lunedì 21 dicembre 2015

Classifica 2015

10 - Nights Birds “Mutiny at muscle beach" 
Il primo disco su Fat Wreack - ma il terzo in carriera - di questa "nuova" hardcore band americana (che, lo ammetto candidamente e con un po' di vergogna, non conoscevo) è una vera bomba. I pezzi scorrono uno dietro l'altro come tante staffilate; il suono è un mix fra Agent Orange e Dead Kennedys e la furia è quella dei bei tempi andati. Il revival hc americano degli Anni Ottanta, quando è onesto e sincero come in questo caso, riesce ancora ad avere un senso.

9 - Red Dons “The dead hand of tradition” 
Ancora hardcore vecchia scuola. E ancora un gruppo abbastanza recente (sono in giro da una decina d’anni). Forse questo non è il loro disco più bello, ma i Red Dons meritano di entrare in classifica, soprattutto perché ogni loro album è un piccolo grande evento. Anche in questo caso sembra di essere nella California di 30-35 anni fa. I numi tutelari sono gli Adolescents e il beach punk, anche se qui la componente politica ha un ruolo di primo piano. Ho scoperto questa band da pochi mesi e ho avuto la fortuna di vederla dal vivo: eravamo una ventina di persone e siamo rimasti tutti immobili, quasi ipnotizzati dall’intensità del loro set. Pochi fronzoli, una mezzora di musica tirata e melodica, con cori spaziali e brani evocativi. Questo è ciò che dovrebbe essere sempre l’hardcore.

8 - I Fenomeni “Dodicesima dimensione” 
Non sbagliano mai un colpo Franco, Matteo, Pier e Fabio. E anche se questo secondo lp suona un po’ diverso rispetto ai loro lavori precedenti (un album e vari singoli), “Dodicesima dimensione” resta comunque un disco da ascoltare e da avere a tutti i costi. Il beat dei primi tempi – un’operazione quasi calligrafica ma ricca di personalità portata avanti ormai da cinque o sei anni – si mescola a tutta una serie di nuove influenze che guardano all’India e al misticismo. Più che nel ’65, anno da cui idealmente i Fenomeni erano partiti, adesso sembra di essere approdati al ’67 o al ‘69, quando alcune band del periodo psichedelico e beat decisero di andare oltre quelle sonorità, rendendo più complesso e ricco il loro suono. Insomma, questo album sembra l’anello di congiunzione fra le melodie beat e i primi vagiti prog Anni Settanta. E il risultato è un concept che strizza l’occhio all’Inghilterra musicale più colta, ma anche alle band italiane più coraggiose.

7 - Pool Party “Number one”. 
Prendete quattro deficienti con il quoziente intellettivo di un criceto, rinchiudeteli dentro una stanza con uno stereo da quattro soldi, l'intera discografia dei Ramones e una ventina di fusti di birra a buon mercato. Il risultato sarà uno dei dischi punk-rock dell'anno: un concentrato di ignoranza, intriso di melodie ruvide e testi dementi. Una formula stra-abusata e alla base di decine e decine di dischi, ma che, in questo caso, raggiunge, senza sforzo, vette di sublime cialtroneria. 

6 - Heroin in Tahiti “Sun and violence”
Che cavolo c'entrino gli Heroin in Tahiti con gli altri dischi di questa classifica è un mistero anche per me. Insomma, siamo onesti: da quasi 20 anni ormai, non faccio altro che ascoltare punk e hardcore e le incursioni in altri generi musicali sono davvero rare. Gli Heroin in Tahiti però sono sempre stati una bellissima e stranissima eccezione, per me. Un po' come i Calibro 35, che da questa classifica sono rimasti fuori per un soffio (anche se forse meriterebbero almeno il decimo posto a parimerito). Descrivere quello che fanno gli Heroin in Thaiti è come ballare di architettura; soprattutto in questo doppio disco in vinile. Provando a fare uno sforozo e rischiando la supercazzola, potrei dire che la musica di questo duo di marziani a Roma assomiglia a una sorta di colonna sonora dell'Italia del sud Anni Sessanta. Un lavoro intenso e coltissimo, al limite della filologia. Un disco difficile e luminoso, sulle orme dell’etnomusicologo Diego Carpitella.

