorrebbe suicidarsi. No, il nostro assomiglia più a un novello Bob Dylan deciso a coverizzare i primi quattro album dei Ramones, nella cameretta di casa sua. Un punk in tutto e per tutto, che suona veloce e melodico, scanzonato e aggressivo, ma in punta di piedi. Certo, c'è un po' di gusto lo-fi nelle canzoni di Jeffrey, ma nulla di finto sporco o retro a tutti i costi. I pezzi sono, semplicmente, uno più bello dell'altro. E visto che il nostro è pure un ottimo fumettista, nel corso del concerto ci ha anche deliziato con la proiezione di alcuni "cartoon" undeground accompagnati da storielle cantate in rima. Un vero sballo, per esempio, è stata la storia del punk newyorkese dal 1950 al 1975: un collage di diapositive intervallato da pillole musicali di grandi classici di Velvet Underground, David Peel, New York Dolls e Richard Hell suonate al momento. Filologia rock da vero nerd, per parlare di quando il punk - più che un genere musicale - era un attitudine. E chissà che non sia proprio questa la chiave di lettura per capire davvero il concerto di Jeffrey: molti anni Sessanta, ma anche tanta ruvidezza e una semplicità disarmante. Un libro di storia della controculura elettrica, studiato con una chitarra acustica. Musica da falò per critici rock alla Lester Bangs. Amore a prima vista, insomma. Unico neo della serata il fatto che la band non avesse con sé manco uno straccio di disco o di fumetto. Tutti sold out, ci hanno spiegato sorridenti. Sì vabbè fanculo. Per fortuna che c'è Disco Club. Ora lo chiamo e accendo un mutuo.

lunedì 16 aprile 2012

Questione di Sleeves

Ci voleva una di quelle giornate storte e nate sbagliate per avere la botta di culo che ho avuto stamattina. Sì perché quando ti alzi prima del solito e perdi un'ora a cercare le chiavi di casa, i tuoi capi ti mandano a una conferenza stampa a cui non dovevi neppure andare e appena provi a prendere il bigliettino delle poste per pagare una bolletta scaduta da 5 cinque giorni ti accorgi di avere 150 persone davanti perché c'è stato il blocco totale dei terminali degli uffici di tutta Italia, trovare un disco, anzi il disco, che cercavi da mesi, è molto più che un risarcimento. E' la dimostrazione che forse qualcosa lassù si muove. E che magari anche il dio dei dischi, nella sua infinita cattiveria e crudeltà, qualche volta può avere un po' di compassione per noi mortali. Già perché questa mattina da Disco Club, quello dell'usato incastrato nel vicoletto a due passi dalla banca equa, ho trovato finalmente (anche se era lì da un po' di tempo) "Five days to hell" degli Sleeves. Un bel pezzo di vinile datato 1987: il primo album sulla lunga distanza di una delle band genovesi più bollenti e americane di sempre. Gli Sleeves di Marco e Carlo Cheldi hanno scritto, seppur per pochi anni, una delle storie più nobili del rock'n'roll di questa vecchia e sonnacchiosa città. I nostri, d'altra parte, arrivavano direttamente dalla prima scena punk genovese, grazie al loro passato nei mitici Establishment. Roba folle e iconoclasta che mescolava Sex Pistols e Dead Kennedys (o almeno così racconta chi c'era). Gli Slieeves, invece, col punk avevano, o forse dovrei dire hanno - perché recentemente si sono riformati - una parentela piuttosto alla lontana. Sono decisamente più figli del deserto e del  rock'n'roll. Tipo i Dream Syndacate e gli X tanto per capirci. Come se un serpente viscido e polveroso - magari quello stampato sul retro della copertina per il logo della Cobra Records - avesse inghiottito una chitarra elettrica e ne venisse posseduto. Per la storia completa della band comunque vi rimando all'ottima intervista con tanto di  biografia realizzata da Andrea Valentini sul suo "Black milk (a temporary fix of)". Io intanto, anche se è l'una e mezza di notte passata, mi godo i solchi di questo piccolo gioiello di furia e melodia.

giovedì 15 marzo 2012

Sei in Banana dura

La serata era iniziata già male. Ero uscito da lavorare sul filo del rasoio, verso le nove e tredici. E avevo circa quattro minuti per raggiungere il binario tre e il treno per Savona. Ma quando sono arrivato in stazione me lo sono visto praticamente partire davanti agli occhi. Ero scazzato, affamato, stanco. E così sono andato al Kitchen a leccarmi le ferite e a ordinare una delle loro strepitose carbonare da 11 euro. Roba incredibile, che vale tutti i soldi che costa. Mentre stavo dando le ultime golate alla mia birra in bottiglia, dopo aver raschiato tutto il possibile dal piatto, mi telefona Giulio. "Che fai? Tra cinque minuti inizia a suonare un gruppo garage di Roma. Sono dal baretto dei giardini Luzzati, sopra la Claque". Baretto? Ma quale? Quello che un tempo era degli sbirri? E che ci vanno a fare in un buco così, da spumantino e panetti abrustoliti? Vabbé, gli dico, pago e arrivo. In cinque minuti sono su e vedo Giulio fuori dalla porta che indica il cartello scritto a mano sul vetro del bar: Stasera Trio Banana. Coooosa? Minchia il Trio Banana. Nel baretto degli ex sbirri? Adesso? Minchia. Entriamo e siamo praticamnte solo noi due. Più la band, i baristi e una tavolata di tamarri che beve Moretti da 66. Su un giradischi nascosto dietro la strumentazione girano dei vinili afro. E quando leggiamo spritz a tre euro e Menabrea a due e euro e mezzo, ci sembra di essere in Paradiso. I Banani, poi, iniziano nel giro di pochissimi minuti, giusto il tempo di ordinare il beveraggio. Ne segue un concerto intenso, sgraziato, suonato in due metri quadrati e bello tirato. "Pochi ma buoni" ripete ghignando il bassista. Ed è quasi vero. Soprattutto l'aggettivo pochi. La musica è davvero devastante. Tanto che mi chiedo che diavolo ci facciano in questo buchetto - accogliente, per carità - davanti a due stronzi come me e Giulio. Il Trio Banana meriterebbe almeno la Claque. Ruggiscono come carogne incazzate, dall'ampli di chitarra esce un suono catarroso e lancinante. Basso e batteria pompano che è un piacere e la voce sgraziata del cantante è perfetta. Quando finiscono ho una gran voglia di abbracciare Giulio e ringraziarlo di avermi chiamato. Prima però mi fiondo sul banchetto e accatto i loro due cdr, un fanzine che si chiama "Merda" e un 45 giri dei Dements dal titolo "No job, blowjob" con tanto di copertina esplicativa. Minchia, il punk.

