mercoledì 8 aprile 2020

Nuovo cinema punk-hardcore

In questi giorni di quarantena, pur lavorando e pur avendo una bambina piccola (ok, presto smetterò di scriverlo in ogni post), ho trovato più tempo per fare cose che mi piacciono e piano piano sto cercando di recuperare alcuni dischi, libri, fumetti, film, riviste (e quindi cose importanti) che ho accumulato nei mesi scorsi e che non sono ancora riuscito a godermi appieno. Negli ultimi tre giorni, anche grazie all'aiuto fondamentale di due amici, ho visto tre di documentari che bramavo da diverso tempo: "Turn it around", sulla scena californiana della Bay Area legata al Gilman Street e alla Lookout, "Punk", la serie tv in 4 puntate prodotta da Iggy Pop (che tra l'altro è pure la voce narrante di "Turn it around", vedi i casi della vita) e "Hanno paura di me", il documentario sul Professor Bad Trip.


TURN IT AROUND - THE STORY OF EAST BAY PUNK. 
di Robert Adeuyi.
Partiamo proprio da "Turn it around", uscito un annetto fa e prodotto dai Green Day (con tanto di colonna sonora in vinile): un film bellissimo dalla durata "monstre" di due ore e mezza (anzi, due ore e 37 minuti). Appena ne ho sentito parlare ho cercato in tutti i modi una versione in dvd che contenesse i sottotitoli in italiano. E avrei speso anche 30 euro, se qualcuno lo avesse messo in commercio. Il massimo che sono riuscito a trovare però - grazie alle solite buone dritte - è stata la versione integrale su Youtube in alta risoluzione, senza alcun tipo di sottotitolo (neppure in inglese). Naturalmente in pochi giorni quel video è stato rimosso dalla piattaforma (lode a chi l'ha caricato nottetempo). Ma, fortunatamente, ho avuto l'accortezza di segnalarlo a Gippy (che aveva già sottotitolato lavori simili, ma mai così lunghi) che, in men che  non si dica, l'ha scaricato e si è messo sotto a tradurlo. Un lavoro mastodontico e completamente diy, terminato pochi giorni fa solo grazie alla quarantena.
Esatto, avete capito bene: uno dei migliori documentari sul punk americano è stato finalmente sottotitolato in italiano e oggi se lo possono godere anche i caproni come me (anche perché dovreste provare a decifrare ciò che dicono Mike Dirnt e Matt Freeman nelle interviste... ).
Ma torniamo al contenuto vero e proprio del "film". "Turn it around" prende il nome dalla prima e seminale compilation sulla scena punk (ma non solo) che, a fine anni Ottanta, gravitava intorno al 924 Gilman Street, il circolo giovanile di Berkeley fondato, nel 1986, da Tim Yohannon di Maximumrocknroll e da una schiera di giovani reietti della zona compresa tra San Francisco, Oakland, Berkeley e tutte le piccole e insignificanti cittadini lì intorno (Pinole, Rodeo ecc). Una comunità, che ha potuto contare anche sul supporto della Lookout Records di Larry Livermore, che qualche anno dopo avrebbe fatto il botto grazie ai Green Day e al loro successo planetario su major.
Senza scendere troppo nei dettagli "Turn it around" è indubbiamente uno dei documentari sul punk più appassionanti e coinvolgenti che abbia mai visto. Ma forse la penso così perché adoro quella scena e vado matto per gruppi come Crimpshrine, Mr. T Experience, Operation Ivy, Sweet Baby (ex Sweet Baby Jesus), Lookouts, Isocracy e Corrupted Morals. Insomma il punk e l'hc della Bay Area per eccellenza. Il documentario scandaglia fino in fondo questo periodo storico, che, come precisa qualcuno, sarebbe rimasto sommerso o relegato a una precisa area geografica se non ci fosse stata la Lookout Records. Prima di lanciare Queers e Screeching Weasel, l'etichetta di Livermore ha fatto ciò che tutte le case discografiche indipendenti dovrebbero fare: ha registrato le band della sua zona, dando un chance a un sacco di ragazzini arrabbiati e senza nulla da perdere. In questo modo ha dato dignità a una scena, che, per sua fortuna, era molto viva, creativa ed eterogenea, pur rimanendo all'interno del "recinto" punk. Ogni band, come succede tutte le volte che ci troviamo di fronte a un piccolo miracolo musicale, suonava diversa dalle altre, ma le radici e la matrice erano comuni (anche per il grunge è stato così. E che mi dite del primissimo punk newyorkese, almeno fino al 77?). Quella era la sua forza, corroborata, naturalmente, da uno spazio come il Gilman che, oltre a offrire un palco e un tetto a tutte quelle band, ha anche contribuito alla loro educazione "politica", promuovendo l'aggregazione, l'antirazzismo, l'antifascismo, la lotta al sessismo e a qualsiasi tipo di prevaricazione.
Inutile dire che lungo le 2 ore e 37 minuti di "Turn it around" potrete vedere e ascoltare praticamente tutti i protagonisti di quella storia. E il fatto che siano stati proprio i Green Day a produrre il documentario, secondo me, è un altro segnale importante di come fosse unita la scena del Gilman delle origini. Tim Yohannan (buonanima) non è mai stato tenero con Billie Joe e soci dopo che hanno firmato per la Reprise (anzi, su Maximumrocknroll vennero messi letteralmente alla gogna, anche se non direttamente da Tim) e per molto tempo la band fu addirittura bandita dal Gilman, nonostante fosse stata la sua casa per anni. In tempi recenti - purtroppo dopo la morte di Yohannan, direi, anche se da tempo Tim non guidava più il centro giovanile - i Green Day si sono riappacificati con il club di Berkeley (anche perché molte band di quelle parti devono parecchio a Billie, Mike e Trè) e con questo documentario direi che il cerchio si è finalmente chiuso.
Come detto la voce narrante appartiene - inspiegabilmente, ma va benissimo così - a Iggy Pop. L'inizio di "Turn it around" inquadra dal punto di vista storico, sociale e culturale la Bay Area oggetto di indagine. E al di là delle classiche interviste che scandiscono il tempo del documentario - una costante, ormai, per questo tipo di lavori - ci sono tantissimi filmati dell'epoca che tolgono letteralmente il fiato. In "Turn it around", naturalmente, potrete vedere e ascoltare Jello Biafra, i Green Day, Fat Mike, Tim Armstrong e altri "big" della scena, ma nel documentario non mancano neppure le voci e i volti di personaggi fondamentali, ma meno conosciuti, come Aaron Cometbus, Jesse Michaels e Kamala, solo per citarne alcuni.
In poche parole "Turn it around" è un vero gioiello, che non potete permettervi di non vedere. Adesso non avete più scuse.