5 - Dalton "Come stai?"
Più passano i giorni e più mi rendo conto che avrei dovuto mettere questo disco almeno al secondo posto. Perché più lo ascolto più ci vado sotto. I Dalton sono l'ennesima band rivelazione in arrivo dalla Capitale, a dimostrazione di come la scena romana, in questi ultimi 4-5 anni, abbia saputo regalarci alcuni gruppi stellari come Giuda, Heroin in Tahiti e tutto il giro della Borgata Boredom, solo per fare qualche esempio. I Dalton però non c'entrano (quasi) nulla coi nomi appena citati; sono fondamentalmente un gruppo skinhead che al posto del classico oi! suona un vibrante pub rock di strada, con testi in italiano e grande gusto pop. Un mix assurdo ma perfetto tra Banda Bassotti, Gang, Dr. Feelgood e Antonello Venditti. II primo lato di questo vinile (con cd in regalo) è praticamente perfetto, grazie a melodie e riff da urlo e testi in bilico tra poesia di strada e sfacciataggine punk. Gli unici pezzi "deboli" (ma comunque da 7+) sono le due cover in inglese - una persino di John Lennon - a dimostrazione che i Dalton riescono a dare il meglio quando restano loro stessi; che oggi come oggi è un vero e proprio miracolo.

4 - Mean Jeans "Singles"
In parte, il discorso fatto per i Pool Party, potrebbe valere anche per i Mean Jeans. Ma il fatto che la band di Portland, recentemente approdata su Fat, occupi il quarto posto in classifica non è frutto di una decisione casuale. Dentro i solchi di questo bel vinile riepilogativo che raccoglie tutti i 7'' pollici del gruppo, infatti, non c'è un pezzo - dico uno - che si possa considerare brutto o mediocre. Dall'inizio alla fine "Singles" si presenta come una compilation carica di bellezza pop-punk demente, senza un attimo di cedimento. Un concentrato di stupidità vorticosa che si insinua nel cervello e non ti molla più per un bel pezzo. D'altra parte i Mena Jeans sono una band geniale e folle allo stesso tempo: hanno esordito con un lp capolavoro e replicato pochi anni dopo con un disco di una bruttezza imbarazzante. In mezzo ci sono questi singoli sublimi. Che per nostra fortuna, oggi, possiamo ascoltare tutti d'un fiato in questa raccolta bellissima.

3 - Guantanamo Baywatch "Darling... it's too late"
Adesso siamo in zona podio. E il terzo posto se lo aggiudica un disco che ho scoperto di recente (come la maggior parte degli album di questa classifica, peraltro). Fino a un paio di mesi fa infatti non sapevo neppure chi fossero i Guantanamo Baywatch, ma quando li ho visti all'opera al Teatro Altrove a novembre sono rimasto letteralmente folgorato. Le formazione è il classico terzetto, con una strumentazione che definire dilettantistica è un complimento, eppure i Guantanamo riescono nel miracolo di suonare furiosi e melodici come poche altre band in circolazione. La base dei loro pezzi è la musica surf, anche se suonata con irruenza e incoscienza punk. In questo disco però, la formula originaria fatta di suoni sporchi e ruvidi, lascia il passo a un surf-garage-punk più melodico, con qualche inflessione country. Quello che ne esce fuori è un gioiello di musica deviata e dolciastra come una cucchiaiata di metadone.

2 - Pears "Go to prison"
Ok lo ammetto: ho barato. Questo disco, in realtà, è uscito nel 2014, ma visto che la Fat l'ha ristampato quest'estate ho deciso di inserirlo comunque in classifica e di schiaffarlo persino al secondo posto. I Pears, il cui nome è scritto con gli stessi caratteri usati dai Fear (una delle mia band hc preferite), sono un gruppo immenso. Una delle poche band per cui vale ancora la pena ascoltare hardcore a 33 anni suonati. E scusate se esagero un po'. Ma insomma, io un gruppo così immediato e allo stesso tempo complesso era un po' che non lo sentivo. Certo, anche loro fanno revival Anni Ottanta - volendo semplificare - ma a differenza di molte altre band (e ci metto dentro pure gli ottimi Night Birds , che occupano il decimo posto di questa classifica) i Pears sanno essere ironici e incazzati, pur sfornando pezzi incredibili. Un formula semplice ma perfetta, tra melodie granitiche e furia belluina. Cose belle.

1 - Giuda "Speaks Evil"
Ed eccoci arrivati al primo posto: un po' scontato e un po' no. Che i Giuda siano una delle mie band preferite di questi ultimi anni, infatti, non è un segreto. Ma questo terzo disco avrebbe potuto benissimo rivelarsi un passo falso o un'immensa ciofeca (e per qualche minuto ho pensato che fosse andata proprio così). Il fatto è che "Speaks Evil" non è un album da ascoltare una o due volte. Bisogna sentirlo almeno sette o otto volte per capirlo veramente; anche se si parla pur sempre di rock'n'roll e di glam. A differenza dei suoi due predecessori infatti questo disco è prodotto meglio e guarda con più interesse alle melodie "pop". Anche se, state tranquilliu, il tiro è sempre lo stesso e i pezzi sono tutti e dieci (anzi facciamo nove, perché l'ultimo, "Bonhead waltz" proprio non lo digerisco) bellissimi. Ci sono due perle melodiche cantate da Moretti (la mia preferita è "It ain't easy", che strizza l'occhio al power-pop) che ho ascoltato per giorni interi senza mai fermarmi; ma non mancano neppure brani più classicamente glam, come in passato. Insomma per me questo è il disco dell'anno e i Giuda restano una delle band più eccitanti degli ultimi tempi.


