domenica 9 dicembre 2018

Classifiche dischi 2018

Questa volta buttare giù una classifica dei dieci migliori dischi usciti nel corso dell'anno si è rivelato più difficile del solito. Prima di tutto mi sono reso conto che, negli ultimi 12 mesi, sono usciti un sacco di album italiani di ottimo livello. E se, da un lato, sarebbe suonato un po' paradossale e provinciale infarcire questa lista di soli gruppi di casa nostra (o quasi), dall'altra ci sono, comunque, un sacco di lp "stranieri" che meritano di stare nelle prime dieci posizioni. Poi, come al solito, è saltato fuori anche il problema delle ristampe, nel senso che, come accade ormai da tempo, anche nel 2018 sono stati tantissimi i vecchi titoli ritornati disponibili dopo anni di oblio. E così ho deciso di fare tre classifiche distinte: stranieri, italiani e ristampe-raccolte. Trenta dischi spettacolari su cui non sempre sono riuscito a mettere le mani sopra (anche se quelli che ho sentito solo in formato digitale sono una ristretta minoranza), che dimostrano come il 2018 sia stata davvero un'annata niente male. Vista la mole dei dischi, quest'anno scriverò poche righe per ciascuno, altrimenti rischio di diventare più verboso del solito.
Ah dimenticavo, le classifiche sono disposte in modo del tutto casuale, non ci sono primi o secondi posti. Tutti i dischi hanno pari dignità (per la graduatoria vera e propria vi rimando al pezzo che scriverò entro una decina di giorni per Maso su Tomorrow Hit Today).


STRANIERI

The Chats - s/t
Questi delinquentelli australiani appena maggiorenni sono una delle band garage-punk (o primitive punk, mi verrebbe da dire) più incandescenti del momento. Suonano, in modo ottuso e sporco, canzoni deliziose e dalla melodie malate: un rock'n'roll minimale, furioso e urgente, come non si sentiva da un po' di tempo. Questo cdr dall'insuperabile Bubca Records raccoglie i primi introvabili ep del gruppo e ce li offre a un prezzo talmente amico (5 euro) da uscirci di testa.

Beechwood - Inside the flesh hotel
I Beechwood sono un terzetto di giovani newyorkesi che guarda alla tradizione proto-punk di Modern Lovers, New York Dolls e Velvet Underground, mettendo in campo anche una buona dose di personalità. Melodie anni Sessanta, si mescolano a una certa ruvidezza di fondo, che fa molto shogaze. Ma con un piglio punk, che rende il suono più aspro e immediato. Uno dei gruppi del momento.

Surfbort - Friendship music

Anche in questo caso parliamo di un esordio. I Surfbort sono una band newyorkese (d'adozione) formata da tre veterani della scena punk americana e una giovane cantante scapestrata, dalla voce di cartavetro. A un primo ascolto sembra di sentire un gruppo losangelino di fine anni Settanta e, non a caso, tra i loro sponsor c'è il mitico John Doe degli X. Ma la furia di alcuni pezzi dimostra anche una certa dimestichezza con il primo hardcore statunitense. Canzoni sparate a mille e un gusto maleducato per la melodia davvero irresistibile.

Color Tv - s/t
Mi sono imbattuto in questa band di Minneapolis un po' per caso e me ne sono subito innamorato. Questo album omonimo è il primo sulla lunga distanza, dopo una serie di singoli interessanti. Garage, punk e hardcore sembrano convivere alla perfezione lungo 10 pezzi che raramente superano il minuto e 40 secondi. Canzoni come "Serial offenders" hanno una vena dark e malinconica, che ricorda il beach punk californiano dei primi anni Ottanta e i più recenti Red Dons.

Sick Thoughts - s/t
Ho scoperto Sick Thoughts, con colpevole ritardo, tre anni fa grazie a Sottoterra. E all'epoca, tra singoli, cassette e dischi, questo teppistello di Baltimora aveva già sfornato una quindicina di uscite, pur avendo appena 18 anni. Ora che di anni ne ha ormai 21, se ne esce con questo disco di punk grezzo (come suo solito), ma dalla venature più oscure. Un altro centro perfetto. Scritto e suonato con una naturalezza inquietante.

Night Birds - Roll credits
Tra le poche band Fat Wreack a tenere alta la bandiera dei bei tempi andati (insieme a NOFX, Pears e ben poco altro, purtroppo) ci sono senza dubbio i Night Birds. Un gruppo che sembra uscito direttamente dalla California degli anni Ottanta, grazie al suo beach punk furioso e senza compromessi. Questo ep, per fortuna, non si discosta assolutamente dai dischi precedenti e suona abrasivo e vorticoso in tutti i suoi otto pezzi in 17 minuti.

Rik and the Pigs - A child's gator
Altro esordio, altro gruppo da paura. I Rik and the Pigs vengono da Olympia e hanno un'attitudine alla bassa fedeltà, che si sposa alla perfezione con il loro punk storto, zoppicante e un po' cafone. Un eccezionale concentrato di imperizia tecnica e voglia di fare rumore, che riporta il rock'n'roll alle sue radici moleste e urticanti. Per fortuna esistono ancora gruppi punk che conservano uno spirito casinista. 

Bad Sports - Constant stimulation
Sono un fan a fasi alterne dei Bad Sports. Ho un loro disco (il secondo) che mi piace da impazzire, mentre quello successivo non è mai riuscito a convincermi. Gli altri due, il primo e il quarto, non li ho ancora ascoltati e quando mi sono accostato a "Constant stimulation" temevo di rimanere deluso. E invece in questo nuovo lavoro ci sono tutti gli ingredienti che mi hanno fatto amare "Kings of the weekend". Canzoni power-pop suonate a mille e cantante in coro, riff contagiosi e un tiro che levati. Un classico disco Dirtnap, nel senso più nobile del termine.

Dark Thoughts - At work
Fino a pochi giorni fa non avevo mai sentito parlare dei canadesi Dark Thoughts e poi il vecchio Stefano Fantino, il cui sport preferito è prendermi per il culo, me li ha buttati lì con nonchalance. Sono bastati pochi secondi perché fosse amore a prima vista. "At work" suona come un disco anni Ottanta dei Ramones, ma ancora più involuto e prevedibile. Insomma un mezzo capolavoro in 19 minuti netti.

Archie and the Bunkers - Songs from the lodge
Saranno anche delle mezze star dell'underground ormai, ma Archie and he Bunkers suonano come nessuno suona più da un pezzo. Meno Suicide e meno garage, rispetto al passato, ma con una vena pop anni Ottanta (molto inglese, che a tratti ricorda addirittura i Pulp), che fa davvero faville. Sfumature che non ti aspetti e che dimostrano come i due ragazzacci siano cresciuti. 


ITALIANI

Neuvegramme - s/t
Emo-core, tra vecchia scuola anni Ottanta e incursioni screamo (ma di quello serio). Questo progetto, che mette insieme un po' di bella gente della scena hc ligure, suona diretto e lancinante, come pochi ormai sanno fare. Testi esistenziali, doppie voci e ritmi forsennati sono i punti di forza di un album unico e dirompente.

Lupe Veléz - Wierd tales
Il punk e il post-hc americano di metà Ottanta e primi Novanta sono il terreno in cui si muove questa band toscana, formata da alcuni veterani della scena. È difficile non perdere la bussola quando si viene catapultati in un disco capace di mescolare MC5, Husker Du e Moving Targets. I Lupe Veléz ci riescono alla grande, in un vortice di melodie a presa rapida che non lasciano scampo. Un disco bellissimo. D'altra parte garantisce Area Pirata.

Hakan - III
C'è chi dice che gli Hakan siano i Marked Men italiani. E ditemi se è poco... Punk-rock malinconico e veloce, sensibilità pop spiccatissima e canzoni che scivolano via in pochi minuti. Tre dischi e tre mezzi capolavori, naturalmente sottovalutatissimi.

Colle Der Fomento - Adversus
Sette anni di silenzio e i Colle se ne escono con un album eccezionale come questo. Brani intensi, testi che parlano, con fierezza, di sconfitte e delusioni e basi suonate, che ricordano le colonne sonore e le sonorizzazioni anni Sessanta e Settanta. Un album profondo, capace di raccontare storie come in pochi, nel rap italiano odierno, sanno fare.

Diaframma - L'abisso
I Diaframma sono uno dei miei gruppi preferiti, ma dopo il penultimo album uscito 5 anni fa (che non mi aveva convinto) temevo che la vena di Federico si fosse esaurita. E invece "L'abisso" è un disco doloroso e diretto, pieno di canzoni eccellenti e scritte col cuore. La chitarra liquida di Fiumani si sposa alla perfezione con i suoi testi diretti e al tempo stesso ermetici. Una nuova poesia scritta sul tavolo della cucina, mentre fuori scende la sera.

Peawees - Moving Target
Il miglior gruppo rock'n'roll italiano torna dopo un lungo silenzio discografico e lo fa con un disco di rara bellezza. Ogni canzone è un potenziale singolo. Rispetto al passato c'è meno furia e più melodia. Il risultato è uno dei vertici della loro discografia.

Shitty Life - Switch off your head
Gli Shitty Life non cambiano di una virgola la loro formula fatta di garage primordiale sparato a mille e hardcore bruciante. Naturalmente fanno benissimo e restare su questi binari fatti di chitarre taglienti e metalliche, urla sguaiate e ritmi serratissimi "Switch off tour head" scorre via che è un piacere: come se i Discharge si mettessero a suonare rock'n'roll.

Lame - Alone and alright
I Lame sono uno dei più grandi gruppi garage in circolazione. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Questo lp, il secondo dopo lo splendido esordio, spazza via ogni concorrenza. I pezzi hanno una classe unica e guardano al blues maledetto dell'America più profonda e alla scena gunk punk dei primi Novanta. Lungo i solchi del disco si respira un'atmosfera malinconica e apocalittica. Il piatto forte, questa volta, sono le "ballate".

Holiday Inn - Torbido
I suoni malati e ossessivi ricordano i Suicide, certo, ma sarebbe riduttivo fermarsi alle semplici apparenze. Gli Holiday Inn sono un gruppo torbido come il titolo di questo disco. Una band nata per disturbare, interferire e martellare l'ascoltatore. La voce di Gabor è un lamento extraterrestre che arriva dall'iperuranio e ti si insinua nel cervello, mentre il synth di Bob Junior mena rasoiate sintetiche, che penetrano in profondità. Punk nel senso più vero del termine.

Laser Geyser - Sons of lightning
I Laser Geyser sono un power trio di Bologna, che suona un rock compatto e melodico, sulla scia di Foo Fighters e Sugar. "Sons of lightning" non ha un pezzo debole e ti entra in testa al primo ascolto. È un disco suonato bene e arrangiato con grande gusto. Ci sono voci raddoppiate e coretti a profusione. In certi momenti mi ricordano i mitici Suinage.


RISTAMPE/RACCOLTE

Visitors - s/t
Costola dei Radio Birdman guidata da Deniz Tek, i Visitors sono un gruppo cardine della seconda ondata punk australiana. Il loro unico e bellissimo disco omonimo era introvabile da un pezzo. Almeno fino a quando quel santo di Franz Barcella non ha deciso di ristamparlo (in vinile rosso). Punk da spiaggia deturpata e reminiscenze garage anni Sessanta.

Punks - Lost & found 1973-1977
Se li ricordano in pochi i Punks, nonostante quel nome tautologico che dice già tutto. Forse la loro sfiga principale è stata quella di precorrere i tempi e arrivare spompati alla meta del '77. A recuperare questa band incredibile tra Stooges, garage e un pizzico di glam è stata la Rave Up di Roma. Una gemma nascosta di puro rock'n'roll, sepolta nella profonda provincia americana.