PUNK (SERIE TV)
di Jesse James Miller. 
Non avrei mai immaginato che qualcuno si prendesse la briga di tradurre, quasi in tempo reale, "Punk", la serie in 4 puntate prodotta da Iggy Pop sulla nascita e lo sviluppo - principalmente in America e in Inghilterra - di questa controcultura. E invece l'ha fatto Sky Arte: un canale a pagamento mainstream, che con quest'operazione si è guadagnato tutta la mia riconoscenza. Quando cercavo forsennatamente un link per vedere la serie (non ho Sky, visto che già pago Netflix e Prime e i soldi sono quello che sono) in tanti cercavano di indorarmi la pillola avvertendomi che non mi stavo perdendo tutto sto gran che. "Sono le solite robe", mi dicevano.Ma io adoro le solite robe! Cioè la storia del punk, per chi ha letto qualche libro o rivista, è abbastanza chiara, almeno se parliamo del suo sviluppo generale: e cioè i primi vagiti che iniziano a farsi sentire negli Stati Uniti con M5C e Stooges - che rappresentano una sorta di progenitori del "movimento" (anche se io ci metterei pure le garage band di qualche anno prima, come i Count Five) - e poi i New York Dolls e la scena della Grande Mela legata al Cbgb's e al Max verso il 1975. Parallelamente qualcosa stava iniziando a germogliare anche in Inghilterra (e il ruolo di Malcom Mc Laren è stato fondamentale per questa connessione transoceanica) e via di questo passo. Certo, nessuna rivelazione particolare, però, diavolo!, è comunque una bella storia. E se a raccontarla sono direttamente i protagonisti, da Wayne Kramer a Sylvain Sylvain, da Johnny Rotten (parecchio inciccionito) a Fat Mike (i nomi sono tantissimi e di alto livello) la cosa si fa ancora più interessante.
Come già detto ormai la formula del documentario musicale che ti racconta una storia intrecciando interviste (anzi piccoli interventi tratti da interviste più grandi) e immagini di repertorio è un classico. Però la materia, in questo caso, è talmente incandescente che l'originalità della tecnica narrativa passa in secondo piano.
Questa prima serie - che credo sia unica, anche se spero di sbagliarmi - si articolare in 4 puntate. La prima è sul proto-punk, la seconda è sul punk del 77 soprattutto a New Yor, la terza sull'Inghilterra del 77 e sugli anni Ottanta (anche se qui mancano parecchie cose) e la quarta sul revival anni Novanta.
Certo, non si parla mai dei Misfits, degli Husker Du e di un sacco di altri gruppi fondamentali. Ma la storia ha comunque un suo filo logico e non credo che gli autori avessero velleità di completismo. Se si volesse andare più a fondo, però, servirebbe davvero una seconda serie, che colmasse qualche lacuna e magari ampliasse il raggio d'azione. Il punk ha indubbie radici negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma ha attecchito ovunque, riuscendo a cogliere lo spirito del luogo in cui è via via arrivato, manifestandosi, ogni volta, con alcune peculiarità della cultura locale che "aggrediva".
A tal proposito sarebbe un delitto non parlare di scene fertili e stupende come quella australiana o non citare alcune band europee e sudamericane pazzesche (l'hc italiano degli anni Ottanta ha fatto letteralmente scuola, anche in Usa). Del Canada, invece (altra fucina di gruppi incredibili) si fa solo un breve accenno, attraverso i Doa. Ma anche qui si potrebbe aprire un libro enorme.
Detto questo se riuscite a recuperare "Punk" (la prima puntata è gratis in lingua originale su Youtube) guardatela e ditemi se sono stato, come al solito, troppo buono o se anche voi vi siete divertiti.