martedì 13 ottobre 2015

Ruin myself with Spotify

Anche io mi sono iscritto a Spotify. E per me è una sconfitta, sia chiaro. Ma tanto, una più una meno, cosa volete che cambi? Almeno adesso potrò ascoltare tutti quei dischi che, per ora, mi posso soltanto immaginare (a meno che non arrivino in edizione economica, ma la vedo dura). Certo, non è che la musica da sentire in casa mi manchi o che abbia smesso totalmente di comprare dischi: quello non potrei mai farlo, visto che per me resta una delle poche gioie materiali di questa vitaccia. Però, belin, dovendo rallentare un po' quella che un tempo era una pratica come minimo bisettimanale, l'unico modo per ascoltare un po' di novità senza doverci lasciare ogni volta un rene, resta, purtroppo, Spotify. E così con due click e una password eccomi qui, finalmente, sul divano a godermi "Electric blood" dei Biters (che non è niente male he, ma forse 18 sacchi non li vale, soprattutto in questo momento). Poi magari mi risentirò in modo più cristiano anche "V" di Wavves, che pure quello costa sui 17-18 euro e insomma.., Detto questo ho visto, però, con mio sommo sgomento, che i Third World War sono troppo sfigati per essere inclusi qui dentro. E quindi nada, nisba, non si trova neppure mezzo pezzo. E vabbè, non è che si possa aver sempre tutto. Certe cose toccherà cercarle in modi alternativi. Comunque, se devo essere sincero, un po' mi sento in colpa a scroccare tutti (?) questi album. Ma alla fine se Internet ha fottuto il lavoro a un sacco di gente, qualcosa ci dovrà pur restituire. Naturalmente fottendo a nostra volta qualcun altro. Quello che mi rode di più però, ma devo ancora guardare e quindi potrei essere presto smentito, è che penso sarà difficile che su Spotify si riesca a trovare qualcosa di appena appena più "ricercato" del solito (per quanto ricercata possa essere la merda che ascolto). Però anche in questo caso bisogna accontentarsi. Tra l'altro, finora, non ho ancora beccato inserti pubblicitari, che mi hanno detto essere particolarmente rompiscatole ma necessari per abbonarsi aggratis sul pc. Ah no cazzo eccoli qui... Minchia: il Cornetto Algida... però dura poco dai... Ok, il disco sta per finire, vado in frigo a prendere una lattina di birra da due soldi e mi metto comodo. La lista degli ascolti è lunga. E io sono un novizio e non capisco ancora nulla di playlist e altre amenità.

mercoledì 7 ottobre 2015

Rikk Agnew, "All by myself"