Moving Targets - The other side
Il gruppo più sottovalutato di tutti i tempi torna, inaspettatamente, a fare parlare di sé grazie a questa raccolta di live, rarità e primi demo. Post-hc alla Husker Du, melodicissimo e vibrante. Da lacrime. E non ho altro da dire, vostro onore.

Marked Men - On the other side
La miglior punk-rock band degli anni Duemila ha smesso di incidere album nel 2008. Ma con questo disco, che raccoglie singoli, b-side, rarità e persino due inediti, dimostra che, anche quando mette insieme i propri "scarti" riesce a dare la stecca a tanti. Pop-punk darkeggiante, in pieno stile Dirtnap.

The Celibate Rifles - Roman beach party
Questo ristampone targato Area Pirata e curato da un esperto del calibro di Roberto Calabrò ci permette di ritrovare, a un prezzo umano, un classico del punk australiano anni Ottanta. Rock'n'roll di strada suonato a rotta di collo, chitarre ruggenti e quel tocco stoogesiano tanto caro alla terra dei canguri.

Per Sellers and the Hollywood Party - The early years 1985-1988
I Peter Sellers and the Hollywood Party erano, fino a poco tempo fa, una delle poche band italiane anni Ottanta a non essere state ancora ristampate. Una mancanza enorme a cui Spittle e il già citato Calabrò hanno fortunatamente posto rimedio. In questa splendida raccolta ci sono i primi singoli della band e i brani finiti dentro le compilation: pura psichedelia tra primi Pink Floyd (cioè gli unici da ascoltare) e i Velvet Underground, rock americano e suoni coloratissimi.

Barrence Whitfield and the Savages - Dig everything!
Soul, blues, rockabilly: una cascata di suoni travolgenti e quella voce ruvida ma caldissima che riuscirebbe a far ballare anche Arnold Schwarzenegger. Barrage Whitfield è un vero e proprio mito e, pur non essendo più un ragazzino, devasta ancora i palchi di mezzo mondo con il suo r&b d'assalto. Qui trovate, per la prima volta in cd, la ristampa dei suoi primi due dischi fondamentali, usciti a inizio Ottanta.

Barricata Rossa - ...e non si arrende
Una ristampa doverosa, non solo per la portata storica (si tratta della prima e unica produzione musicale targata Centro Sociale Zapata), ma anche per il contenuto. I Barricata Rossa era una combat punk band genovese degli anni Novanta. Hanno inciso solo questo disco, che guarda ai Gang, ai Kortatu (con tanto di cover italianizzata di "Sarri sarri"), ai Clash e all'oi!. Per fortuna ci ha pensato Hellnation a recuperare questo pezzo di storia perduto.

Sangue Misto - SXM
Ristampa attesissima per il disco più bello e importante del rap italiano. Peccato sia uscita in poche copie solo su vinile e sia andata esaurita in un lampo. E infatti io me la sono persa. Spero comunque in un altro giro, magari con una versione economica in cd. Comunque i Sangue Misto di Neffa, Dj Gruff e Deda restano davvero uno dei vertici del rap italiano all'italiana. Un capolavoro assoluto, che ha messo le basi per un vero e proprio canone rap.

Joe Strummer - 001
Chiudo con un pezzo di cuore. Perché Joe Strummer è forse l'artista che ha maggiormente influenzato la mia vita. Quando sento la sua voce ancora mi vengono i brividi, come quando avevo 14 anni. Questo doppio disco raccoglie un po' di brani della carriera solista di Joe (sapete tutti che suonava nei Clash, vero?) e alcuni inediti (tra cui molte versioni alternative di brani noti) pescati direttamente dal mega archivio di famiglia. Sappiate che non mancano le belle sorprese. Tanti buoni motivi per risentire, ancora una volta, quella voce calda e avvolgente, che sa prenderti per mano e portarti al centro della rivolta.



mercoledì 28 novembre 2018

Con Jesse Malin (al Bloser) ti porti a casa un pezzo di New York

Sogno di vedere dal vivo Jesse Malin da vent'anni. Da quando, nel 1998, sedicenne sbarbo coi capelli a mezzo collo, mi ero messo a spulciare le novità punk del Music Store del Porto Antico. All'epoca - prima del file sharing e di Yotube - l'unico modo per sentire qualche disco in anteprima era fiondarsi in quel paradiso del cd a mezzo chilometro del capolinea dell'autobus numero 1, mettersi sotto l'apposita colonnina, scegliere uno degli album selezionati dal personale del negozio, indossare le cuffie e schiacciare play. E' così che ho scoperto i D Generation, gruppo punk newyorkese anni novanta guidato da Jesse Malin. Una scoperta col botto, visto che la prima traccia di quel disco - l'ottimo "Through the darkness" - era la magnetica "Helpless", che parte a razzo con quel "nonononono" cantato con strafottenza pop da Jesse, inseguendo una melodia acida e fulminante: una canzone che mi aveva mandato letteralmente in pappa il cervello, esplodendomi a tradimento nelle orecchie. Insomma, fu amore al primo ascolto, tanto che, ancora oggi, quel brano resta, inspiegabilmente, una delle mie più longeve ossessioni musicali. Lo so, non ha le caratteristiche del classico pezzo della vita, eppure è proprio questo l'effetto che continua a farmi a distanza di vent'anni. Ma la mia passione per i D Generation nel 1998 era più che altro platonica, visto che non sapevo chi fossero, da dove venissero, quanti dischi avessero fatto e soprattutto non avevo i soldi per comprarmi "Through the darkness" (tanto che sono riuscito a recuperarlo soltanto un anno e mezzo fa, mentre "Helpless" l'ho scaricata da Napster pochi anni dopo averla ascoltata e, da allora, l'ho infilata in qualsiasi compilation per walkman e autoradio). E questo, più o meno, è tutto. O almeno lo era fino a qualche giorno fa, quando ho letto che al Bloser, a pochi chilometri da casa mia, in un freddo martedì di novembre, sarebbe atterrato proprio Jesse Malin, oggi cinquantenne e con una solida carriera solista, fatta di brani acustici più pop-rock che punk. Musica figlia di quel suono delle strade di New York dove Jesse è cresciuto e che ti lascia un'impronta assolutamente inconfondibile. Certo, inizialmente, il fatto che il concerto fosse chitarra acustica e pianoforte (suonato da tal Derek Cruz) mi aveva un po' inquietato. Ma come si fa a non andare a sentire il cantante dei D Generation quando ce l'hai quasi sotto casa? Se il me stesso di vent'anni fa avesse saputo una cosa del genere mi avrebbe sicuramente preso a calcio in culo (anche se probabilmente già dovrebbe farlo per come mi sono rammollito con la vecchiaia). Comunque, fidandomi della mia solita incoscienza, ho preso coraggio e insieme a Grazia mi sono diretto al Bloser. Abbiamo parcheggiato come al solito lontanissimo e siamo entrati in questo piccolo teatrino sotterraneo, dietro il Duse e il Politeama. Ad aprire il concerto c'era Eugenia Post Meridiem, con chitarra elettrica e una voce grande così. Conosco la ragazza e l'avevo già sentita dal vivo. Devo ammettere che non è stata niente male, col suo piglio da Joni Mitchel postatomica. Anche se, sulla carta, non è che sia proprio "la mia tazza di tè".  

Quando finalmente è arrivato Jesse Malin, il Bloser è esploso, ma un piccolo problema tecnico a un microfono ha immediatamente indispettire il nostro più del dovuto, tanto che, un po' stizzito, ha deciso di rifugiarsi in camerino, insieme al fidato Cruz. Il guasto, in realtà, era cosa da poco ed è stato risolto in tre minuti d'orologio, ma quando è tornato sul palco, Jesse, ha dato quasi l'impressione di essere un po' scazzato, si è messo a torturare il pianoforte e ha cominciato a parlare al microfono. Eccallà - ho pensato col morale sotto le suole - vedrai che si rivelerà uno stronzo egocentrico e, per una cazzata come questa, farà un concerto di merda, che mi rovinerà l'immagine che ho di lui. Invece, tempo trenta secondi netti, Jesse ha messo su un sorriso sornione da vecchia volpe, è partito con un tiritera sul fatto che avrebbe parlato inglese lentamente per farsi capire da tutti e poi, carico come una miccia, ha iniziato uno dei concerti più belli che mi sia capitato di vedere quest'anno (e forse anche oltre). Dopo le prime note anche Grazia si è illuminata, mi ha stampato un bacio sulla guancia e io sono salito direttamente in Paradiso. Il concerto stava piacendo anche a lei e mi sentivo come un bambino a Disneyland. Jesse Malin, quello che mi aveva sconvolto la vita al Music Store quando avevo 16 anni, era lì davanti a me che cantava. Eravamo a un palmo di mano l'uno dall'altro e lui suonava canzoni bellissime, che non conoscevo per niente, pescando a piene piena mani dai suoi quattro o cinque dischi solisti che, a quel punto, avrei voluto comprare in blocco (ma alla fine mi sono accontentato di prendere soltanto la ristampa del primo cd). Ha attaccato con "Broocklyn", "Black haired girl", si è lanciato in una cover spericolata dei Pogues e poi ha presentato"Broken radio", una vecchia canzone scritta per sua madre - morta quando lui aveva sedici anni - che qualche anno fa ha inciso insieme a Bruce Springsteen (ok, odio Bruce Springsteen, ma per un secondo me lo sono dimenticato). Jesse, tra un brano e l'altro, si è messo a chiacchierare col pubblico e a spalleggiarlo in silenzio c'era sempre il fido Cruz, discreto e preziosissimo non soltanto al piano, ma anche alla seconda chitarra e ai cori. In ordine sparso il buon Malin ci ha parlato dell'importanza dei piccoli negozi di dischi; di quella volta che mentre si trovava a Los Angeles a registrare un album, si è messo a camminare per mezza giornata ed è finito in una zona piena di prostitute; dell'intervista surreale che gli aveva fatto un giornalista di Rolling Stone Germania sul titolo del suo primo album ("The fine art of self destruction"); di quando ha registrato la canzone per sua madre a casa di Bruce Springsteen e il Boss si è presentato con un'ora di ritardo e in sella a una moto; di come in Italia anche il cibo del peggiore autogrill sia meglio di quello servito nel miglior ristornate di New York e di quando si è trovato Shane MacGowan dei Pogues a bordo palco (con tanto di imitazione ignorantissima del vecchio Shane). Il resto è stato una cascata di canzoni dalle melodie cristalline, suonate con piglio punk, ma con strumentazione folk. Jesse ha una voce limpida e gentile e l'altra sera sferzava le corde della sua chitarra come un matto. E' sceso anche in mezzo al pubblico, riuscendo a convincere tutti a sedersi per terra, mentre Cruz suonava leggero sui tasti del pianoforte. "Sembra di stare a New York"  mi ha detto Grazia, a un certo punto. Ed era proprio vero. Malin, che ripeteva tra un aneddoto e l'altro che bisogna vivere giorno per giorno, è riuscito a trasformare uno sfigatissimo martedì sera in un concerto da incorniciare. Quando alla fine - dopo il classico bis - ha detto, quasi automaticamente: "Ci vediamo l'anno prossimo", io ho sgranato gli occhi e l'ho preso come un impegno. Chi se l'aspettava una serata così, vibrante e da batticuore, a mezzo metro da uno degli eroi della mia adolescenza pop-punk? E invece vedi alle volte che succede a inseguire i sogni di quando eri ragazzino. 