HANNO A PAURA DI ME. SANNO CHE SONO PUNK E CHE VENGO DAL CANALETTO
di Andrea Castagna e Carmine Cicchetti.
Un'altra perla trovata in questi giorni di quarantena (gratis su Youtube) e dopo mesi di vane ricerche è il breve, ma bellissimo documentario sul Professor Bad Trip e cioè Gianluca Lerici, uno dei più grandi artisti italiani usciti dal marasma controculturale degli anni Ottanta: un disegnatore eccezzionale, legato saldamente alla scena punk italiana. Credo che tutti qui (e cioè tutti e 3, quanti siete) conoscano il Prof. Bad Trip e i suoi fumetti (o le sue tavole) psichedeliche e coloratissime, con quel tratto grasso e pieno, come un Van Gogh punk-hc stordito da un concerto di Dead Kennedys e Fear. Ma se così non fosse fate subito ammenda, guardate il documentario e appena riaprono le librerie compratevi tutti i suoi volumi (che purtroppo non sono molti).
Gianluca, classe 1963, è morto improvvisamente e inspiegabilmente 16 anni fa (è già passato così tanto: è incredibile). Era spezzino, anzi veniva, come ricorda orgogliosamente il titolo del documentario, dal quartiere popolare del Canaletto, zona di "muscolai" (i pescatori che raccolgono i "muscoli", come vengono chiamate in Liguria le cozze) e di parecchie teste di cazzo (a detta dello stesso artista). Autore di fanzine e musicista nella band di culto Holocaust, credo che il Prof. non abbia mai davvero raccolto quanto seminato nel corso della sua breve, ma intensissima esistenza. Mi sono innamorato dei suoi disegni da ragazzino, dopo aver letto "Costretti a sanguinare" di Philopat, che, nell'edizione Shake, conteneva un suo breve fumetto che illustrava il pezzo "I love livin' in the city" dei Fear.
"Hanno paura di me", che dura appena 26 minuti, parla del Professor Bad Trip, ma anche di Gianluca Lerici, dell'artista incredibile che abbiamo perso, ma anche della persone eccezionale che si celava dietro i suoi disegni. Naturalmente c'è anche qualche aneddoto interessante sulla scena punk spezzina, grazie agli interventi Benzo dei Fall Out, storico gruppo cittadino ancora in attività. D'altra parte il Prof. era molto legato alla sua terra e lo testimoniano le sue opere realizzate e regalate alla Skaletta, che ancora oggi impreziosiscono le mura di questo storico circolo punk rock della Liguria.
Insomma lungo questa mezzora scarsa scorre una storia minima, ma al tempo stesso enorme. Un omaggio fatto con il cuore (nel documentario parla spesso anche l'amico e artista Vittore Baroni) a un gigante dell'underground italiano. Uno che, tanto per usare un cliché abusato ma mai così azzeccato, se fosse stato americano o inglese avrebbe esposto i suoi lavori in tutto il mondo e oggi sarebbe ricordato al pari di Pettibon e di altri grandi artisti.