Dio benedica le ristampe in cd degli lp Frontier degli Anni Ottanta. Perché è solo grazie a una di quelle che ho scoperto uno dei dischi più belli e malcagati di quell'epoca: "All by myself" di Rikk Agnew. Un album spettacolare uscito nel 1982, scritto, suonato e cantato interamente dal buon Rikk dopo aver lasciato gli Adolecents. Il disco, infatti, si trova in coda al cd che raccoglie sia il primo stupendo lp della band di Tony Cadena, Steve Soto, Casey Roger e dei due fratelli Agnew, Frank e Rikk sia l'ep, sempre, degli Adolscents, "Welcome to reality". E anche se questi due album resteranno scolpiti per sempre nella storia del punk californiano, c'è da dire che "All by myself", col senno di poi, resta un disco di una bellezza disarmante. La prima volta che l'ho ascoltato, a dire la verità, non mi aveva colpito più tanto (ma coi grandi amori, si sa, è sempre così). Avrò avuto sì e no 17 anni e, dopo una delle tante spedizioni da Distorsioni a Varazze -  il compianto negozio del mio amico Luca - ero così eccitato dall'essere riuscito a mettere le mani sul primo disco degli Adolescents, che l'album di Rikk mi era scivolato un po' addosso (beata stupidità adolescenziale, tanto per restare in tema). Il problema è che forse lo avevo ascoltato un po' di corsa, giusto perché era in coda al cd. Ma poi avevo rimesso a manetta, per giorni interi, "I hate children", "Amoeba", "Kids of the black hole", "No way" e tutto il resto del campionario. Quello che mi colpiva di più di Rikk, in realtà, era la sua immagine, grazie alla foto sul retro del libretto del disco. Aveva una faccia da matto, con gli occhi spiritati, e stringeva una medaglietta di metallo tra le labbra. Nel quadratino sullo sfondo blu del cd, poi, si notava una maglietta bianca dei Tsol, che faceva da contrasto al muro di mattoni alle sue spalle. Poco dopo aver scattato quella foto e aver inciso un solo disco - ma che disco! - si era stufato degli Adolscents e li aveva mollati. Leggendo qua e là, nel corso degli anni, ho scoperto poi che Rikk ha suonato più o meno in tutti i gruppi punk di Orange County tra la fine degli Anni Settanta e i primi Anni Ottanta, incidendo alcuni album incredibili e lasciando quasi sempre all'apice. Era stato nei Christian Death di "Only theatre of pain" - che non ho mai amato moltissimo, a dire la verità - nei Social Distortion, nei grandissimi D.I. e in una miriade di band minori. Poi si era imbottito di droghe e se l'era vista brutta per parecchio tempo. Nonostante tutti i suoi casini, però, non aveva - anzi, non ha - mai smesso di suonare e qualche anni più tardi, quando dopo l'unico 30 e lode della mia vita mi sono comprato il dvd con la reunion degli Adolscents, me lo sono ritrovato davanti parecchio cambiato. Rikk, che detto fra noi da giovane era un gran figo (il classico delinquente di estrazione borghese, che arriva dalla periferia americana) era diventato un ciccione incredibile. Sembrava (o forse era) strafatto come una cucuzza e, nel dvd, si agitava come un pazzo, scivolando da una parte all'altra del palco. I tatuaggi sulle braccia erano ormai deformati, aveva dei piedi enormi (suonava scalzo...) e delle strane macchie sulla faccia, che non lo facevano sembrare l'esatto ritratto della salute. Insomma si portava addosso una vita di eccessi, come dicono quelli seri, e forse anche per quello, sotto sotto, mi stava ancora più simpatico. Così mi sono un po' informato su di lui e ho cominciato a tenerlo d'occhio. Ho iniziato a riascoltare con più attenzione "All by myself" e mi sono reso finalmente conto di cosa mi fossi perso in tutti quegli anni. Anche perché non so proprio come abbia fatto a restare indifferente di fronte a un inizio da capogiro come l'uno-due di "O.C. life" e "10". E poi "Everyday", "Surfside" e quel finale assurdo di "Section 8": un pezzo di oltre 7 minuti tra urla, chitarre punk e accenni quasi hip hop. "All by myself" è decisamente un album da riscoprire, un concentrato di surf per zombie metropolitani, dark da spiaggia e new-waver coi sandali. Nel disco la voce di Rikk è piena e cattiva, mentre le chitarre sono malinconiche e corrono veloci su melodie agrodolci; i cori sono perfetti e il disco emana una sensazione di allegra tristezza, servita su una tovaglia da pic-nic nucleare. Tornando a Rikk, invece, sembra che il nostro, ultimamente, se la stia passando meglio di qualche tempo fa. Ho letto una sua intervista su un magazine online di cui non ricordo il nome nella quale parla della sua "rinascita", dopo che un medico gli aveva detto una roba tipo: "ok, ancora un eccesso e sei morto". Così Rikk si è cagato sotto, è dimagrito un sacco (tanto da essere irriconoscibile, rispetto a quel dvd), ha messo su una band a suo nome e ha persino pubblicato uno split che devo ancora sentire (come un altro paio di suoi lavori solisti che ancora mi mancano). La mia speranza è sempre quella che, un giorno, venga a suonare in Italia - cosa che tra l'altro ha già fatto, senza però che io sapessi nulla come al solito - e aspetto con una certa ansia che pubblichi un disco vero e proprio tutto suo. Rikk Agnew - a proposito, voi come lo pronunciate sto minchia di cognome? - è diventato uno dei miei eroi del punk insieme a Grant Hart (con cui secondo me ha tantissimo in comune, sia a livello musicale sia a sul fronte personale), Lance Hahn, e altri "sfigati" di lusso che hanno scritto pagine di musica memorabile.