Jesse Malin al Bloser nella foto scattata da Giovanni Villani

venerdì 2 novembre 2018

Un po' di recensioni a babbo 9/Tre giovani teppisti e Bobby Solo

Torno alle buone abitudini con il solito giro di recensioni a babbo, grazie a due succosi pacchi arrivati qualche giorno fa nella cassetta della posta. Uno da Luca Tanzini della Buba Records e l'altro da Tiziano Rimotti per Area Pirata. Un sacco di roba fighissima, di cui andrò testé a parlavi.


PUNK XEROX - BROKEN

La Bubca Records di Luca Tanzini (se non lo conoscete vuol dire che la vostra coscienza punk-hc he bhé ma è proprio scarsa, per citare il poeta) è una delle ultime etichette realmente punk in circolazione. Lo è per la sua etica, certo, ma anche per la sua estetica e naturalmente per la musica che produce. Dischi quasi sempre stampati in cdr o in cassetta, con inserti fatti a mano, infilati in buste trasparenti piene zeppe di "pizzini", adesivi e disegni a pennarello dalla punta grossa. Dischi apparentemente di fortuna, che invece, nel loro essere spartani ma al tempo stesso curatissimi, rappresentano pezzi unici ma accessibili a tutte le tasche (5 euro, riga'). Come se, per una volta, sovvertendo i postulati di Walter Benjamin, l'opera d'arte fosse tale proprio per la sua riproducibilità. E questo è molto punk. Se poi passiamo all'ascolto - lasciando perdere tutte le pippe mentali che vi ho rifilato fino a questo momento - e piazziamo nel lettore cd "Broken" di Punk Xerox, uno degli ultimi folli progetti di Luca, la faccenda si fa ancora più ingarbugliata. E dannatamente pesa. Perché Punx Xerox - che non sto manco a dirvi chi cita perché altrimenti volano pattoni - è un progetto stortissimo e lisergico, che mescola improvvisazioni rumoriste a manipolazioni cosmiche e assomiglia alla colonna sonora di un film di fantascienza. L'album è articolato in sei pezzi piuttosto lunghi: quasi tutti intorno ai 4-5 minuti, tranne l'ultimo, "Agenzia viaggia interplanetaria", che supera i 9. Sei brani che estremizzano al massimo le ossessioni musicali di Luca - da Tabula Rasa ai Centauri - costruendo un nuovo linguaggio robotico e metallico, dove gli strumenti si mischiano e ci si arrangia a suonare quello che si trova. "Punk Xerox", la title track che apre il disco, per esempio, è un assortimento di rumori infernali che sembra uscito da una b side dei Suicide registrata in un altoforno, mentre "Il grigio" - al di là dei soliti titoli strepitosi, tipo il terzo pezzo che si chiama "Diploma, l'album è tutto strumentale - è un'improvvisazione noise-cosmica, costruita su una chitarra minimale e da coito interrotto. Il già citato "Diploma" è un pezzo distensivo, basato su dei riff di chitarra ripetuti ossessivamente, in una sorta di crescendo. "Rain in my brain", invece, è una sorta di sonorizzazione in bassa frequenza che ci prepara al viaggio intorno al sistema solare dell'ultimo pezzo. Ma prima c'è "Broken Xerox Machine", una brano bellissimo tra surf, manipolazioni, rumori e sonde spaziali impazzite (mentre lo ascoltavo mia moglie, che era in un'altra stanza, mi ha chiesto cosa fosse tutto quel casino, temendo che la tv stesse dando in numeri). E poi eccoci al gran finale di "Agenda di viaggi interplanetaria": una lunga suite psichedelica, composta per astronauti degenerati. Insomma "Broken" è un disco pieno di sorprese, ma al tempo stesso difficile. Un album minimale, ma dai suoni stratificati e vari, tra punk sintetico e sonorizzazioni. E' tutto suonato in analogico  e registrato in casa, raccogliendo frammenti sonori sparsi nel giro di quasi tre anni, tra il 2016 e il 2018. Punk Xerox  è il suono punk del futuro distopico nel quale si sta tramutando il nostro presente.

RAWWAR - FIGHTING FOR LOVE
Escono sempre su Bubca Records e vedono ancora una volta protagonista il grande Luca Tanzini i Rawwar. Anche in questo caso siamo di fronte  a un cdr (che credo sia uscito anche in cassetta), con busta di plastica sottile e inserti fatti a mano e fotocopiati. "Fighting for love", questo il nome dell'album, è un ep di tre pezzi in dieci minuti secchi di garage lo-fi, in cui chitarre e tastiere si mescolano a una voce impastata e lontana, registrata dentro una coppa del cesso con un megafono. Tre perle melodiche che ricordano, in parte, i primi lavori del Trio Banana, ma che qui mettono in evidenza una vena pop - seppur orticante - davvero inaspettata. Oltre a Luca (voce e chitarra), la band vede schierati anche The Doctor / Il Dottore alla batteria e Gianlorenzo Nardi alle tastiere e ai rumori vari. Un bel calcio nel culo fresco fresco  - visto che è appena uscito - registrato il 25 aprile scorso in presa diretta a Tor Pignattara. I 5 minuti della title track sapranno perseguitarvi con le loro urla lancinanti e la loro melodia monotona per almeno 7-8 minuti.

THE CHATS - s/t
Non ringrazierò mai abbastanza Luca e la Bubca Records per aver pubblicato in cdr uno dei migliori gruppi punk contemporanei: i Chats, tre degenerati australiani appena maggiorenni (forse), che hanno all'attivo tre ep e, al momento, nessun album vero e proprio. Luca, appena li ha sentiti, ne è rimasto folgorato - così come molte altre persone fuori dall'Italia - e visti anche i prezzi assurdi con cui viaggiano i primi due singoli della band (il secondo e più interessante parte da una base di 40 euro su Discogs e sale fino a 200, vabbè), ha deciso di raccoglierli entrambi in un cd fiammeggiante fatto, come al solito, in casa, che potrà essere vostro per soli 5 miseri euro. Badate bene: al prezzo di una birra media vi accaparrerete uno dei dischi dell'anno. Perché se da noi i ragazzini se la stanno a menare tutto il giorno con la trap e i telefonini, questi imberbi australiani riescono a tirare fuori un rock'n'roll talmente basico, primitivo e maleducato da farti letteralmente commuovere. Ho sempre pensato di ascoltare musica per anziani e pensionati, ma gentaglia come i Chats mi fa ben sperare nelle nuove generazioni (che, a parte pochi e selezionatissimi casi, mi fanno ribrezzo, essendo un vecchio malmostoso trentaseienne). Il disco conta quindici pezzi in 30 minuti, con una voce sbracata che sbraita stronzate e proposito di birra, serate ignoranti e altre tematiche di alto spessore culturale, una chitarra asinina che suona quasi sempre lo stesso riff e una sezione ritmica talmente stazza e incerta da farti gridare al miracolo. Il tutto condito con melodie pop irresistibili. Finalmente un gruppo di giovani teppisti, che suona musica di merda. E lo dico nel senso migliore del termine, visto che al loro confronto anche i Cavemen sembrano dei professori di Oxford. Questo è il punk, signora mia. Questa è una delle poche luci accese in un universo di musica tremendamente bolsa e inutile. I Chats, cari fessacchiotti, sono il vostro biglietto per il paradiso della birra a basso costo. Speriamo non si rovinino crescendo. O forse sì.

BARMUDAS - ROCK THE BARMUDAS
Passando invece al ricco pacco targato Area Pirata, non mi stancherò mai di ripetere quanto Tiziano e Jacopo siano oggi due figure fondamentali per lo sviluppo e la promozione della scena underground italiana. Questi due toscanacci dal cuore d'oro non solo, da quasi vent'anni, recuperano perle nascoste e storici gruppi del nostro passato beat, punk e hardcore, ma sfornano anche progetti nuovi di zecca di altissimo livello. Uno di questi è senza dubbio il singolo d'esordio dei Barmudas, band in giro da appena un anno e formata da alcuni veterani dell'attuale scena punk sotterranea fiorentina. Punk, ma con la passione per il glam, come ci hanno insegnato i Giuda, illustri precursori di questo curioso e splendido revival. Ma se la band romana è più spostata sul versante rok'n'roll e guarda, seppur con mostrando una certa personalità, agli Slade e ai Bay City Rollers, i Barmudas, sono leggermente meno scalmanati e più pop. Detto questo l'unica pecca dei due pezzi contenuta in questo singolo dal titolo "Rock the Barmudas" è che si tratti, appunto, di appena due pezzi. Perché dopo aver sentito il ritmo contagioso dalla title track e del lato b "Zaira" - un po' più esotica ma sempre in palla - viene una voglia matta di ascoltare un album per intero. Anzi, Tiziano e Jacopo: promettetemi di stare dietro ai ragazzi e giurate che li obbligherete a scrivere un lp di almeno 10 pezzi. Perché ormai questi due li conosco a memoria.

THE THINGLERS - s/t
Sono al loro esordio su singolo, ma non sono certo dei novellini i Thinglers, di cui Area Pirata ha pubblicato il singolo omonimo. Quattro pezzi di garage sixties immediato e suonato a rotta di collo dalla band di Pordenone, nata dalle ceneri degli storici Seuss. Il primo lato dal singolo mette in fila "Hangin' out" (cover dei Blox) e l'originale "Leave me alone": due brani che ci riportano immediatamente ai beai tempi del revival garage di metà Anni Ottanta, fra Sick Rose e Miracle Workers. Il menù non cambia di una virgola neppure con "Come on" degli Atlantics e l'altro brano originale "Without you", sul secondo lato. Beat suonato a manetta e imbastardito dal punk, soprattutto nei due pezzi a firma della band di Pordenone. Le melodie degli Anni Sessanta incontrano la furia degli Anni Settata-Ottanta: un mix perfetto che magari non aggiunge molto alla lezione impartita da raccolte come "Pebbles" e "Back from the grave", ma di cui è davvero difficile stancarsi. Anche in questo caso attendo con ansia un disco sulla lunga distanza, anche perché i due pezzi originali, con quel pizzico di furia in più rispetto alle cover, sembrano scritti appositamente per me.  

