sabato 17 febbraio 2018

"Polvere di stelle" di Simon Reynolds - Questo libro poteva esse' fero e invece è stato piuma

Ho appena finito "Polvere di stelle" di Simon Reynolds - pubblicato a inizio autunno in Italia da Minimun Fax - e non è stata una lettura facile e del tutto appassionante. Mi c'è voluto più di un mese e mezzo - intervallato da un bel po' di fumetti incredibili come l'intera epopea di Kagemaru Den - per terminare questo tomo di 660 pagine sul glam. E, in tutta franchezza, devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di diverso. Per carità, forse ho sbagliato io buttarmi a capofitto su questo libro sperando di trovare pagine e pagine sul revival glam degli ultimi anni (Giuda, Cozy, Starcrawler, Slick, Dr. Boogie e Fatz Waltz) e confidando di poter finalmente leggere qualcosa su quei gruppi "minori" della scena inglese che, nella prima metà degli anni Settanta, hanno sfornato decine e decine di singoli bollenti e incredibili, per poi scomparire misteriosamente. Insomma ho fatto l'errore di sperare che Reynolds oltre a raccontarci la storia di campioni come David Bowie, T-Rex e Alice Cooper parlasse anche, in maniera diffusa, del junckshop glam (che è come il punk killed by death, cioè quello più oscuro e sfigato, che, proprio per la sua essenza effimera e perdente, ci ha regalato alcuni pezzi bellissimi e indimenticabili). Invece a questo particolare argomento il libro dedica appena due o tre pagine, con pochi consigli e soprattutto pochissime storie. Va ancora peggio per il revival glam (o forse sarebbe meglio dire: per il nuovo glam), che Reynolds associa a Lady Gaga e a tutti quei cantanti americani mainstream che fatico davvero a mettere nella stessa famiglia di T-Rex e co. Ora, i Giuda saranno anche di nicchia (e italiani), me ne rendo conto, ma mi pare un po' azzardato, quando si parla del glam contemporaneo, tirare fuori i nomi di Kesha e di altre cagate simili e non citare neppure per sbaglio tutte quelle band underground che hanno iniziato a suonare un rock'n'roll pestone e melodico, rifacendosi alle gesta degli Sweet, dei Bay City Rollers, dei Mott The Hoople e appunto del junckshop glam.
"Polvere di stelle", essendo un libro di Reynolds, ha naturalmente un'impostazione molto intellettuale e cerca di trattare la materia in modo organico e globale, fra citazioni colte di filosofia, letteratura e sociologia. E fin qui tutto bene, anche perché non è che se parli della musica della strada e del proletariato - com'era una parte di glam inglese se pensiamo, per esempio, agli Slade, che personalmente adoro - devi per forza abbandonare ogni pulsione intellettuale e rifiutare a priori un'analisi più approfondita, elaborata ed erudita. Anzi, farlo - come in parte avviene in questo libro - offre senza dubbio una serie di spunti interessanti e rende ancora più avvincente la lettura. Insomma, in questo Reynolds non delude certo i suoi "fan" (me compreso).
Ma è la scelta musicale dell'autore che mi sento di criticare (lo so che può sembrare grottesco che un cretino come me critichi il grande Simon Reynolds e quindi, forse, è meglio che concludiate qui la lettura di questo post; chi invece intende farsi del male o non vede l'ora di prendermi giustamente per il culo vada pure avanti). Secondo me "Polvere di stelle" assomiglia più una biografia di David Bowie, o forse sarebbe meglio dire a un trattato o addirittura a un atto d'amore nei suoi confronti, che a un libro sul glam. Reynolds non si limita a parlare della fase legata a Ziggy Stardust e Diamond Dogs, quella appunto "glam" del Duca Bianco (soprannome che tra l'altro riguarda un'altra sua evoluzione, ma vabbè, famo a capisse'), ma parte dalla giovinezza dell'artista - quando ancora non aveva scritto neppure una canzone - e arriva fino alla pubblicazione di "Blackstar" e alla suo morte. Il tutto, naturalmente, intervallato dalle storie di altre icone glam come Marc Bolan, Alice Cooper, i Mott, gli Slade e tutto il campionario. A mio modesto parere , però - ma forse sono io ad aver sbagliato libro - parlare così diffusamente di Bowie - compreso il suo soggiorno parecchio incasinato in California o il suo periodo berlinese - ha portato Reynolds decisamente fuori tema. Anche perché se avessi voluto leggere una biografia di David Bowie me ne sarei comprata una. Ma questo, cazzo, doveva essere un libro sul glam! Poi certo, come ho già detto, si parla dei New York Dolls, dei Roxy Music (in questo caso, per fortuna, anche assai diffusamente) e di tutti i gruppi "classici" del genere. Di band un po' più sfigate, ma decisamente importanti per la diffusione e la canonizzazione del glam come Bay City Rollers e Mud, invece, si fa giusto qualche timido cenno. E' come se Reynolds avesse voluto privilegiare i gruppi di cui, bene o male, la gente sa già parecchie cose, lasciando nella loro oscurità la band meno conosciute. Eppure è anche lì che si trova l'essenza di questo genere musicale. Come se in un libro sul punk si parlasse soltanto di Clash, Sex Pistols e Ramones; certo, bisogna raccontare diffusamente le loro storie perché sono i gruppi che hanno maggiormente incarnato il punk soprattutto agli occhi del grande pubblico, ma poi occorre dare il giusto spazio anche Descendents, Adolescents, Boys, Chelsea, Adverts e a tantissime altre formazioni di cui difficilmente ci si imbatte a un primo approccio, ma che in realtà hanno costituito le basi del punk.