martedì 29 settembre 2015

New York Dolls

Aver passato una vita (o forse sarebbe meglio dire gli ultimi 25 anni) ad accumulare cose - fumetti, dischi e libri - ha i suoi bei vantaggi. Perché quando sei costretto a darti una sana regolata e non puoi più comprarti tutto quello che ti passa per la testa, puoi sempre attingere alle scorte fatte nei momenti di vacche grasse. Così ti metti a riascoltare album perduti e dimenticati da tempo sullo scaffale oppure, finalmente, ti decidi a leggere quel libro che avevi comprato tanto tempo fa e che poi, per un motivo o per l'altro, avevi lasciato a prendere polvere sul comodino. Oggi per esempio, mentre stappavo una birra ghiacciata presa in offerta al supermercato, ho rimesso nello stereo, dopo almeno un paio d'anni d'assenza, il primo disco dei New York Dolls. O delle New York Dolls, che dir si voglia (perché la parola bambola è femminile e perché Thunders e soci, con le ambiguità sessuali, ci giocavano parecchio). Ora; lo so che scopro l'acqua calda, anche perché parliamo di un vero e proprio caposaldo del glam rock americano, ma anche di uno dei dischi proto-punk più importanti e belli di tutti i tempi. Però è anche vero che, pur essendo entrato nella leggenda, questo album resta ancora un oggetto misterioso per tanti giovani punk alle prime armi. E' più facile arrivare ai Clash, ai Sex Pistols e ai Ramones che alle New York Dolls persino oggi che, con youtube e sportify, nel bene o nel male, abbiamo tutto a portata di mano. Eppure senza questa manciata di canzoni incise nel 1973 di fronte al disinteresse generale - anche se all'epoca, in realtà, un briciolo di fama le Dolls l'assaggiarono - penso che gran parte dei cosiddetti gruppi capisaldi del punk non sarebbero neppure esistiti. Insomma mai come in questo caso possiamo scomodare il tanto abusato termine "seminale" parlando di quest'album (cosa che non si può certo dire, invece, del suo dignitoso ma non eccezionale successore "Too much too soon" del '74). Il disco parte con un pezzo incredibile come "Personality crisis", una canzone che ho sentito per la prima volta quando avevo ancora 11 o 12 grazie alle mitiche cassette dell'America del Rock di Repubblica. Ricordo che all'epoca, anche se non sapevo un'emerita fava di cosa fosse il punk, ero rimasto letteralmente fulminato da quel pezzo deragliante e sconclusionato, dal riffi micidiale e appiccicoso. Un vero e proprio trauma infantile, che mi porto dietro ancora oggi. Anche se, a dirla tutta, dopo quell'assaggio di musica perversa, sono passati almeno dieci anni prima che risentissi - questa volta con maggiore consapevolezza - le Dolls. Nel frattempo la band si era persino riformata nonostante i lutti e aveva anche pubblicato un nuovo disco che non ho mai voluto ascoltare. Insomma in molti si erano finalmente accorti di loro. Nonostante questo però e nonostante gli endorsement - a tempo debito - di gente come Morrisey e Michael Stipe, le Dolls non hanno mai veramente raccolto quanto hanno seminato nel corso della loro brevissima carriera. E questo, in fondo, è un classico del rock'n'roll. Tornando a quell'esordio fulminante, che oggi mandava a fuoco il mio stereo da quattro soldi, praticamente tutti i pezzi della tracklist sono dei piccoli classici. "Vietnamese baby", ""Frankenstein", "Bad girl", la cover di "Pills" di Bo Diddley  e "Subway train" (ma potrei citare tutti i pezzi, davvero) sono come grasso fumante, che cola da un bella e sugosa bistecca di maiale. Un miracolo del rock'n'roll come il primo disco dei Velvet Underground o "Fun house" degli Stooges. Anche perché è lì che, alla fine, andiamo a parare. Rock sporco e depravato, una specie di versione zombie di Elvis, suonata in preda a una crisi d'astinenza. Certo, come ho già detto non scopro nulla di nuovo. E spendere parole sul primo disco delle Dolls oggi, a più di 40 anni dalla sua uscita, è decisamente superfluo. Però qualche volta e bene ritornare da dove si è partiti e fare i conti con la storia. Soprattutto in un momento in cui gente come i Giuda - una delle mie band contemporanee preferite - recupera certe sonorità e alcune atmosfere glam e proto-punk che le Dolls hanno letteralmente inventato quando ancora in molti se la menavano col rock progressivo. Ok, lo anch'io che nel caso dei Giuda i riferimenti sono più inglesi che americani. Però in quelle canzoni ci vedo anche un po' di Thunders, Nolan, Sylvain, Kane e Johansen. Anche se 40 anni fa erano più selvagge, folli e pericolose.