BROADCASH FEAT. BOBBY SOLO - BROADCASH PLAYS CASH FEATURING BOBBY SOLO
Chi se lo sarebbe immaginato che sarei finito ad ascoltare un disco di Bobby Solo? E soprattutto che, a pubblicarlo, sarebbe stata Area Pirata? Eppure è proprio ciò che è successo con "Broadcash play Cash featuring Bobby Solo", un agile 10'' con quattro pezzi di Johnny Cash suonati da una della cover band italiane per eccellenza del bandito del country rock americano (gli ottimi Broadcash, appunto) e cantate dalla voce inconfondibile di Bobby, eroe dei miei nonni e persino di qualche mi vecchia zia. Non se ne abbia a male Roberto Satti, vero nome del mitico autore - in coppia con Mogol - di "Una lacrima sul viso", perché al di là delle battute e della vulgata televisiva che lo dipinge sempre con un vecchio eroe nazional popolare, conosco da tempo le sue passioni musicali "alte". Qualche anno fa, per esempio, quando lavoravo al "Corriere Mercantile" mi è capitato di parlare di un rassegna jazz nell'entroterra genovese e di scoprire che insieme ai vari ospiti blasonati d'oltre oceano c'era anche lui: Bobby Solo. Un tipo eclettico e magenticamente simpatico, uno che il rock'n'roll non solo lo ama, ma lo ha anche vissuto in prima persona al momento giusto. E infatti si sente: quando canta con la sua voce grossa e pulita i 4 pezzi di Johnny Cash scelti per questo tributo, "Cry cry cry", "I walk the line", "Big river" e "Folsom Prison blues" (quattro capolavori assoluti del "maestro") si resta letteralmente ipnotizzati dalla magia che si sprigiona. Bobby, tra l'altro, è uno che Cash l'ha conosciuto personalmente negli anni Sessanta alla base americana di Rammstein in Germania. Quindi quale modo migliore per festeggiare il mezzo secolo di "Live at Folson Prison" se non regalarci questo disco di assoluta eleganza? Una piccola perla che dovremmo regalare in massa a chi si occupa dei palinsesti televisivi e si ostina a far cantare a Bobby sempre e solo le solite robe. Per carità, sono pezzi che hanno fatto la storia della musica italiana. Però quanto il nostro si cimenta col rock'n'roll o quando veste i panni di Johnny Cash anche la sciura davanti alla televisione rischia di andare in brodo di giuggiole.


giovedì 11 ottobre 2018

Il quaderno Punk - di Fabrizio e Stefano Gilardino

A chi è nato con i computer, Internet, Wikipedia e Yuotube, "Il quaderno punk" di Fabrizio e Stefano Gilardino, pubblicato qualche settimana fa da Goodfellas per la collana Spittle, potrebbe sembrare un oggetto non identificato, atterrato qui da noi da un passato lontanissimo. Eppure sono trascorsi appena 40 anni da quando i fratelli Gilardino (oggi impegnati tra grafica e giornalismo), in piena adolescenza e dopo uno scontro frontale col punk avvenuto grazie ai servizi televisivi di Odeon e l'Altra Domenica trasmessi alla fine del '77, avevano deciso di fare la cosa più semplice e naturale per due teenager dell'epoca: annotare, con tanto di ritagli di giornali e riviste, tutto ciò che si diceva e si scriveva in giro del "nuovo rock" italiano. E quindi non Sex Pistols, Clash e Ramones, di cui - pur con tutte le lacune del tempo - si parlava con una certa frequenza sulle pubblicazioni specializzate, ma quelle piccole band che, anche nel nostro provincialissimo Paese, erano rimaste folgorate dall'incendio di Londra e New York. Un lavoro certosino e a uso domestico, fatto di lunghi elenchi di gruppi, con tanto di città di origine e formazione completa, annotati con cura lungo le pagine a quadretti di un quadernone comprato nella cartoleria sotto casa. Insomma una faccenda piuttosto privata che però, grazie alla Goodfellas, ora diventa pubblica sotto forma di copia anastatica. Il quaderno fissa un orizzonte temporale ben preciso che va dal 1979 al 1981, e cioè la prima e pionieristica scena punk italiana, che precede l'avvento dell'hardcore (che è tutta un'altra storia e gode, decisamente, di un'attenzione maggiore, tra pubblicazioni e ristampe). 
 A impreziosire l'intero lavoro ci sono poi 5 interviste a 5 gruppi del nuovo rock italiano fatte in tempi recenti da Stefano Gilardino e un cd antologico di 21 canzoni, con parecchie chicche e qualche inedito. Due "aggiunte" non da poco, che aumentano notevolmente il valore della pubblicazione. Anche perché, al di là dell'innegabile fascino che suscitano le pagine riprodotto del quadernone (ci sono gruppi dai nomi assurdi e durati, probabilmente, il tempo di un paio di prove in saletta, ma anche "intrusi" eccellenti come Gianni Nannini, a dimostrazione della splendida confusione che aleggiava ai tempi) è "l'integrazione" il piatto forte di questo riuscitissimo progetto editoriale. 
Partiamo dalle interviste che sono, nello specifico, a Confusional Quartet, Clito, No Submission/Wax Heroes, Dirty Actions e Jumbers/198X: cinque band insolite, se mi passate l'aggettivo, di cui si parla raramente quando si ricostruisce la storia del punk italiano. Di solito i nomi che si citano con più frequenza - anche se parliamo pur sempre di nicchie - sono Skiantos, Gaznevada e Kandeggina Gang: tutti gruppi incredibili e fra i miei preferiti, ma di cui gli appassionati sanno già parecchie cose. Delle Clito, invece, tanto per citare la band più oscura delle cinque, si è sempre saputo pochissimo. Dovevano incidere un 45 giri su Cramps per la serie Rock 80 e invece furono rimpiazzate - racconta la leggenda - dai Dirty Actions (poi ne parliamo...), hanno fatto i cori in un disco degli Area, hanno partecipato a un film di Fellini e registrato un singolo su Italian Records, riemerso solo 30 anni dopo nel mitico cofanetto pubblicato 5 anni fa da Spittle. In questa chiacchierata pubblicata sul "Quaderno punk" fra Stefano Gilardino e Luisa delle Clito, finalmente, si ricostruisce la storia della band e si scopre anche qualche aneddoto divertente. E lo stesso vale per i No Submission poi diventati Wax Heroes, che ci dimostrano come nel nord est oltre al Great Complotto (che è comunque tanta roba) c'è di più.I Confusional Quartet facevano parte dell'area più creativa e sperimentale della scena bolognese, tanto che parlare di punk, nel loro caso, risulta decisamente riduttivo, mentre i Jumpers e i 198X di Milano - di cui è uscito qualche tempo fa un interessante disco antologico per Rave Up - sono due band che incarnavano alla perfezione "il nuovo rock" metropolitano di fine anni Settanta di ispirazione inglese. Cito per ultimi i Dirty Actions perché, per loro, provo un affetto e un trasporto particolare, essendo di Genova e avendo scritto, insieme a Johnny Grieco, la loro biografia. L'intervista contenuta nel "Quaderno", che era già uscita in forma ridotta alcuni anni fa su Rocksound, è parecchio illuminante per chi non conoscesse la band. Ma non voglio aggiungere altro. Anche perché poi c'è il cd: con una messe di brani storti, graffianti e ingenui, che rappresentano un riassunto perfetto di cosa fosse il primo punk italiano, in tutta la sua confusione - come dicevamo prima - e la sua naturale eterogeneità. Ogni band interpretava la "nuova onda" come meglio credeva, facendo appello alla propria creatività e con pochissimi mezzi a disposizione. Oggi il punk, grazie anche alla tecnologia e all'abbondanza di informazioni a disposizione di tutti, rischia di essere un suono codificato, senza troppo margine di manovra. Mentre all'epoca era qualcosa di informe, urticante e urgente. Qualche nome tra i gruppi che troverete nel cd? Windopen, Rats, Hitlerss, Sorella Maldestra, Clito, Ice and the Iced, Skiantos... 
"Il quaderno del punk" dei fratelli Gilardino ci restituisce, con i suoi quadretti grossi e le sue pagine ingiallite dal tempo, l'atmosfera pionieristica, incendiaria e "immatura" di quell'incredibile periodo storico. La testimonianza di due ragazzini di provincia che sognavano Londra e avevano capito, prima di tanti altri, che la musica non sarebbe stata più la stessa. 



mercoledì 19 settembre 2018

Un po' di recensioni a babbo 8/Largo all'avanguardia (ma anche alla Wild Honey)

Torno a sputare le mie sentenze con una manciata di recensioni "a babbo" tanto per ricordare a me stesso che, nonostante tutto, scrivere resta ancora la mia seconda passione più grande.


AA/VV - ETERNALLYT. THE CORRUGATED COMPLICATION
Per festeggiare la sua cinquantesima uscita, l'etichetta digitale Asbestos Digit di Andrea Prevignano pubblica il suo primo cd in formato fisico: la compilation "Eternallyt. The Corrugated complication", che ruota intorno a un concept piuttosto particolare: l'Eternit. Una storia di morte e dolore, che ha scritto una pagina buia - e ancora lontana dall'essere chiusa - del nostro paese. Prevignano, che oggi vive a Roma (o almeno credo) ma è originario di Casale Monferrato conosce molto bene la vicenda e anche nel packaging di questo disco, con la copertina ondulata che sembra una lamiera di Eternit, ha voluto aggiungere un ulteriore elemento "tattile" piuttosto forte e azzeccato. Il contenuto dell'album - musica d'avanguardia e sperimentale, come nella tradizione delle uscite Asbestos - non si discostata dal concept e mette in fila una serie di gruppi "classici" dell'etichetta, per un totale di dieci pezzi. Ad aprire il disco tocca a Lucy Mina con la sua "Doggy Style", una nebbia di suoni inquietanti che si dissolve in poco più di due minuti. Si cambia totalmente registro con "Anche i cigni non cantano più" delle Cose Bianche, unico pezzo cantato della raccolta. Il brano sembra una b-side dei Massimo Volume registrata in bassa fedeltà, mescolata a suoni disturbati e vari sfrigolii. "Groundwork n.1 (For a threnody)" di Pierluigi Pugno - della durata di oltre sei minuti - ricorda il segnale di una sonda persa nello spazio: il suono è quasi impercettibile e se provate ad ascoltarlo in cuffia facendo l'errore di alzare al massimo il volume dello stereo, per cogliere tutte le sfumature del pezzo, tenete d'occhio il minutaggio perché, altrimenti, alla sua conclusione rischierete di perdere l'udito per qualche secondo. "La Furnasetta is already dead", sesto brano della raccolta firmato, appunto, da La Furnasetta, band noise-avant dai suoni metallici dirompenti e ipnotici, è infatti una bomba di rumore dissonante, che farà a pezzi i vostri timpani e foraggerà il vostro acufene (per chi lo ha già...). In poco più di 4 minuti il gruppo (un dei migliori della compilation) saprà sfondarvi il cranio con uno "stoner elettronico" lento, pensante e assordante. Un antipasto perfetto per le dissonanze acquatiche di Luca Serrapiglio e il suo "Incanto e incatenato". Mademoiselle Bisturi (un'altra delle mie favorite della raccolta) ci regala, invece, una pioggia dorata (o forse placcata oro) di ferraglia, grazie alla cavalcata noise di "Half life", il cui suono fa venire in mente una fresa che taglia una lamiera di Eternit. Ne "La discipline n'est pas une étude (vers. III)" di Gianmaria Aprile, invece, una tromba jazz squarcia il silenzio, come in quei funerali per i soldati caduti in guerra, salvo poi spegnersi in una coda elettronica e palpitante. I Legendary Gay Cowboys - nome della vita! - si adoperano, con la loro "Il perno del mondo", in una sorta di mini colonna sonora cosmica di tre minuti, mentre "Superego" di Faluomo - al terzo posto della mia classifica personale di questa ottima compila - sembra quasi un omaggio ad "Amore tossico", grazie a un sinth spettrale, che suona come una campana a morto. Chiude la raccolta "Speed & politics" degli uBik: una catena di montaggio di suoni minimali in sequenza. 
Anche se della cosiddetta musica d'avanguardia non si parla praticamente mai in questo blog e, di solito, i miei ascolti spaziano dal punk al punk-rock, devo ammettere che "Eternallyt" rappresenta una bellissima eccezione, tanto che, nel giro di pochi giorni, questa compilation è diventata una degli ascolti più frequenti dell'ultimo periodo. Forse è l'inquietudine e la violenza di certi pezzi (non necessariamente quelli più rumorosi) ad avermi colpito così tanto. Ma è anche vero che, per chi, come me, è digiuno da certi suoni, partire da una raccolta che mette insieme gruppi e musicisti così diversi e intensi potrebbe essere un ottimo punto di partenza. Provate a spararvi l'intero disco in cuffia cliccando sul link sotto la recensione e (con le dovute accortezze di cui sopra) immergetevi in queste nebbie tossiche ed elettriche.   
Ps Tornando brevemente alla confezione di questa raccolta stampata in 30 copie numerate a mano, all'interno del già citato involucro simil lamiera (di cartone) dentro il quale è custodito il cd, troverete una tracklist in carta lucida e un piccolo lucido con disegnato un cagnolino. Nella busta c'è anche una spilla della Asbetos.
https://asbestosdigit.bandcamp.com/album/various-artists-eternallyt-the-corrugated-complication-asbestos-digit-50

