venerdì 18 maggio 2018

Un po' di recensioni a babbo/5 La pigrizia è il mio mestiere


I soliti accidenti della vita (cioè la mia pigrizia) rendono sempre più radi gli aggiornamenti. E le poche volte che mi decido a scrivere finisce che sparo le solite cazzate. Il fatto è che ho un sacco di cose interessanti da leggere (più di quante che riesca a comprare) e quindi preferisco dedicarmi a quelle e al pastis. Tanto è uguale, no?


His Electro Blue Voice - Mental hoop
Avrò iniziato a scrivere questa recensione (non richiesta) di "Mental hoop" degli His Elcetro Blue Voice almeno un milione di volte. Ma come accade spesse con i dischi che mi ossessionano in modo particolare ho sempre finito per cancellare tutto e ricominciare da capo. Il fatto è che non è facile parlare di album del genere senza rischiare di incorrere nella più classica supercazzola giornalistica, che sa tanto di vecchia volpe della critica musicale (pur non essendola...). Ma detto francamente non saprei proprio come descrivere altrimenti questi 35 minuti e 29 secondi di nichilismo sonico. La band italiana, qui al suo secondo disco (il primo era su Sub Pop - esticazzi! - mentre adesso esce per la benemerita Meaple Death di Bologna) suona una sorta di hardcore industriale dai tratti spettrali, che lungo questi bellissimi 8 pezzi più intro si trasforma in una sinfonia disperata e violenta, suonata in mezzo a una spessa coltre di synth radioattivi. Un disco feroce e al tempo stesso melodico, che va ascoltato tutto d'un fiato (lo trovate su bandcamp e su youtube, ma procuratevi il vinile come sto tentando di fare anch'io in questi giorni). Gli His Electro Blue Voice mescolano le radici rock'n'roll degli Stooges e l'attitudine apocalittica dei gruppi dark californiani degli anni Ottanta (Christian Death su tutti), il post-punk pestone e travolgente dei primi Killing Joke e le ripetizioni ossessive dei Joy Division. Ci sono chitarre impazzite e rumori assortiti che tentano di soffocare, sotto un muro di suono nebuloso e scrosciante, una voce urlata e carica di angoscia. Un disco meravigliosamente contorto e disturbante, impossibile da non amare.


The Longshot - Love is for losers

Il mio rapporto con Billy Joe Armstrong (naturalmente a totale insaputa dell'interessato) è ridotto ormai ai minimi termini. Ho amato alla follia i Green Day e tutti i vari side-project dei componenti della band senza badare minimamente alle prese per il culo inevitabili che tale devozione finiva per scatenare fra i miei amici "punk". Ma adesso, francamente, mi sono rotto un po' i coglioni. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l'uscita, un paio di anni fa, di "Revolution radio": un album terribile, con canzoni terribili e suoni terribili. Ok, anche la trilogia non era un gran che (a cominciare dall'idea stessa di far uscire tre dischi uno dietro l'altro). Ma sì sa, è difficile restare lucidi quando si parla della band che ti ha letteralmente cresciuto e ti ha fatto conoscere gruppi che ancora oggi restano nella tua top ten di tutti i tempi (Adolscents, Descendents e Mr. T Experience, tanto per citarne tre). E così ho pensato che quel loro ultimo disco monotono, leccato e senza un briciolo di cuore potesse essere il classico passo falso di un gruppo in stallo creativo e con troppi anni di carriera alle spalle. Poi però sono arrivati i Longshot, il nuovo side-project di Billy Joe, e ho capito che per i Green Day non c'è più nulla da fare. Diventeranno i nuovi U2, io smetterò di andarli a vedere e finirò di comprare i loro dischi. Anche perché posso capire che, per il gruppo principale, il caro vecchio Armstrong (più vicino ai 50 che ai 40, ommiodddio!!!) abbia certi standard da garantire (anche se in realtà, ormai, i Green Day possano ciò che vogliono), ma se la stessa mancanza di verve riecheggia anche nei pezzi di una band messa su per puro divertimento con gli amici di una vita, allora il problema sei tu. Anzi è la tua voce, caro Billy. Infatti studiando attentamente ciò che più non mi convince dei recenti Green Day e che, a cascata, mi fa letteralmente odiare questi mediocrissimi Longshot mi sono accorto che il punto debole è proprio il modo di cantare di Billy Joe Armstrong. Quella voce nasale e sgraziata che è sempre stata un segno distintivo della band e che per me rappresenta il timbro ideale del cantante pop-punk, oggi suona talmente pulita, insipida e monotona che riesce a smorzare qualsiasi entusiasmo. I pezzi sarebbero anche discreti (no, in realtà sono da 5 meno meno), ma poi arriva Billy a cantare buona notte. E' un vero peccato essere arrivati a questi punti. Anche perché i Green Day restano ancora oggi una band che ascolto tantissimo. Ogni volta che metto su "39 Smooth", ma anche "Insomniac" e naturalmente "Dookie" mi vengono la pelle d'oca e le lacrime agli occhi. Di questi Longshot, invece, non so proprio che farmene.