lunedì 14 settembre 2015

Nova Mob

A proposito di dischi e gruppi che nessuno si caga: oggi, mentre facevo le pulizie di casa, mi sono risentito l'intera discografia dei Nova Mob e cioè i loro unici due dischi che ho comprato qualche anno fa in pieno furore Husker Du. Ma chi cacchio sono i Nova Mob, diranno i più beceri di voi? Beh, intanto vi ho già aiutato un pochino qualche riga più sopra citando IL GRUPPO più grande di tutti tempi (insieme a Clash e Ramones). Sì cazzo, sto parlando proprio degli Husker Du. E se non li conoscete potete pure portare le vostre chiappette secche fuori da questo inutile blog. (Tornate soltanto quando avrete ascoltato almeno 10 volte "Zen Arcade" e "New Day Rising").
Bene. Ora torniamo ai Nova Mob, che mentre spolveravo i mobili e lavavo i pavimenti, rimbalzavano come matti fra le casse del mio stereo portatile. Il gruppo, durato una manciata di anni - dal 1989 al 1997 - viene fondato da Grant Hart quando gli Huskers sono implosi da poco, al culmine dei loro scazzi personali. Ma prima di loro, il nostro, si diletta con un paio di dischi solisti come l'ep "2541" e l'album "Intolerance", che secondo me è un altro mezzo capolavoro dimenticato, Poi Hart, che era appena uscito da una brutta storia personale (gli avevano detto che era sieropositivo, ma si erano sbagliati...) decide che dopo la parentesi solista gli manca l'idea di avere di nuovo un gruppo con cui condividere tour e litigate memorabili. E così, mollata la batteria, si prende (finalmente) microfono e chitarra e costruisce attorno a sé i Nova Mob (negli stessi anni, guarda caso, il suo ex amico Bob Mould fa lo stesso con i fantastici Sugar). Il primo parto della nuova band di Grant Hart si chiama "Last days of Pompeii", esce nel 1991 ed è targato Rough Trade. Il disco spacca, anche se è parecchio strano e quindi in puro stile Grant Hart. Dentro c'è  un po' di tutto: dal pop-rock sofisticato alle litanie mezza dark e mezze anni sessanta, che riportano a certi episodi di "Intolerance". Sopra ogni cosa però c'è la voce dell'ex batterista degli Husker Du, fragile e disperata e capace ogni volta di farti venire la pelle d'oca. Non ci sono cazzi: Hart è dannatamente bravo a tirare fuori dal nulla delle melodie uniche e mai scontate; e non perde mai il vizio di scrivere canzonette agrodolci e sporche, che risultano sempre irresistibili e totalmente fuori da ogni canone prestabilito. Siamo agli inizi degli anni novanta, ma lui se ne sbatte altamente di ciò che va di moda in quel periodo e suona una musica senza tempo, in grado di toccare tutte le corde giuste. Il secondo e omonimo album dei Nova Mob, invece uscito tre anni dopo per Restless - purtroppo è un passo indietro rispetto all'esordio. Forse Grant si è già stancato dei suoi compagni di viaggio e della band. Forse ha qualcos'altro per la testa. Oppure, più banalmente, ha esaurito (per il momento) la sua riserva creativa. Fatto sta che la maggior parte dei pezzi del disco suona monotono e senza guizzi. Ci sono persino dei lentoni pop, che se non fossero cantanti con la sua voce superba sarebbero delle robette proto-Coldplay con dieci anni di anticipo. Detto questo "Noba Mob" resta comunque un album dignitoso, che funziona meno rispetto al suo predecessore e non è nemmeno lontanamente paragonabile agli Husker Du, ma rimane pur sempre un disco da sufficienza piena, grazie a qualche interessante intuizione (il fatto che sia uscito nel 1994, però - uno degli anni magici del rock - non lo aiuta per niente). Pensavo tutte queste cose mentre spruzzavo lo smacchiatore universale sulla tazza del mio cesso.



domenica 13 settembre 2015

Afrirampo

Sono davvero inaffidabile. Ogni volta che torno da queste parti giuro solennemente che aggiornerò questo dannatissimo blog con un minimo di continuità e invece... Vabbè non è che ogni volta mi possa mettere a scrivere la solite solfa. Quindi si riparte. O almeno ci riprovo.