PEAWEES - MOVING TARGET
Forse dovrei aspettare di poter stringere fra le mani il vinile. Ma visto che non so resistere (e non ho neppure la più pallida idea di quando riuscirò a comprarlo) ho deciso di recensire l'ultimo disco dei Peawees, dopo averlo ascoltato (più volte) sulla pagina bandcamp della Wild Honey e su - orrore - Spotify. "Moving target" (e già il titolo che cita, anche se temo inconsapevolmente, uno dei miei gruppi preferiti è una garanzia) potrebbe essere quello che un recensore serio definirebbe un album maturo. Una sorta di anello di congiunzione fra il più classico e pacato "Leave it behind" - suo predecessore uscito ben sette anni fa - e il capolavoro del 2001 "Dead end city". Perché se, da una parte, il suono di questo nuovo disco è decisamente più quadrato e corposo rispetto alle prime uscite della band, ciò che lo differenzia dai due dischi post "Dead end city" sono, essenzialmente, le canzoni. Ognuno dei 10 brani di "Moving Targets", infatti, ha una precisa identità e potrebbe essere un potenziale singolo. Cosa che mancava un po' in "Leave it behind" e "Walking the walk". Per carità, parliamo di due album potenti e compatti, dove la vena rock'n'roll e country dei Peawees era al massimo del suo splendore. Ma per chi, come il sottoscritto, ha letteralmente consumato, da pivello, "Dead end city", quei due dischi restano un gradino sotto quel piccolo grande capolavoro targato Stardumb. In "Moving Targets", insomma, tornano le canzoni che ti si appiccicano in testa, grazie a una spiccata vena pop che, magari, rallenta un po' il ritorno rispetto al passato, ma che, coniugata con un songwriting robusto e di classe, trasforma questo disco in uno dei migliori in assoluto della band; secondo, forse, solo a "Dead end city". Difficile dire quali pezzi preferisca fra queste dieci perle e così, senza pensarci troppo, vi butto lì un terzetto da urlo formato da "Walking through my hell", "Stranger" e "Phil Spector". Ma non è possibile non menzionare anche "As long as you can sleep" e "A reason why": insomma finisce che mi tocca citare tutti e dieci i brani. Come dicevo poco fa la classica formula "rock'n'roll/musica delle radici americane" diventata, ormai, un marchio di fabbrica della band spezzina, in questo "Moving Target" viene riaggionrata con un gusto power-pop davvero irresistibile. Per non farla tanto lunga, il nuovo album dei Peawees è senza dubbio uno dei dieci dischi più belli dell'anno.


DENIZ TEK - LOST FOR WORDS
Restando sempre in casa Wild Honey un altro disco incredibile in uscita in questi giorni e che potete ascoltare sulla loro pagina bandcamp è il nuovo album solista di Deniz Tek dei Radio Birdman. Franz e compagni sono dei veri e propri fan della band australiana - che infatti è uno dei nomi di punta di Otis Tour - e, da qualche mese, si sono messi in testa di ristampare il materiale legato alla carriera post RB di Deniz Tek: la prima uscita è stato l'unico e omonimo album dei Visitors (anno di grazia 1978): un disco che, nella versione originale, è pressoché introvabile a prezzi umani e che Wild Honey ha ripubblicato in un sontuoso vinile rosso, con tanto di bonus track. "Lost for words", invece, è un album nuovo, appena inciso e interamente strumentale: dieci pezzi in bilico fra surf e rock chitarristico e desertico, perfetti per una serata in spiaggia bere birra ghiacciata e a guardare le onde. Arpeggi sinuosi e riff delicati si distengono lentamente su un tappeto di melodie soffici e ipnotiche. Lunghe fughe strumentali come "The Barrens" si alternano a surf'n'roll in salsa garage come "Hondo's dog" e "Song for Dave". Un album splendido e immeditato. Una colonna sonora calda e malinconica, come il mare d'autunno.


THE SHOWBIZ - DO THE ROCK'N'ROLL
Il pub e il rock'n'roll sono due luoghi fisici e dell'anima che oserei definire sacri. E d'altra parte è ormai acclarato che una buona birra, insieme a una bella canzone, siano in grado di curare parecchie ferite. Di questo parere sembrano anche gli Showbiz che, per la Tongue Records, hanno recentemente pubblicato un 7'' dal titolo più che esplicito "Do the rock'n'roll". Quattro brani bollenti e senza troppi fronzoli, con la chitarra in primo piano a macinare riff vertiginosi e inarrestabili. Niente di nuovo sul fronte occidentale, per carità: ma gli Showbiz sono dei discepoli di Chuck Berry e dei Sonics, che hanno come unico obiettivo quello di restituire alla musica le sue radici più genuine. E in questo pezzetto di vinile ci riescono a meraviglia. E' solo rock'n'roll e ci piace parecchio. Una menzione speciale per il brano che apre il lato b,"All the girls", che grazie a una melodia azzeccatissima riesce a colpire subito al cuore.
 




domenica 5 agosto 2018

"New York Rock" è bello ma non ci vivrei - Perché il libro di Blush mi è piaciuto a metà


Quando ho finalmente stretto tra le mani "New York Rock - Dalla nascita dei Velvet Underground al declino del CBGB" dei Steven Blush (tradotto in italiano da Spittle/Goodfellas) ero convinto di aver trovato un altro Santo Graal dell'editoria punk. Anche perché, memore del bellissimo - o, almeno, è così che me lo ricordo - "American punk hardcore" pubblicato nel 2007 da Shake, l'idea di leggere un altro volume firmato da Blush sulla mia musica preferita mi entusiasmava non poco. Fin alle prime pagine, però, mi sono accorto che "New York Rock" non sarebbe stata una lettura particolarmente avvincente.
Intendiamoci: siamo di fronte a un libro prezioso, che riscostruisce con dovizia di particolari la scena musicale della Grande Mela dall'inizio degli Anni Sessanta a oggi (anche se si comincia a fare sul serio, come suggerisce il sottotitolo, proprio dai Velvet Underground e quindi verso la fine dei sixties). Ma l'idea dell'autore di non affrontare organicamente - a mo' di romanzo, diciamo - l'intera vicenda e di suddividerla in capitoli-schede con sezioni sempre uguali e titoli come "La nascita", "La scena", "La musica" e "Il declino", rende "New York Rock" più che un vero e proprio libro da leggere tutto d'un fiato, una sorta di catalogo di luoghi, club, band e dischi. Una scelta che, alla lunga, risulta un po' stucchevole.
Risfogliando "American punk hardcore" mi sono accorto che, anche per quel mitico volume, Blush aveva utilizzato un metodo simile, seppur meno statico. E forse dovrei  rileggerlo per capire se oggi avrei per quel libro le stesse riserve che nutro per "New York Rock". Chissà: sarà stato l'argomento - all'epoca era davvero difficile trovare, in italiano, un volume che parlasse così diffusamente dell'hc americano degli Anni Ottanta - o forse sarà stata colpa del mio entusiasmo giovanile: avevo 11 anni di meno e tanta fame di storie punk in più. Fatto sta che i ricordi che mi suscita "American punk hardcore" sono molto diversi dalla sensazioni trasmesse da questa nuova pubblicazione. E non è un caso che mi ci vollero appena tre giorni per polverizzare le sue 462 pagine, mentre ho impiegato quasi un mese a far fuori le 500 facciate di "New York Rock". Certo, il volume oggetto di questa recensione è talmente eterogeneo e affronta così tante scene musicali diverse che è difficile entusiasmarsi per tutte le vicende raccontate (cosa che è invece più semplice per una monografia come "American punk hardcore"). Ma non credo sia solo questo il punto.
Il problema di "New York Rock" è che, dopo poche pagine, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un lungo elenco di band e album, con pochissime notazioni critiche: una sfilza di nomi davvero difficili da ricordare una volta interrotta la lettura; e questo che non aiuta ad affezionarsi al libro. Blush deve aver fatto un lavoro di ricerca enorme - anche se molte storie le ha vissute direttamente sulla propria pelle - per mettere insieme tutte queste informazioni. Ma pur restando imprescindibile il valore documentale di questo testo, credo che conserverò "New York Rock" più che altro come una buona guida per scoprire "nuove" band del passato che fino a oggi ignoravo (e in questo caso il libro di Blush è una vera e propria miniera di informazioni).
Al di là delle cretiche "letterarie", comunque, in "New York Rock" ci sono molti spunti interessanti: soprattutto quando Blush parla di scene e periodi poco battuti dall'editoria musicale (o magari sono io a saperne poco e niente). Perché se del CBGB, del New York hardcore, ma anche dei Velvet Underground e della no wave è già stato scritto di tutto, ho letto con grande interesse e curiosità - soprattutto nell'ultima parte del volume - i focus relativi alla nascita e lo sviluppo della scena anti folk e di quella garage revival, dell'alt rock di Hoboken e soprattutto del revival punk dei primi Novanta (il giro legato ai D Generation e a una miriade di altre band pazzesche e sottovalutate). Forse "New York Rock" sconta proprio il fatto che sulla musica "classica" della Grande Mela si è scritto e pubblicato tantissimo negli ultimi 50 anni e che riparlare oggi di certe band come Ramones, Patti Smith e Sonic Youth rischia di risultare un po' superfluo, anche se a scriverne è un protagonista diretto come Blush. Per altri versi, proprio grazie al suo carattere didascalico, questo libro potrebbe diventare il volume definitivo del rock newyorkese: il compendio di oltre mezzo secolo di musica incredibile, capace di cambiare il mondo. Ma se cercate un libro rock (o meglio: punk) che vi faccia battere il cuore e vi tenga svegli la notte a divorare le pagine una dopo l'altra, lasciate perdere.


mercoledì 11 luglio 2018

Un po' di recensioni a babbo/7 Area Pirata mon amour

E' di nuovo Area Pirata-time: l'etichetta toscana ha sfornato, nel giro di un mese e mezzo, cinque dischi fantastici (3 album, un 45 giri e un mini cd, per la precisione). E grazie a un succoso pacco che mi è stato recapitato qualche giorno fa nella cassetta delle lettere me li sono sparati tutti, uno dopo l'altro. Tiziano e Jacopo stanno facendo un lavoro davvero incredibile con questa piccola ma indomita label. Ogni nuova uscita riesce a centrare in pieno il bersaglio. La qualità del materiale è sempre altissima e in mezzo a questi cinque titoli ce n'è persino uno che ritroverete sicuramente a fine anno nella classifica dei dieci migliori dischi del 2018.