La parte finale del libro, quella sul "nuovo glam", è stata senza dubbio la più faticosa. E associo la scelta di Reynolds di tirare in ballo Lady Gaga e Kanye West a quell'impulso che hanno molti critici musicali "puri" di guardare con curiosità e interesse a qualsiasi evoluzione del music business. Reynolds, che è partito dal punk e dal post-punk, non si è fermato alla musica che ascoltava nella sua adolescenza come ho fatto io e come fanno molti semplici appassionati, ma un po' per lavoro e un po' per interesse culturale è andato oltre. Diciamo che, pur essendo più vecchio di me non ha i miei stessi paraocchi e non si fa ingabbiare da alcuna barriera di genere. E forse è anche per questo che è uno dei critici musicali più stimati in circolazione. Io però, pur leggendolo con profondo interesse, preferisco un approccio più sanguigno e scorretto alla Lester Bangs, che - forse complice la sua prematura scomparsa - è rimasto fedele alle proprie radici - soprattutto a quelle del rock - e non ha risparmiato critiche a certe "evoluzioni" musicali. Reynolds è sempre aggiornatissimo; non perché debba esserlo per forza,. ma perché quella è la sua natura. Ascolta con piacere tutte le trasformazioni dell'hip hop  e della nuova scena elettronica, è avanti anni luce e per uno come me, che da vent'anni, a parte qualche piccola apertura, sente praticamente la stessa musica, rappresenta senza dubbio una lettura stimolante ed esotica. Difficilmente però riuscirà a emozionarmi e a rimestarmi le budella come Lester Bangs (ma questo è un altro discorso)
In conclusione: a me Simon Reynolds piace ("Post-punk" e "Retromania", per ragioni diverse, sono due libri che ho amato moltissimo e che ritengo dei capolavori), ma "Polvere di stelle" mi sembra meno a fuoco rispetto ad altri sui lavori. Pensavo di trovarci qualcosa di meno "canonico" (ma questo è soprattutto un problema mio) e non ho condiviso alcune scelte. Detto questo è un libro ben scritto e con centinaia di spunti e suggestioni interessanti. Leggendolo ho scoperto delle band che non conoscevo come i Mud, di cui sono corso immediatamente a comprare i dischi. Speravo solo in un approccio più underground.


mercoledì 14 febbraio 2018

Sporchi, melodici e imbecilli - Ode alla Dirtnap records

E' vero che sono facile agli innamoramenti musicali improvvisi. Ma di solito durano poco e, nonostante lascino sempre qualcosa di interessante, poi, come sempre, torno al mio caldo e rassicurante ovile fatto di solide certezze come Husker Du, Clash, Ramones, Green Day e NOFX. Che ci volte fare: sono abitudinario (e no, ragaz, non sto citando Elio e le storie tese, mi fanno schifo, lo sapete, dai). Comunque: complice il mitico Franz Barcella - a cui ormai ho deciso di affidare i miei corsi d'aggiornamento musicale in campo punk-rock e power-pop - mi sono imbattuto in una band che, da ragazzino, avevo completamente ignorato e che adesso mi fa girare la testa come un adolescente. Sto parlando dei Marked Men, un gruppo texano di fine anni Novanta-primi anni Duemila che ha pubblicato su Dirtnap quattro dischi di punk melodico ed evocativo, a base di coretti, pezzi brevi e fulminanti e spirito lo-fi. A me sembrano una sorta di ibrido fra il beach punk di Orange County e i gruppi Lookout di 25 anni fa: come se i Queers coverizzassero gli Adolescents e i Middle Class. Una rivelazione, cazzo. Che oltre a farmi vedere finalmente la luce, mi ha anche fatto rimpiangere tutto quel tempo perso tra la fine del liceo e l'inizio dell'università - il periodo in cui più o meno i Marked Men cominciavo a pubblicare le prime cose - passato ad ascoltare gruppi di merda come i Good Charlotte (ok, ero piccolo e mi ero solo masterizzato il primo disco: quindi non esagerate). Ma non sono qui per parlarvi solo dei Marked Men, altrimenti, essendo un neofita dovrei chiuderla qui o al massimo potrei consigliarvi di recuperare ogni loro disco e in particolare "Fix my brain" (ma che ve lo dico a fa'?, tanto siete tutti più sgamati e avanti di me).