Da quando non ho più uno stipendio regolare (il lavoro è andato a puttane) ho iniziato, per forza di cose, a comprare meno dischi. O comunque a stare molto più attento di prima a cosa prendo e a quanto costa. Per esempio, da qualche mese, mi sono imposto due regole auree di sopravvivenza: non comprare più robe a cazzo come facevo un tempo (come tutte le ristampe anni ottanta italiane che avessero in minimo di attinenza col punk, l'hardcore e la new wave) ed evitare come la peste (a parte rarissimi casi e momenti di opulenza improvvisa, quindi mai) tutto ciò che costi oltre i 15 euro. E dico davvero: se sull'etichetta del disco ci trovo scritto 15,50 comincio girargli alla larga (anche se poi, di notte, non riesco a dormire e mi rivolto nel letto pensando che, in fondo, qualche volta, le regole si potrebbero pure infrangere). Insomma come un novello Mario Monti mi sono imposto l'austerità discografica, che per uno come me è come finire agli alcolisti anonimi o in qualche comunità di recupero per tossicodipendenti. Il guaio però è che la scimmia di musica non mi passa. Di mettermi ad ascoltare i dischi su youtube o su bandcamp (insomma dalle casse del pc) però non ne voglio sentire manco parlare. Sono quel tipo di barbarie alla stregua del pesto senz'aglio o delle penne lisce, che mi fanno letteralmente impazzire. Così, per tamponare questo momento di malessere (è solo una mia impressione oppure in quest'ultimo periodo sono uscite decine e decine di ristampe fighe a 18 fottutissimi euro?) ho deciso di rimettermi ad ascoltare alcuni di quei dischi che, negli anni di abbondanza, ho abbandonato miseramente sullo scaffale. Robe che magari ho comprato in preda all'ansia compulsiva e che poi ho finito per ascoltare una o due volte, prima di riporle al loro posto, senza tante cerimonie. Dischi talmente dimenticati che, in certi casi, mi sembra quasi di avere a che fare con qualcosa di nuovo. Tanto per fare un esempio oggi mi sono rimesso a sentire un album che mi ero quasi dimenticato di avere e che, quando mi ricordavo delle sua esistenza, ho persino pensato di vendere. Parlo del cd omonimo delle Afrirampo, un duo giapponese di garage rumorista chiassoso e spacca budella, preso qualche anno fa da Maso. Uno di quei dischi che compri su consiglio di qualche amico che ha gusti diversi dai tuoi ma che prova comunque a capirti (sarà stato Ale Di Tizio? mah...) e che una volta messo nelle stereo ti sembra una mezza ciofeca. O almeno questo era il ricordo che avevo di questo benedetto dischetto senza titolo e dal libretto inutile (ci sono solo alcuni collage di fumetti erotici giapponesi e un po' ideogrammi sparsi). Così quando stasera l'ho infilato nel lettore cd dopo tempo immemore, sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che, in fondo in fondo, ste due punk decerebrate con gli occhi a mandorla, non sono poi così male. Anzi... Certo le Afrirampo urlano come delle bestiole e ho dovuto abbassare di corsa il volume almeno un paio di volte, per evitare di svegliare Grazia o di trovarmi la polizia davanti alla porta di casa. Però insomma, tutte quelle tonnellate di chitarre grattugiate e quegli urletti da tenniste scuoiate col machete mi hanno convinto. Quindi il disco me lo tengo; non so quando lo riascolterò (è meglio farlo quando sono in casa da solo e le finestre sono chiuse a doppia mandata), ma alla fine le Afrirampo sono una band onesta, che si merita un posto sullo scaffale accanto agli Afterhours e agli Age (sì ok ho tre cd degli Afterhours, ma non li ascolto quasi masi, lo giuro). E pazienza se gli otto pezzi del cd sono un mix di schegge di puro casino da poche manciate e lunghi intermezzi di musica giapponese con gente che parla in sottofondo. Ascoltando quest'album ci si sente spiazzati e infastiditi, e già questo è importante. Le Afrirampo sembrano un po' i primissimi Sonic Youth, ma se possibile sono ancora più marce. E visto che io - citando la pessima traduzione di un gran bel libro sul punk - mi sento assai sporco e imbecille, direi che tutto quadra alla perfezione. 


mercoledì 4 marzo 2015

A Voltri ritornano

Lo so, è una vita e mezza che non aggiorno questo blog-cadavere. Ma visto che siete in quattro gatti a leggerlo immagino che non vi siate neppure troppo offesi. Comunque, da oggi, provo a ricominciare, nonostante gli impegni (ma de che?) e gli anni che corrono via come macchine impazzite (ah ecco).
La ripartenza è un vecchio classico: i dischi che girano nel mio stereo in questi giorni e con i quali ammorbo i miei vicini. Nonostante i pochi soldi in tasca, infatti, da brava cicala, negli ultimi mesi (che dico mesi, settimane) mi sono portato a casa qualche bel dischetto ignorante. E qualcuno mi è stato pure regalato da Grazia (dopo un furto in auto in cui ho perso una bella sacchettata di vinili). Ed è proprio di uno di questi dischi "perduti" che vorrei raccontarvi. Così, tanto per sparare due minchiate in libertà, sia chiaro.