The Superslots Terrible Smashers - 4 dummies

Quattro pezzi di rock'n'roll abrasivo sparato a mille: non servirebbe altro per descrivere "4 dummies", il nuovo singolo spacca ossa dei Superslots Terrible Smashers pubblicato da Area Pirata e Tongue Records. Quattro mine roventi al punto giusto che vi menderanno in pappa il cervello manco fossimo nel 1991. Già perché la band di Salerno, oltre a guardare al classico garage punk psichdelico di 50 anni fa, sembra uscita direttamente da quella fucina incandescente che era il gunk punk, e cioè quel breve ma intensissimo periodo tra la fine degli anni ottanta e i primissimi novanta in cui hanno trovato terreno fertile gruppi immensi come New Bomb Turks, Gaunt, Oblivians e Gories . Ecco i Superslots Terrible Smashars suonano esattamente come quelle band. L'Ohio d'Italia è sul mar Tirreno.


The Bradipos IV - Lost Waves

I Bradipos IV sono una vera e propria istituzione. E con questo nuovo album targato Area Pirata e intitolato "Lost Waves" dimostrano di essere, ancora una volta, dopo oltre 25 anni di dischi e concerti, i re indiscussi della musica surf europea. Se siete alla ricerca sfrenata di suoni innovativi e o moderni, forse, è meglio che vi teniate alla larga da questo pezzetto di vinile, perché la formula utilizzata dai nostri è quanto di più "alla vecchia" vi potrebbe capitare di ascoltare in questi giorni di calura estiva. Oltre ad aver studiato con cura la lezione di Dick Dale e dei Pyramids, tanto per fare due nomi classici che potrebbe citare anche un bambino, la band di Caserta dimostra anche una certa passione per i gruppi più oscuri del surf (i Phantom Surfers sono abbastanza underground o dico cazzate come al solito?) con imprevedibili sferzate garage - e anche una certa vena dark - che irrobustiscono le trame sonore delle canzoni. Chitarre scintillanti e liquide, riff ossessivi e taglienti: ogni pezzo è un'escursione in bermuda e camicia a fiori alla ricerca delle melodia perfetta. Fra i brani più belli di quest'album solido e da ascoltare tutto d'un fiato spiccano la magnetica "Hangover Serenade" e "A heartful of nothing", che grazie alle sue schitarrate concentriche e il suo andamento indolente, vorresti durasse per ore, come un viaggio mistico a due passi dalla riva.


Lupe Vélez - Wierd Tales

A meno che Grant Hart e Joe Strummer non resuscitino al volo e sfornino 5 album degli Husker Du e 5 album dei Clash nelle prossime settimane "Wierd tales" dei Lupe Vélez arriverà dritto dritto fra i miei dieci dischi del cuore del 2018. E ve lo posso assicurare già oggi, a 5 mesi dalla fine dell'anno. Senza stare troppo a menarselo, infatti, questo cd pubblicato da Area Pirata è davvero una bomba pronta a esplodere nel vostro stereo (lo so, quando mi entusiasmo così tanto inizio a perdere la fantasia). Ma fate attenzione perché il sestetto di Livorno (e già che siano in sei è un fatto abbastanza insolito) non è una band facile da inquadrare. I pezzi, pur avendo una matrice comune (il suono dei gruppi underground americani degli anni ottanta e dei primissimi novanta) sono molto eterogenei. Tra un brano e l'altro si sentono echi di rock australiano ("Next mistake"), revival garage ("Wild girl"), ma non mancano neppure mitragliate soniche punk-hc sul solco di Hukser Du, Lemonheads e soprattutto di una band spettacolare ma purtroppo dimenticata come i Moving Targets ("Oblivion", "I'm in America", ma più in generale quasi tutta la seconda metà del disco). Immaginate insomma un ibrido impossibile fra Visitors, Radio Birdman e i già citati Huskers e Moving Targets: il tutto guidato dalla voce incredibile e perfetta, per il genere, di Stefano Ilari, vecchia conoscenza della musica "alternativa" italiana grazie alla sua militanza nei Mumblers e nella Stelle Maris Music Conspiracy. Anche i suoi altri partner in crime arrivano da una fitta serie di esperienze musicali, quasi tutte in ambito punk hardcore: Alex Gefferson (chitarra) degli Steven Sperguenzi and the Incredible Lysergic Ants, Gianfra (batteria) già attivo nei Biffers, band hc melodica di Livorno con pedigree internazionale, Donatella Doda Mariotti (basso), storica esponente del Granducato Hardcore prima nei Senza Sterzo e poi negli ultimi Not Moving, Luca Valdambrini (tastiere, ecco il tocco Radio Birdman) dei Pipelines e dei Surfer Joe & His Boss Combo e, infine, Iride Volpi (chitarra), direttamente dalla band di Dome La Muerte, i Diggers. Il gruppo è in giro da appena 4 anni, ma come avrete capito dalle mie lodi sperticate sa già il fatto suo. Per me possiamo anche finirla qui, altrimenti finisce che scappo, prendo il primo treno per Livorno e li vado ad abbracciare uno per uno.


The 16 Eyes - Look


Il garage che oggi va per la maggiore è una musica violenta e primitiva, con melodie taglienti suonate a tutta velocità. Ma se andiamo a recuperare le radici anni sessanta di questo "non genere" e cioè i gruppi americani che provavano nelle cantine o, appunto, nei garage di famiglia tentando - inutilmente - di copiare Beatles e Rolling Stones e le cui gesta sono state raccolte nell'imprescindibile raccolta Nuggets, allora le coordinate sonore risultano un po' diverse rispetto a quanto descritto poco fa. Quello che fra il '65 e il '69 veniva banalmente definito garage rock (e poi punk), infatti, non era altro che il tentativo, ingenuo e splendido, di una massa di ragazzini della media borghesia a stelle e strisce di uscire dalla mediocrità della loro vita di provincia attraverso il rock'n'roll. Una miscela carica di ritmo, intrisa di psichdelia e frutto dell'utilizzo sistematico di droghe (erba e acidi, soprattutto). Oggi, però, che la musica è cambiata e anche le droghe non sono più quelle di una volta, si fa sempre più  fatica a imbattersi in un impasto sonoro di quel genere. Così quando ho messo su "Look", il primo disco dei 16 Eyes appena uscito per Area Pirata, è stato come fare un tuffo nei miei vent'anni: il periodo in cui avevo scoperto, con qualche decennio di ritardo, i gruppi di Nuggets, andando letteralmente fuori di testa per la psichdelia e il garage-punk americano delle origini. D'altra parte questi quattro "giovanotti" - una sorta di super gruppo, visto che parliamo di veterani della scena come Orin Portnoy, Frank Labor, Steve Ostrov e Ward Reeder - vengono dell'Arizona, regione desertica piuttosto fertile per questo tipo di sonorità. "Look", le cui tracce sono state impresse in un sontuoso lp stampato in 300 copie, è un disco davvero irresistibile, che alterna pezzi di rock'n'roll vorticoso ("Know know", "Leaving here" e "Shot in the dark") a brani più lenti e dilatati, vicini a certo rock australiano anni settanta ("Stupid little girl" e l'ipnotica "'Float"). Anzi il bello di questo disco sono proprio le canzoni: 14 brani fiammeggianti, senza alcun riempitivo.

The Ghiblis - Surfinia

Dura appena un quarto d'ora e qualche spicciolo "Surfinia" dei The Ghiblis, gruppo strumentale di Piacenza, che esordisce su cd con questo succoso mini pubblicato da Area Pirata. Oltre ai classici riverberi surf, e cioè chitarre ipnotiche spalmate su ritmi ossessivi e marziali, i Ghiblis aggiungono alla loro speciale miscela anche un pizzico di pop tropicale. Il risultato sono 6 pezzi straordinari (su tutti la title track "Surfinia"), capaci di tracciare le coordinate di una psichdelia surf, da ascoltare ai bordi di una piscina costruita nella giungla. Se non vi fidate provate a sentire un brano spettacolare come "Lazy Odyssey", che sfoderando un ossimoro potremmo definire uno "standard inedito": i Ghiblis, in poche mosse e potendo contare su una tradizione ormai spolpata in lungo e in largo, riescono a risultare originali e innovativi. E scusate se è poco.