In realtà sono partito da questa fantasmagorica band texana per fare un discorso più ampio e parlare della Dirtnap records. Anche perché una volta recuperato il tempo perduto e constatato, come mi accade spesso, che anche questa band super figa ha inciso i propri dischi per la label di Madison (Wisconsin), mi è venuto quasi naturale fare mente locale sui dischi targati Dirtnap che ho a casa. Purtroppo ho scoperto, con mio sommo rincrescimento, che non ne ho tantissimi (Epoxies, Briefs, Steve Adamyk Band, Mean Jeans, Mind Control e Bad Sports). E così ho fatto la classica cazzata che non bisognerebbe mai fare in questi casi: sono andato sul sito della casa discografica e ho cliccato alla voce "releases". Quello è stato l'inizio della fine, una fine che non è ancora arrivata - perché il fondo in questi casi non lo tocchi mai davvero - che ha avuto il suo apice quando ho provato ad ascoltare, un po' per caso e quasi in ordine di pubblicazione, i dischi che non conoscevo del periodo aureo della Dirtnap.
Il primo in cui mi sono imbattuto (trovandolo su Spotify perché su Yuoutbe c'era poco e niente) è "Need a wave" di Jeffie Genetic And His Clones: una bomba assoluta. Tanto che poi me lo sono comprato (su Discogs, visto che è fuori catalogo da un pezzo). Al di là del nome ignorantissimo - che rivela come il nostro Jeffie sia l'unico componente della band - ci troviamo di fronte a un piccolo capolavoro dimenticato del punk degli anni Duemila. Il periodo è lo stesso degli Epoxies - una mia vecchia passione - e infatti i suoni sono abbastanza simili a quelli della band di Portland. Jeffie però, oltre alle massicce dosi di synth poppettosi alla Devo, infila dentro il suo fantastico minestrone anche un bel po' di power-pop e punk 77 tipo Beat, Dead Boys e Boys. Quel pizzico di rock'n'roll marcio ma dal cuore melodico, che alterna chitarre taglienti a suoni sintetici, voci dementi e cori a manetta. Un album senza neppure un cedimento, compatto e perfetto nella sua semplicità. Una di quelle botte di culo, che ogni tanto la vita ti riserva.