mercoledì 29 febbraio 2012

Figli del demonio

Alla fine è uscito. "Figli del demonio", la biografia dei Dirty Actions che ho scritto con l'imprescindibile collaborazione di Johnny Grieco e mettendo insieme i ricordi di tanti ragazzi degli anni Settanta e Ottanta genovesi, è oggi nelle librerie (o almeno lo sarà a giorni, anche se da qualche parte si trova già: quindi fatevi sotto). A pubblicare il librello è Liberodiscrivere e presto ci sarà qualche presentazione a Genova e da qualche altra parte in Italia (lavoro permettendo). Insomma non sono certo il tipo che ama farsi pubblicità, però anche star zitto non mi sembrava giusto. Soprattutto perché dietro questo libro ci sono due annetti buoni di lavoro. Non continuativi, per carità. In mezzo ci sono stati il mio esame e casini vari. Però se posso permettermi di dire qualcosa a mio favore e a favore di Johnny: ce l'abbiamo messa davvero tutta. Abbiamo rovistato dentro una storia bellissima ma quasi completamente dimenticata (a livello ufficiale) come quella della prima scena punk genovese. E scavando sempre più in profondità abbiamo conosciuto (io) e ritrovato (Johnny) persone stupende, con tanta voglia di non dimenticare quel periodo strepitoso e unico vissuto dalla nostra città. Mi ricordo ancora il messaggio che mi ha mandato Johnny quel giorno di fine agosto 2009 in cui mi parlava di un progetto per festeggiare - quello stesso anno - il trentennale dalla formazione dei Dirty Actions. Doveva essere un istant book e invece si è trasformato in qualcosa di più. E, senza neanche farlo apposta, invece di uscire per celebrare la formazione, sarà fuori giusto per i trent'anni dallo scioglimento. Quel 1982 in cui sono nato pure io. Come dire: tutto torna. Le date delle presentazioni sono ancora da confermare, ma comunque appena saranno ufficiali farò tutta la pubblicità del caso. E poi se qualcuno dall'altra parte dello schermo si trovasse "Figli del demonio" fra le mani e decidesse di leggerlo, mi piacerebbe sapere che ne pensa. Mi raccomando però, senza "volemose bene" di sorta. Se vi ha fatto cagare ditemelo pure. Non me la prenderò di certo (forse, però, Johnny vi ucciderà).

martedì 7 febbraio 2012

So what

Sarà colpa dell'effetto Retromania come dice Reynolds - prima o poi me lo dovrò comprare sto minchia di libro, anche se costa una cifra - ma più invecchio più mi rendo conto che le mie certezze culturali affondano per la stragrande maggioranza nel passato. Non si tratta di semplice nostalgia. Anzi, quella non mi sfiora quasi. Perché i bei tempi andati non erano poi così belli. L'unico vantaggio era che si era tutti più giovani. Ma non è che adesso sia decrepito, anche se certe volte mi viene il fiato corto a fare le scale. Comunque: il punto è che anche nei dischi nuovi che compro c'è sempre quella componente "retò" che non mi molla mai. Prendete tutta la nuova scena hardcore italiana degli ultimi mesi. Gruppi come Verme, Gazebo Penguins, Fine Before You Came, la nuova direzione presa dai Death of Anna Karina, i Do Nascimiento ecc. Per lo più si tratta di band nuove, anche se con veterani della scena che, quasi all'unisono - qualcuno copiandosi qualcuno no - hanno deciso di risuonare l'hc che andava una dozzina di anni fa, con l'aggiunta di testi sempre e solo in italiano. Ora: andare fuori di testa per questa roba, come dice Ale Granara, rischia di essere solo un sentimento effimero dettato da una nuova moda. Anzi, dalla solita moda di pescare nel passato per affrontare con più sicurezza il futuro (non è che Ale abbia usato proprio le suddette parole, ma il concetto mi pareva questo..). Tutto giusto per carità, però,come al solito, c'è un però. E si tratta del fatto che la musica, fondamentalmente, al di là di quello che ne può pensare Scaruffi o qualche atro critico più titolato di me (parecchi direi...) è puro divertimento, un piacere viscerale che va ben oltre parole come innovazione e originalità. Non dico che non conti mettersi a fare qualcosa di diverso. Ma ci terrei a ribadire che per me non rappresenta minimamente il metro di paragone con cui giudicare un gruppo o un disco. Se quello che esce dalle casse dello stereo mi piace, non me ne fotte un cazzo che la gente lo consideri pura merda o peggio qualcosa di già sentito. Vabbè adesso vado ad ascoltarmi "Hello bastards" in onore di questo blog scalcagnato.