venerdì 29 giugno 2018

Steve of the black hole - Addio a Soto il bassista degli Adolescents

Steve Soto, il bassista degli Adolescents (ma anche degli Agent Orange e di molte altre band) morto a 54 anni l'altro giorno, è un altro dei miei eroi del punk che se ne va nel quasi totale disinteresse generale. Certo, a piangere la prematura dipartita di Steve, nel solito giro, siamo stati in tanti per fortuna, ma credo che soltanto Rolling Stone Usa abbia scritto qualcosa di più di due semplici righe di commiato per commentare questa ennesima terribile notizia. Eppure gli Adolescents sono stati un gruppo capitale per la storia della musica. Non solo per il punk e l'hardcore. Il loro primo disco omonimo è una pietra miliare del "rock" citata come fonte di ispirazione da tantissimi musicisti blasonati (Green Day e Blink 182, tanto per dire). Ma che ci volete fare? La vita è ingiusta e, nel caso di Steve, purtroppo, persino troppo corta.
Anche senza tributo maistream post mortem, però, Soto resterà comunque un punto di riferimento imprescindibile per migliaia di persone. E già questo non è poco, per un ragazzino sovrappeso di origine messicana che, appena sedicenne, si unisce a una banda di teppisti per formare un gruppo punk nel sobborgo di Fullerton, in piena Orange County, una delle contee "bene" della California del sud in cui viveva (e vive ancora) una borghesia reazionaria e muscolare, che ha davvero poco a che fare con certa musica e le cosiddette sottoculture. E' il 1979 e Steve, insieme agli amici Mike Palm e Scott Miller mette in piedi gli Agent Orange, un trio che mescola i suoni dirompenti del punk alle ipnotiche trame surf. Un mix perfetto e inedito, capace di partorire un singolo stupendo come "Bloodstains" e un disco solido come l'esordio "Linving in darkenss" del 1981. Ma Steve non è accreditato in quei due pezzi di vinile perché ha già lasciato da qualche mese la band, visto che gli altri due non vogliono suonare le canzoni che scrive. A un concerto fa amicizia con Tony Brandenburg (il futuro Tony Cadena) e i due decidono di fondare un gruppo punk. Assoldano un po' di gente, fra cui Frank Agnew, fratello minore di Rikk, un tipo poco raccomandabile che suona nei Social Distortion e nei Detours (inutile dire quale delle due band passerà alla storia) e che presto si unirà a sua volta alla band. Nella loro fase iniziale gli Adolescents fanno qualche piccolo concerto sfigato e registrano un demo. Il suono è bruciante e sporco, ma bisogna attendere l'arrivo dei due "vecchi" Casey Royer e, appunto, Rikk Agnew perché il gruppo trovi la propria strada. I nuovi arrivati portano in dote pezzi stratosferici come "Amoeba" e "Kids of the black hole" (minchia!) e contribuiscono a forgiare un suono unico che sarà quello impresso a fuoco nel primo disco omonimo della band, pubblicato nel 1981 dalla Frontier. Qualcuno lo chiama beach punk e cioè il punk-rock suonato lungo la costa californiana, che oltre a incorporare elementi surf come già avevano provato a fare gli Agent Orange radicalizza il punk-rock di gruppi come Ramones, Sex Pistols o Avengers (giusto per rimanere più o meno in "zona"), aumentandone la velocità e la violenza. Molto più semplicemente si tratta di hardcore, anche se infiltrato da una potente vena melodica. A tenere in piedi le fondamenta di questi pezzi immortali è proprio il basso suonato a mitraglia da Steve Soto, che con la sua voce potente e pop (il suo primo amore sono stati i Beatles) è anche l'artefice - insieme a Rikk - dei cori epici che accompagnano i pezzi: un vero e proprio marchio di fabbrica della band (secondo me i Bad Religion di "Suffer" e "No Control" si sono ispirati parecchio agli Adolescents per coniare la loro personalissima formula di hardcore melodico). Ma come accade spesso il sodalizio dura lo spazio di qualche mese. La band fa in tempo a pubblicare ancora un ottimo ep, "Welcome to reality" e poi si scioglie. Ognuno per la sua strada (e quella di Rikk sarà lastricata di capolavori, ma ne ho già parlato qualche anni fa proprio da queste parti). Steve, a quel punto, si unisce ai Legal Weapon, un'interessante punk band della California del sud guidata dalla cantante Kat Arthur. Alla chitarra c'è il fido amico Frank Agnew e con questa formazione, nell'82, pubblica il disco "Death of innocence". Passa qualche anno è arriva la reunion degli Adolescents con la formazione originale che, nel 1986, porta alla pubblicazione di "Brats in battalions": i pezzi sono meno iconici e fulminanti rispetto all'esordio e il suono dell'album risente un po' dell'indurimento generale dell'hardcore, che in quel periodo sconta parecchie influenze heavy metal. "Brats", anche se non passerà alla storia, resta un album interessante, ma a spadroneggiare sono la chitarra di Rikk e la voce di Tony (Steve invece resta più sullo sfondo). Anche dopo questo secondo album però la band implode e Soto e Rikk Agnew decidono di prenderne le redini per tentare di tenerla ancora in piedi. Si dividono i pezzi da scrivere e da cantare e pubblicano il disco "Balboa fun*zone" (1988), ancora più metallico e violento rispetto al suo predecessore. Siamo alla fine degli Anni Ottanta, l'hardcore è praticamente defunto - anche se in California continua a tenere botta - Steve saltella da un gruppo all'altro e fonda i Joyride, dove canta e suona il basso e con i quali incide due album molto melodici, in bilico fra pop-punk, new wave e alcune incursioni country, genere che ama da sempre (come dimostrerà un suo progetto di qualche anno fa). Soto fa in tempo a suonare anche in un disco di cover con gli ex Adolescents ("Pinups", nome sia dell'album sia del progetto estemporaneo messo in piedi nel 1992) e poi finisce per riscoprire le sue radici messicane con i Manic Hispanic, una band che coverizza storici pezzi punk in chiave mariachi, modificando testi e titoli. Pur essendo nato per scherzo il gruppo va avanti per parecchi anni, fino alla seconda e definitiva (visto che dura tuttora) reunion degli Adolescents del 2005. Prima di rimettersi insieme ai vecchi amici di sempre Steve Soto fa in tempo a imbarcarsi, insieme a Melvin dei NOFX e altri senatori del punk californiano, nel progetto punk karaoke, culmine di un periodo in cui il nostro si è divertito a suonare i pezzi delle sua formazione musicale. I riformati Adolescents incidono subito un nuovo disco, la cui uscita è anticipata da una performance pazzesca alla House of  Blues (ho il dvd e devo dire che rivedere Rikk molto più ciccione di Steve mi ha fatto una certa impressione). L'album, intitolato, "O.C. confidential" suona melodico e abrasivo, ha pezzi veloci e di grande impatto e non tradisce le aspettative. Da quel momento il basso e i cori di Steve tornano in pianta stabile al servizio degli Adolescents (anche se non rinuncia a qualche interessante progetto parallelo, compresa la collaborazione con CJ Ramone). Soto in questo periodo pare abbastanza in forma, ha perso persino qualche chilo e per oltre 10 anni si butta in lunghi tour insieme alla sua storica band. Il gruppo passa più volte anche dall'Italia (erano previste alcune date alla fine del mese prossimo, ma a questo punto direi che verranno cancellate). La prima volta che gli Adolescents hanno suonato qui da noi era il 2008, visto che il tour che doveva farli esordire in Europa alla fine degli Anni Ottanta venne cancellato e furono rimpiazzati, all'ultimo minuto, da un gruppo che all'epoca quasi nessuno conosceva: i NOFX... Io ricordo per esempio un concerto memorabile nel 2009 alla Spezia con Leeches e Fall Out di spalla. E ho ancora ben chiara l'immagine di Steve che, come un gigante buono, suona il basso e fa i cori, sfoderando un sorriso pacifico e divertito. I nuovi Adolescents incidono altri 4 dischi, ma devo dire che, dopo il successore di "O.C. confidential", il discreto "The fastest kid alive", ho smesso di comprarli. Le canzoni sono prodotte meglio e il suono è più pieno e dirompente rispetto agli esordi, ma è indubbiamente meno ispirato. Ecco, volevo parlare di Steve Soto e ho finito per fare un pippone sugli Adolescents. Ma era inevitabile. Da qualche anno Steve, insieme all'inseparabile Tony, era l'unico membro originale del gruppo. E adesso, che se n'è andato nel sonno in una notte di inizio estate, chissà che ne sarà di questa band di cinquantenni capace di far battere il cuore anche a chi, come me, ha quasi tanti anni come il loro primo, bellissimo, disco.






giovedì 7 giugno 2018

Un po' di recensioni a babbo 6/ Le bellezze di Area Pirata e l'ignoranza dell'Alcalde

Ok dopo questo sesto post della serie "Un po' di recensioni a babbo" prometto che mi impegnerò a buttare giù anche qualcosa di più articolato. E magari tenterò di essere persino un po' più attivo. Ma visto che, nel frattempo, mi sono capitati sottomano un po' di dischetti niente male beccatevi ste recensioni a babbo, va'


The Mads - The orange plane
I Mads non sono solo una storica band mod revival italiana, sono probabilmente la prima band mod revival italiana. Si sono formati nel 1979, quando da noi il punk era ancora un oggetto misterioso - sarebbe realmente esploso nell'80, a parte i soliti pionieri - e dei Jam si sapeva poco e niente. Purtroppo, come accade spesso ai precursori, la band milanese durò lo spazio di qualche anno (fino al 1983), lasciando pochissime tracce di sé. Qualche tempo fa però ecco la svolta: alcuni storici pezzi dei Mads vengono finalmente pubblicati, la band si riforma, scrive alcune nuove canzoni e inizia a suonare in giro (mi è capitato di vederli pure a Genova e ne sono rimasto folgorato). Oggi, dopo sei anni di attività e una manciata di ottimi singoli, i nostri sono arrivati al traguardo del disco sulla lunga distanza. A pubblicarlo è - naturalmente - Area Pirata che li ha seguiti passo passo in questa seconda visita musicale. "The orange plane" è un album dai perfetti incastri pop, forte una spiccata vena anni Sessanta, ma con uno sguardo attento al mod revival dei primi Ottanta e al power-pop di quegli stessi anni. Anche perché questi due "generi", soprattutto all'inizio, si sono molto spesso contaminati e sovrapposti, regalandoci grandi band e ottimi dischi. E i Mads si infilano proprio in questa illustre tradizione. "The orange plane" è ricco di melodie limpide, chitarre pulite, armonie vocali irresistibili e coretti. Un disco perfetto per l'estate, curato nei mini particolari, grazie anche a degli ottimi arrangiamenti. Sarà difficile scollarlo dallo stereo o dall'autoradio. Gioielli di tale caratura sono sempre più rari.



Killer Klown - Crappy Circus
I Killer Klown sono sempre stati una band disturbante. E lo confermano anche oggi, a 24 anni di distanza dalla loro prima prova in saletta e a 7 anni dall'ultimo album "Born to rock!!!". "Crappy circus", infatti, pubblicato da Area Pirata, è una poltiglia maleodorante di musica fragorosa e dissonante, una raccolta di canzoni sporche e urticanti dal sapore garage-punk. Stooges e Cramps, come dice la scheda di presentazione del disco, sono sicuramente i numi tutelari dei Kliler Klown, ma dentro le pieghe di questo marcissimo lp dai suoni deraglianti si sente anche una pesante influenza di tutto quel microcosmo di band urgenti e deliziosamente scalcagnate che Lenny Kaye aveva raccolto nella compilation Nuggets quasi 50 anni fa (era il '72, gente). Question Mark and the Mysterians e The Seeds sono i primi nomi che mi vengono in mente, anche per quel retrogusto "oscuro" che sapevano imprimere al loro rockn'roll carvernicolo e che la band torinese riesce a restituirci con una buona dose di personalità. Un impasto delirante e dolcemente rumoroso, con l'organo suonato a cannone, come fosse una chitarra elettrica. L'unico pezzo che non mi convince appieno è l'incipit "Circus", una lunga intro claunesca che si trascina per troppo minuti. Il resto dell'album però è un frutto golosissimo di punk putrescente lanciato a mille.


The Celibate Rifles - Roman beach party
L'Australia è sempre stata una terra fertile per il rock'n'roll. E non parlo solo di gruppi blasonati come gli AC/DC (che a me, detto francamente, non fanno manco impazzire). Mi riferisco a una messe di band incredibili come Saints, Radio Birdman (comprese tutte le loro emanazioni, dai New Christs ai Visitors) e all'incredibile scena degli Sharpies. Insomma quando un gruppo rock arriva dalla terra dei canguri, solitamente, c'è parecchio da godere. E anche i Celibate Rifles non fanno eccezione. Magari sono meno blasonati dei loro già citati contemporanei Saints e Radio Birdman, ma comunque restano uno vero e proprio punto di riferimento per la scena figlia del punk che si è sviluppata negli anni Ottanta in Australia. "Roman beach party", loro quarto album fuori catalogo da tempo e ristampato dai ragazzi di Area Pirata con tanto di note e intervista esclusiva a Kent Steedam e Damien Loverick a cura dell'ottimo Roberto Calabrò - che conosce a fondo la materia e ha scritto un libro capitale come "Eighties Colours" - suona fresco e ruspante come se fosse stato inciso oggi. Lunghe schitarrate rock, quasi desertiche, si alternano a pezzi adrenalinici figli del punk 77. Perché il bello dei Celibate Rifles è che appena pensi di averli inquadrati estraggono fuori dal cilindro un pezzo come "Ocean shore": indolente, velenoso e tribale come "Dirt" degli Stooges. "Strange days, strange nights" è invece un brano punk costruito su un riff minimale che non ti si stacca dal cervello, mentre l'apertura del disco (questa ristampa è un lussuoso vinile 180 grammi con copertina apribile) è affidata all'assalto di "Jesus on tv", puro rock australiano deviato. E se "(It's such a) wonderfull life" ha un ritornello melodico piuttosto immediato e una strofa alla Sex Pistols, il finale strumentale affidato a "Frank Hyde (Slight return)" riesce a ipnotizzarti dal primo all'ultimo minuto. "Roman beach party" è uno di quei dischi perduti, che per troppo tempo sono rimasti un piccolo culto per una manciata di appassionati. Se i giovani punk degli anni dieci (sempre che esistano) vogliono trovare le radici di ciò che ascoltano si procurino questo disco stellare e lo sentano fino alla nausea, come se fossimo nel 1987. 