E quindi, visto che mi era andata così bene al primo tentativo, ho deciso di continuare e, purtroppo, ho scovato altre band incredibili. Dico purtroppo perché sono tutti dischi che vorrei comprare senza starmela troppo a menare. Ma visto che sono poveraccio, mi dovrò accontentare di recuperarne soltanto qualcuno e di ascoltare gli altri su Spotify (che per me equivale alla differenza tra scopare e farsi una sega). Il secondo superdisco del lotto è il primo dei Girls, uscito proprio un attimo dopo quello di Jeffie. Si tratta di una band tutta al maschile nata a Seattle - anche perché le cose più fighe targate Dirtnap vengono da lì o da Portland - che pur mescolando sempre le solite carte (punk, power-pop e questa volta pure un pizzico di glam alla T-Rex) sforna un album potente, rumoroso e melodico. E se vi sembra che la parola "melodia" ricorra un po' troppo spesso lungo il post, sappiate che è proprio questo, secondo me, il filo conduttore delle produzioni Dirtnap: tutti i dischi, anche quelli più sporchi e ruvidi, hanno un fondo melodico impareggiabile, che te li fa amare immediatamente. E' inutile dire che anche quest'album, grazie a un'offertona me lo sono portato a casa, tiè. Dopo i Girls è stata la volta dei Minds e del loro disco "Plastic Girls". Anche questa band, di cui non so praticamente nulla e che credo, si sia fermata solo a questa prima uscita, flirta pericolosamente con i sintetizzatori e i suoni sintetici, ma spinge molto di più sul punk e il garage rispetto al power-pop. Un suono più grezzo e sporco, quindi, ma sempre melodico e dal retrogusto agrodolce. Un marchio di fabbrica, che difficilmente non troverete sui dischi di questa fantastica label. E badate bene che fino a qui non ho detto niente su gente già abbastanza famosa come Briefs (nell'elenco del sito Internet non ci sono, ma a quanto so il primo disco è uscito inizialmente su Dirtnap), gli Epoxies, che mi avevano letteralmente folgorato con "Need more time" ai tempi del primo volume di "Rock against Bush" e che per me restano una delle band cardine dei Duemila e i primissimi Mean Jeans, che purtroppo hanno perso la bussola già dal secondo disco targato sempre Dirtnap, prima di rinsavire - seppure leggermente e mai ai livelli dell'esordio e dei singoli - col terzo album su Fat. La label di Mike, tra l'altro, ha sempre tenuto d'occhio la Dirtnap - così come la Red Scare - e infatti gli Epoxies li ho scoperti proprio grazie alla Fat, che oltre a infilarli a tradimento in quella storica compilation aveva anche ristampato il loro primo disco su Dirtnap (anche il secondo album è molto bello). Per non farla tanto lunga e chiuderla qui, altri consigli al volo che mi sento di dare a tutti i neofiti della Dirtnap (anche se mai come in questo caso vale la pena dire: comprate tutto a occhi chiusi) sono i già citati Bad Sports (soprattutto il primo disco omonimo), gli Ergs!, gli Exploding Hearts e i Guntanamo Baywatch (tutti e tre hanno pubblicato dischi un po' ovunque ma la roba su Dirtnap merita di sicuro), i Mind Spiders, i Radioactivity, gli White Wires, le Riff Randells e i Beat Beat Beat, abrasivi e punk ma - eccevelodicoafa' - melodici.




venerdì 2 febbraio 2018

Akira - La colonna sonora della mia infanzia post-atomica

Avevo 9 anni e facevo la quarta elementare quando ho comprato il mio primo "Akira" dal giornalaio sotto casa. Era il numero 21 - edizione Glénat Italia - e si intitolava "La rabbia e il tormento": una manciata di parole che già così - senza neppure sfogliare le pagine dell'albo - mi avevano piacevolmente inquietato. E anche se "Akira" di Katsuhiro Otomo non è mai stato un "fumetto" particolarmente violento e angosciante, devo ammettere che, quel numero in particolare, era una roba assolutamente clamorosa per un pivello delle elementari. C'era Testuo che smadonnava perché era in crisi d'astinenza, c'erano montagne di pillole colorate che comparivano da una pagine all'altra come caramelle e verso le fine del numero una banda di pazzi entrava nel convento di Lady Miyako e faceva a brandelli i poveri monaci che lo presidiavano. Come direbbe il poeta: ettolitri di sangue. Tanto che i miei genitori avevano pensato di requisirmi quel piccolo tesoro e fargli fare la fine del primo numero della rivista "Zero" che avevo comprato a 6 anni sull'entusiasmo di Ken il guerriero: e cioè buttarlo nella spazzatura, dopo la spiata del solerte papà di un compagno di scuola. Vabbè, robe da chiodi.