Ho sentito parlare per la prima volta di "First Italian punk contest", il vinile della Hate Records col meglio del punk romano (ma anche italiano) di fine Anni Novanta appena era uscito, e cioè nel 1998. Ricordo vagamente una recensione su Rocksound, per via della copertina inconfondibile. Ma all'epoca non è che me la fossi cagata gran che, sta compilation. Forse perché era stata stampata solo in vinile e io sarei riuscito ad avere un piatto soltanto sei o sette anni più avanti (porcaccia). Chissà. Comunque, oltre dieci anni dopo, anzi per essere più precisi l'estate scorsa, mi imbatto nuovamente nei Bingo del grande Alex Vargiu e mi rendo conto di essere stato un cretino totale a non essermi mai procurato un loro disco (hanno pubblicato un lp postumo e poi qualche 7''). Gironzolando sulla pagina Facebook dello stesso Alex, inoltre, becco una canzone presa da youtube della mitica compila di cui sopra:  l'ignorantissima "Rivendicazione" di Johnny Boy and the Bookmakers, una band nata,a quanto ne so, lì per lì e poi magnificamente morta all'istante. La quintessenza del punk-rock, per quel che mi riguarda, visto anche lo splendido ritornello - se così si può chiamare - che ripete ossessivamente l'espressione "mortacci tua". Un capolavoro, insomma. E così parte la ricerca della raccoltona che, scopro, contiene pure un paio pezzi dei Bingo ("abbiamo scelto questo nome - aveva risposto candidamente Alex in un'intervista uscita su "Bassa Fedeltà" - perché fa rima con in culo te lo spingo": genio). In ogni modo mi metto a spulciare Discogs ed Ebay e che ti vado a scoprire? che una copia del disco la vende proprio il grande Gila (uno dei miei numi tutelari in campo punk/hc e anche un buon amico). A quel punto lo contatto e ci mettiamo d'accordo che, appena passo a Milano, mi porta "First Italian punk contest" lasciandomela pure a un superprezzo (in modo da evitare le spese di spedizione). Alla fine a Milano ci riesco ad andare soltanto sei mesi dopo (ve l'ho pur detto che sono impegnato) e appena metto le mani sul disco - sfiga vuole - qualche stronzo me lo ruba dal bagagliaio della macchina. Devo dire che al momento della denuncia alla polizia è stato abbastanza comico elencare tutti gli album che mi avevano fatto saltare, tra cui questo "First Italian punk contest". Quindi con le pive nel sacco me ne torno a casa pensando che mi sarei dovuto rassegnare a sentire i pezzi del raccoltone della Hate su youtube. Non avevo però fatto i conti con Grazia che si è subito messa sotto e nel giro di pochi giorni mi ha fatto recapitare una copia del disco direttamente a casa. Che dire? Dio c'è, mi odia ma anche lui qualche volta deve arrendersi all'evidenza. E al punk-rock. E così il giorno fatidico, appena tornato dal lavoro, mi sono sparato il vinolozzo sul piatto. Appena sono partite le prima note sono corso ad abbracciare Grazia, perché quello che usciva dalle mie casse da quattro soldi era davvero una roba da non crederci. I Bingo, tanto per parlare di una band di cui ancora non ho detto nulla, aprono le danze con "Hey you!" che, come dicono quelli seri, è un calcio in culo ben assestato con tanto di rincorsa. Chitarre rumorose da ferrai, voce stridula e furia garage. I Damned a mille all'ora. La band successiva, gli Ufo Diktatorz di quella bestia di Pierpaolo De Iulis, invece macinano cattiveria nota dopo nota, stordendoti con le loro ritmiche acide e scomposte. Mentre i Temporal Sluts, che sono tra i migliori del lotto, non sono altro che un supergruppo di puro punk "minore" di matrice americana. Ma dentro sto dischetto della Hate records c'è davvero di tutto: pazzi furiosi (tipo Johnny Boy) come i Punk Al Muro; garage rocker abrasivi come i Rock'n'Roll Class e altre band di "alta classe" tipo gli STP (all'epoca agli inizi) e Vargiu and the Haters (vi ho mica già parlato di Alex?), E poi ancora una manciata di deliziose meteore punk (Two Bo's Maniacs, Boomers e Assholes, che nome belin che nome!) di cui nessuno ha mai più sentito parlare. Insomma se non l'avete capito questo "First Italian punk contest" è un piccolo gioiellino di furia e bellezza, nonché un pezzo di storia del nostro punk. Negli Anni Novanta non c'erano solo i figli illegittimi dei Ramones e della Lookout a incendiare i palchi italiani e gli impianti stereo di qualche adolescente brufoloso. C'era anche questa gentaglia qui, che, per un breve ma intensissimo momento, ci ha fatto letteralmente sognare.