Red Dons - Genocide 7''
Anche in questo caso, come per gli His Electro Blue Voice, il disco di cui mi accingo a parlare è uscito a novembre, ma io, come al solito, me ne sono accorto dopo sei mesi. A mia parziale discolpa devo dire che era un po' di tempo che i Red Dons, una delle migliori punk hardcore band in circolazione, non si facevano sentire. Dopo lo splendido "The dead hand of tradition" del 2015 (anno in cui li ho persino visti dal vivo in un bellissimo concerto a Milano) la band aveva fatto perdere le proprie tracce, complice anche il fatto che pur facendo base a Portland, i componenti del gruppo vivono sparsi per il mondo. Detto ciò e tornando a bomba a questo nuovo singolo intitolato "Genocide" che comprende, oltre alla title track, anche il pezzo "Letters", gli ingredienti che avevano reso così unica la band ci sono ancora tutti. Anzi, in queste due canzoni - ragazzi su, regalateci un nuovo album! - la formula Red Dons si mostra in tutto il suo splendore. Melodie malinconiche ma molto marcate, chitarre liquide e velocissime, punk 77 e primo hardcore californiano che si fondono alla perfezione in un mix di beach punk, surf e dark. Il tutto condito da ottimi testi. Se amate i primi Rotten Mind e i compianti Vicious non potete non ascoltare i Red Dons. Da non perdere anche l'ottimo secondo album, uscito una decina di anni fa e intitolato "Fake meets failure".

DeeCracks - Sonic delusions
Un bel disco è tale se riesce a catturare la tua attenzione anche quando lo ascolti distrattamente e magari sei impegnato a fare dell'altro. E direi che è proprio il caso di "Sonic delusions" dei DeeCracks. La band austriaca è ormai una veterana della scena punk-rock europea, suona spesso in Italia e fa parte di quel giro di gruppi che - per fortuna - ti capita di vedere quasi una volta all'anno nei locali e ai festival. Naturalmente, non si sta parlando di un album capolavoro, ma di un disco onesto (anzi, honesto!!!1!1!) capace di bilanciare sapientemente Ramones, Motorhead e Queers. Lungo questi 15 pezzi c'è davvero un po' di tutto e cioè la solita (ottima) roba a cui ci hanno abituati i DeeCrakcks: canzoni veloci e dalle melodie ruvide, con riff rockn'roll e ritornelli a rotta di collo (come direbbe Scaruffi). A metà disco c'è persino spazio per uno strumentale surf-desertico ("Mexican standoff"), che spezza per un paio di minuti il ritmo forsennato delle canzoni, ma con "It's been a while" si riprendo subito da dove ci eravamo interrotti. Che dire? Di dischi così, a mio modesto parere, ce n'è sempre un gran bisogno. Perché finiti i tempi belli, quando uscivano almeno venti album memorabili all'anno (tempi che, per inciso, non ho mai vissuto), poter contare su una band come di DeeCracks e su vinili come "Sonic delusions" è tutto grasso che cola.

New Berlin - Basic function
Adoro la musica minimale e scazzata. E' forse una delle cose che in assoluto preferisco ascoltare in questo periodo. Pezzi brevi e fulminanti, strumentazione ridotta all'osso, melodie indolenti e imperizia tecnica sono gli ingredienti ideali per il disco perfetto. E devono dire che i New Berlin, con il loro "Basic function" sono un esemplare davvero unico di questo non-genere. Li ho sentiti per la prima volta esattamente questa mattina e sono già uno dei miei gruppi preferiti. Stavo leggendo svogliatamente Facebbok quando sulla pagina di Lorenzo Belli è apparsa la segnalazione del loro concerto stasera o domani (non ricordo e non ho voglia di controllare) al Taun. Ho visto che fanno altre tre date in Italia, ma tutte abbastanza lontane da casa. Quindi amen: non li vedrò, non comprerò al banchetto il loro vinile e visto la mia idiosincrasia per le spese di spedizione non lo comprerò e basta. Però sentendoli su bandcamp, belli stonati e metalicci, non ho potuto fare a meno di innamorarmi di loro. Sono monotoni e martellanti, quasi robotici nel loro punk sfrigolante e lobotomizzato. Non fanno nulla per farsi notare e credo che stanotte scapperò di casa, prenderò la macchina e andrò a sentirli ovunque cazzo suonino.