Ma torniamo ad "Akira": da quel momento, direi approssimativamente dall'inverno del 92, la mia vita è totalmente cambiata. L'incontro con i manga e soprattutto con quel manga che ancora oggi venero e adoro mi ha sconquassato, e lo ha fatto quanto e come il punk 5 anni dopo. Insomma: la scoperta di "Akira" resta uno dei momenti più importanti e formativi della mia miserabile esistenza. Tanto che, pur avendo una memoria formidabile in quanto a brevità, ricordo quasi tutto di quei giorni. Per esempio non dimenticherò mai quando, pochi mesi dopo quella prima lettura maledetta, sul numero 23, è comparso l'annuncio che, finalmente, anche nelle sale cinematografiche italiane, sarebbe arrivato il "cartone animato" del capolavoro di Otomo. Dopo mille insistenze ero riuscito a convincere mio padre a portarmelo a vedere in un sonnacchioso pomeriggio di primavera e ricordo, come se fosse ieri, che mi tremavano le gambe dall'emozione. La sala era semivuota, a parte qualche nerd e una nonna coi nipotini che probabilmente non aveva la più pallide idea di cosa avrebbe visto da lì a poco. Inutile dire che per me si è trattato di un altro pomeriggio cruciale e fondamentale, che ha contribuito a cambiare ancora un po' la mia sfigatissima vita. Nel corso degli anni il mio personalissimo culto nei confronti di "Akira" è sempre rimasto vivo e fortissimo, tanto che oltre alla prima edizione a colori del fumetto in 38 numeri (i primi 20 li ho recuperati tutti insieme come unico regalo di Natale), possiedo anche i sei volumi in bianco e nero della Planet Manga (sullo stile della versione originale giapponese) che oggi campeggiano nella libreria del mio salotto (fino a un paio d'anni fa avevo anche i 12 numeri in bianco e nero usciti quando ero alle superiori ma li ho regalati a un amico, perché altrimenti rischiavo il divorzio). Anche il film è stato preda della mia ossessione collezionistica. Ho comprato la videocassetta appena è uscita a metà Anni Novanta (al momento però non so dirvi dove diavolo l'abbia infilata), mentre una quindicina di anni fa mi sono procurato il doppio dvd, con gli inserti speciali. Ciò che non ho mai avuto, almeno fino a ieri, è la colonna sonora del cartone animato, che mi aveva colpito tantissimo sin da quella prima visione al cinema. A 9 anni, però, non capivo nulla di musica (e qualcuno potrebbe sostenere che da allora è cambiato molto poco). Ma quei suoni ossessivi e claustrofobici, quelle melodie malate e ansimanti che accompagnavano gli scontri in moto fra la banda di Kaneda e i Clown di Joker oppure quelle cavalcate soniche durante la trasformazione di Testuo hanno risuonato per anni nelle mie orecchie.
Qualche giorno fa leggendo sul sito Fummettologica del un ritorno "Akira" al cinema (solo il 18 aprile, con un nuovo doppiaggio) mi sono chiesto se fosse possibile trovare quella colonna sonora che avevo sempre desiderato ascoltare, ma che poi, stupidamente, non avevo mai realmente comprato. Spulciando un po' in rete ho scoperto che la musica del film di "Akira" - pubblicata su cd o doppio vinile - è una sorta di composizione unica divisa in tracce diverse, con motivi ricorrenti. Ad averla scritta, suonata e incisa è il collettivo Geinoh Yamashirogumi, che conta quasi un centinaio di musicisti ed è stato fondato 1974 da un personaggio incredibile e fondamentale per la musica d'avanguardia giapponese: Shoji Yamashiro, pseudonimo di Tsutomu Ōhashi, che oltre a essere un compositore e un direttore d'orchestra è anche un noto scienziato, che fonde musica e ricerca, mescolando i suoni algidi dell'elettronica, con il folk e la musica antica e tradizionale. Un vero e proprio alchimista, che Otomo ha voluto con tutte le sue forza per musicare il film più importante della sua carriera. Di questa colonna sonora esistono tre diverse versioni, ma io ho preso banalmente quella più standard ed economica. Ascoltarla in cuffia è un'esperienza incredibile, perché si riesce a percepire la varietà di suoni che il collettivo Geinoh Yamashirogumi è riuscito a infilare in queste composizioni così stratificate e ipnotiche. E' una musica molto fisica e ossessiva quella che esce fuori dalle dieci tracce del disco: ci sono suoni liquidi e quasi impercettibili, come piccoli carillon che tintinnano nel buio e poi lunghe suite a base di percussioni violentissime, che squarciano il silenzio. Il disco si apre con "Kaneda", un brano che per me vale l'intero album, grazie a quella melodia viscida che ti si insinua subito nel cervello, per poi procedere con una progressione sempre più angosciante e pronta a esplodere. Chiudo gli occhi e mi sembra di vedere le immagini del film: le moto che sfrigolano sulla tangenziale di Neo Tokyo, con le luci dei fari che restano appiccicate alla strada e le insegne al neon dei negozi. Un altro brano pazzesco è "Battle against clown", con quel respiro ansiogeno e affannoso che sembra uscire direttamente da sotto l'asfalto e che compone il tema principale della seconda traccia. La chiusura del disco è affidata alla lunga suite "Requiem" che rappresenta un po' la summa dell'intera composizione, con suoni e temi che ritornano e si intrecciano fra loro, come una lunga preghiera psichedelica a un Dio alieno che ci annienterà tutti.