Alcalde de la noche - Direcciòn Destroy
Attenzione capolavoro. E non è perché Michele e Fabio (la voce e le basi che animano questo strampalato progetto musical-situazionista) siano due miei grandi amici. Lo dico perché mi pagano a peso d'oro. Giusto l'altro ieri ho ricevuto un bonifico sul mio conto alle Cayman di 1235432 milioni di euro e adesso sono pronto a tessere le lodi di questo disco. "Direcciòn Destroy" è la roba più assurda e divertente che vi possa capitare di ascoltare da qui ai prossimi mesi. E' il disco dell'estate per eccellenza, anche se dell'85 in Italia o del '92 in Spagna. Le canzoni, sei perle di italo disco che citano senza pensieri i Righeira e i Fratelli La Bionda, mescolano dance vorticosa a liriche in spagnolo. Ma la cosa più assurda, insensata e al tempo stesso pazzesca è che i testi di ciascun brano sono un omaggio alla Spagna degli anni ottanta-novanta e alle storie di sballo e di tamarri che tra Valencia, Benidorm e la Costa Blanca hanno animato una delle stagioni più spensierate del post franchismo. La generazione di discotecari che cavalcava le onde della dance 25-30 anni fa era quella nata alla fine delle dittatura ed era ricca di personaggi, luoghi e situazioni diventate dei veri e propri simboli nel corso degli anni. E così il nostro sindaco della notte Michele (l'alcalde, appunto), con fascia tricolore e occhialini 3d, ha deciso che, invece, di sparare le solite cazzate in spagnolo maccheronico su una base danzereccia, sarebbe stato più interessante scrivere dei pezzi con testi più articolati; lasciando a Fabio il compito di sfornare le suddette basi danzerecce con il suo proverbiale tocco pop. Il risultato è una roba tamarisssima, ma dannatamente divertente. Un disco da ballare fino a vergognarsi si se stessi. Tanto che sarebbe bellissimo se l'Alcalde spopolasse veramente nelle discoteche di tutta Italia e facesse muovere il culo e le braccia a migliaia di truzzi (veri) che, puntualmente, ogni estate, si mettono la camicia bianca aperta fino a metà, si impiastricciano di gel puzzolente i capelli pettinati a corona e indossano scarpe sportive da 500 euro sull'unghia minchia zio. Sarebbe una cazzo di vittoria per tutti se Michele e Fabio sbancassero il banco e facessero seriamente il botto. D'altra parte questo disco ha pezzi da sturbo come "De fiesta en Benidorm" (la base è stupenda) e "Yo soy un quinqui" (che tra l'altro si porta dietro una storia pazzesca sui piccoli delinquenti che trent'anni fa, per una stagione, misero a ferro e fuoco la Spagna). Lasciatevi travolgere dall'ignoranza più pura e pompate al massimo l'album dell'Alcalde! https://alcaldedelanoche.bandcamp.com/releases







venerdì 18 maggio 2018

Un po' di recensioni a babbo/5 La pigrizia è il mio mestiere


I soliti accidenti della vita (cioè la mia pigrizia) rendono sempre più radi gli aggiornamenti. E le poche volte che mi decido a scrivere finisce che sparo le solite cazzate. Il fatto è che ho un sacco di cose interessanti da leggere (più di quante che riesca a comprare) e quindi preferisco dedicarmi a quelle e al pastis. Tanto è uguale, no?


His Electro Blue Voice - Mental hoop
Avrò iniziato a scrivere questa recensione (non richiesta) di "Mental hoop" degli His Elcetro Blue Voice almeno un milione di volte. Ma come accade spesse con i dischi che mi ossessionano in modo particolare ho sempre finito per cancellare tutto e ricominciare da capo. Il fatto è che non è facile parlare di album del genere senza rischiare di incorrere nella più classica supercazzola giornalistica, che sa tanto di vecchia volpe della critica musicale (pur non essendola...). Ma detto francamente non saprei proprio come descrivere altrimenti questi 35 minuti e 29 secondi di nichilismo sonico. La band italiana, qui al suo secondo disco (il primo era su Sub Pop - esticazzi! - mentre adesso esce per la benemerita Meaple Death di Bologna) suona una sorta di hardcore industriale dai tratti spettrali, che lungo questi bellissimi 8 pezzi più intro si trasforma in una sinfonia disperata e violenta, suonata in mezzo a una spessa coltre di synth radioattivi. Un disco feroce e al tempo stesso melodico, che va ascoltato tutto d'un fiato (lo trovate su bandcamp e su youtube, ma procuratevi il vinile come sto tentando di fare anch'io in questi giorni). Gli His Electro Blue Voice mescolano le radici rock'n'roll degli Stooges e l'attitudine apocalittica dei gruppi dark californiani degli anni Ottanta (Christian Death su tutti), il post-punk pestone e travolgente dei primi Killing Joke e le ripetizioni ossessive dei Joy Division. Ci sono chitarre impazzite e rumori assortiti che tentano di soffocare, sotto un muro di suono nebuloso e scrosciante, una voce urlata e carica di angoscia. Un disco meravigliosamente contorto e disturbante, impossibile da non amare.


The Longshot - Love is for losers

Il mio rapporto con Billy Joe Armstrong (naturalmente a totale insaputa dell'interessato) è ridotto ormai ai minimi termini. Ho amato alla follia i Green Day e tutti i vari side-project dei componenti della band senza badare minimamente alle prese per il culo inevitabili che tale devozione finiva per scatenare fra i miei amici "punk". Ma adesso, francamente, mi sono rotto un po' i coglioni. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l'uscita, un paio di anni fa, di "Revolution radio": un album terribile, con canzoni terribili e suoni terribili. Ok, anche la trilogia non era un gran che (a cominciare dall'idea stessa di far uscire tre dischi uno dietro l'altro). Ma sì sa, è difficile restare lucidi quando si parla della band che ti ha letteralmente cresciuto e ti ha fatto conoscere gruppi che ancora oggi restano nella tua top ten di tutti i tempi (Adolscents, Descendents e Mr. T Experience, tanto per citarne tre). E così ho pensato che quel loro ultimo disco monotono, leccato e senza un briciolo di cuore potesse essere il classico passo falso di un gruppo in stallo creativo e con troppi anni di carriera alle spalle. Poi però sono arrivati i Longshot, il nuovo side-project di Billy Joe, e ho capito che per i Green Day non c'è più nulla da fare. Diventeranno i nuovi U2, io smetterò di andarli a vedere e finirò di comprare i loro dischi. Anche perché posso capire che, per il gruppo principale, il caro vecchio Armstrong (più vicino ai 50 che ai 40, ommiodddio!!!) abbia certi standard da garantire (anche se in realtà, ormai, i Green Day possano ciò che vogliono), ma se la stessa mancanza di verve riecheggia anche nei pezzi di una band messa su per puro divertimento con gli amici di una vita, allora il problema sei tu. Anzi è la tua voce, caro Billy. Infatti studiando attentamente ciò che più non mi convince dei recenti Green Day e che, a cascata, mi fa letteralmente odiare questi mediocrissimi Longshot mi sono accorto che il punto debole è proprio il modo di cantare di Billy Joe Armstrong. Quella voce nasale e sgraziata che è sempre stata un segno distintivo della band e che per me rappresenta il timbro ideale del cantante pop-punk, oggi suona talmente pulita, insipida e monotona che riesce a smorzare qualsiasi entusiasmo. I pezzi sarebbero anche discreti (no, in realtà sono da 5 meno meno), ma poi arriva Billy a cantare buona notte. E' un vero peccato essere arrivati a questi punti. Anche perché i Green Day restano ancora oggi una band che ascolto tantissimo. Ogni volta che metto su "39 Smooth", ma anche "Insomniac" e naturalmente "Dookie" mi vengono la pelle d'oca e le lacrime agli occhi. Di questi Longshot, invece, non so proprio che farmene.

Red Dons - Genocide 7''
Anche in questo caso, come per gli His Electro Blue Voice, il disco di cui mi accingo a parlare è uscito a novembre, ma io, come al solito, me ne sono accorto dopo sei mesi. A mia parziale discolpa devo dire che era un po' di tempo che i Red Dons, una delle migliori punk hardcore band in circolazione, non si facevano sentire. Dopo lo splendido "The dead hand of tradition" del 2015 (anno in cui li ho persino visti dal vivo in un bellissimo concerto a Milano) la band aveva fatto perdere le proprie tracce, complice anche il fatto che pur facendo base a Portland, i componenti del gruppo vivono sparsi per il mondo. Detto ciò e tornando a bomba a questo nuovo singolo intitolato "Genocide" che comprende, oltre alla title track, anche il pezzo "Letters", gli ingredienti che avevano reso così unica la band ci sono ancora tutti. Anzi, in queste due canzoni - ragazzi su, regalateci un nuovo album! - la formula Red Dons si mostra in tutto il suo splendore. Melodie malinconiche ma molto marcate, chitarre liquide e velocissime, punk 77 e primo hardcore californiano che si fondono alla perfezione in un mix di beach punk, surf e dark. Il tutto condito da ottimi testi. Se amate i primi Rotten Mind e i compianti Vicious non potete non ascoltare i Red Dons. Da non perdere anche l'ottimo secondo album, uscito una decina di anni fa e intitolato "Fake meets failure".

DeeCracks - Sonic delusions
Un bel disco è tale se riesce a catturare la tua attenzione anche quando lo ascolti distrattamente e magari sei impegnato a fare dell'altro. E direi che è proprio il caso di "Sonic delusions" dei DeeCracks. La band austriaca è ormai una veterana della scena punk-rock europea, suona spesso in Italia e fa parte di quel giro di gruppi che - per fortuna - ti capita di vedere quasi una volta all'anno nei locali e ai festival. Naturalmente, non si sta parlando di un album capolavoro, ma di un disco onesto (anzi, honesto!!!1!1!) capace di bilanciare sapientemente Ramones, Motorhead e Queers. Lungo questi 15 pezzi c'è davvero un po' di tutto e cioè la solita (ottima) roba a cui ci hanno abituati i DeeCrakcks: canzoni veloci e dalle melodie ruvide, con riff rockn'roll e ritornelli a rotta di collo (come direbbe Scaruffi). A metà disco c'è persino spazio per uno strumentale surf-desertico ("Mexican standoff"), che spezza per un paio di minuti il ritmo forsennato delle canzoni, ma con "It's been a while" si riprendo subito da dove ci eravamo interrotti. Che dire? Di dischi così, a mio modesto parere, ce n'è sempre un gran bisogno. Perché finiti i tempi belli, quando uscivano almeno venti album memorabili all'anno (tempi che, per inciso, non ho mai vissuto), poter contare su una band come di DeeCracks e su vinili come "Sonic delusions" è tutto grasso che cola.

New Berlin - Basic function
Adoro la musica minimale e scazzata. E' forse una delle cose che in assoluto preferisco ascoltare in questo periodo. Pezzi brevi e fulminanti, strumentazione ridotta all'osso, melodie indolenti e imperizia tecnica sono gli ingredienti ideali per il disco perfetto. E devono dire che i New Berlin, con il loro "Basic function" sono un esemplare davvero unico di questo non-genere. Li ho sentiti per la prima volta esattamente questa mattina e sono già uno dei miei gruppi preferiti. Stavo leggendo svogliatamente Facebbok quando sulla pagina di Lorenzo Belli è apparsa la segnalazione del loro concerto stasera o domani (non ricordo e non ho voglia di controllare) al Taun. Ho visto che fanno altre tre date in Italia, ma tutte abbastanza lontane da casa. Quindi amen: non li vedrò, non comprerò al banchetto il loro vinile e visto la mia idiosincrasia per le spese di spedizione non lo comprerò e basta. Però sentendoli su bandcamp, belli stonati e metalicci, non ho potuto fare a meno di innamorarmi di loro. Sono monotoni e martellanti, quasi robotici nel loro punk sfrigolante e lobotomizzato. Non fanno nulla per farsi notare e credo che stanotte scapperò di casa, prenderò la macchina e andrò a sentirli ovunque cazzo suonino.