venerdì 19 ottobre 2012

The shape of pop-punk to come

Forse è solo una massa confusa di cazzate. Ma tutto questo "nuovo" interesse intorno al pop-punk e al punk-rock ramonesiano mi ha fatto riflettere. L'epoca d'oro di questa specie di sottogenere è - anno più anno meno - il periodo di tempo che va dal 1990 al 1997 circa: e cioè il momento di massima espansione della Lookout Records, l'etichetta regina della musica veloce, melodica e basata sui soliti tre accordi, che ha chiuso i battenti circa un anno fa, dopo aver tirato a campare (male) per ben due lustri. Tirare fuori i soliti nomi di Screeching Weasel, Queers, Mr T Experience, Pansy Division ecc è quasi pleonastico, però tanto per mettere i puntini sulle i è proprio grazie a queste band (e non solo loro) che il verbo del pop-punk è arrivato anche in Italia. Anzi il nostro Paese, sedici-diciassette anni fa, è stato letteralmente conquistato da questo tipo di gruppi, tanto che persino qui da noi hanno iniziato a formarsi le prime band di ispirazione Lookout Records. Parte del merito, naturalmente, è stato del revival punk del 1994 scaturito dall'uscita di "Dookie" dei Green Day, ma era già qualche anno che un manipolo di coraggiosi, fra fanze, band ed etichette, aveva messo a germogliare i primi semi di questa scena. SenzaBenza, Fichissimi, Kill Joint e Manges sono stati il risultato dell'ondata pop-punk italiana anni Novanta: un fiume in piena di energia e melodia durato meno di dieci anni, ma che ha lasciato decisamente il segno. Poi basta. Come accade spesso i corsi e ricorsi storici della musica alternativa hanno azzerato anche la scena pop-punk italiana e prodotto un ricambio generazionale che ha messo le basi per un nuovo ed ennesimo revival: l'emo. A chi pensa ancora che l'hardcore emozionale sia nato nel 1998 grazie ai Get Up Kids o ai Jimmy Eat the World è fin troppo facile consigliare di consultare il catalogo Dischord degli anni Ottanta, magari andando a riscoprire le band della cosiddetta Revolution Summer. Non si inventano mai nuovi generi, quindi andate in pace. (Fra l'altro da qualche anno stiamo persino assistendo a un interessante - dico sul serio - revival del revival emo con qualche piccola novità autarchica)
Comunque: fatta questa lunghissima e arzigogolata premessa torno subito al punto di partenza: il pop-punk, che ora sembra tornato abbastanza di moda, è stato buono buono fino a metà anni Duemila. Tanto che i pochi rimasti fedeli alla linea hanno faticato parecchio a trovare nuove band fra la fine degli anni Novanta e il 2005. Uno dei momenti cruciali di questo ritorno in grande spolvero è, secondo me, "Total" dei Teenage Bottlerocket, uno dei dischi "Lookout style" (anche se uscito per la Red Scare) più belli di sempre, quasi a livello dei migliori lavori dei Queers e degli Screeching Weasel. Quell'album e tanti altri fattori hanno ridato linfa a un fiume carsico che aveva mantenuto, come unico e ultimo baluardo, gli annuali tour dei Queers in tutto il mondo e specialmente in Italia. Un appuntamento per nostalgici e "vecchietti" con le All Star, che ha saputo travalicare le mode e mantenere vivo un sottobosco di appassionati. In Italia a tenere duro sono stati, per un certo periodo, quasi solo i Manges, mentre in Europa si poteva contare sugli Apers, qualche altra band della Stardumb e nulla più. Dal 2005 in poi però tutto è cambiato e sono letteralmente esplose case discografiche come la già citato Red Scare, l'It's Alive, la Monster Zero e in Italia la Making Believe. Adesso, anzi da qualche annetto ormai, è tutto un fiorire di nuovi gruppi, anche nel nostro Paese. Vecchie band che si riformano - non credo proprio per far soldi visto che guadagnare qualche euro col punk-rock è quasi impossibile - e aprono blog e webzine dedicate al genere. Insomma l'epoca flower-punk (tanto per citare l'omonima compilation che fece ordine nella scena quasi 20 anni fa) è tornata. Anzi: era tornata e forse oggi sta iniziando nuovamente la sua parabola discendente. A farmi partorire tutta questo grumo di stronzate è stato il concerto di martedì sera degli Hard-Ons, altri eroi anni Novanta per gli amanti dei Ramones (anche se la band australiana, il suo meglio, lo aveva dato a fine Ottanta). Prima di loro hanno suonato gli italiani Riccobellis, un onesto terzetto dedicato al culto dei quattro fratellini newyorkesi. Loro, come i Locals, i Sensibles, i Tough (guarda caso con gente della vecchia scena), i riformati Monelli, i Goonies, Teenage Bubblegum, i Teenage Gluesniffers e molti altri sono le band della "nuova" ondata a cui si aggiungono i numi tutelari Manges. Ora mandatemi affanculo senza problemi.

lunedì 15 ottobre 2012

La regola del gioco

Giovedì scorso - voi avete tempo fino al 21 ottobre, quindi andate, sbrigatevi, correte - sono andato a vedere "La regola del gioco" di Elisa D'Andrea, regia di Emanuele Conte al Teatro della Tosse. Aprire una stagione con il testo di un'esordiente - anche se Elisa non è certo l'ultima arrivata - è stata una vera e propria scommessa. Ma quando uno spettacolo è bello, ben scritto, ben recitato e ben messo sul palcoscenico ci sono pochi cazzi: funziona. Ed è così che è andata per "La regola del gioco". Una rappresentazione carveriana mi verrebbe da dire, veloce come un colpo di pistola, che fotografa la vita di tre coppie (o forse quattro) in un attimo fuggente della loro esistenza. Due anziani, due ragazze lesbiche e un marito, una moglie e un'amante (anche se all'inizio aleggia persino lo spettro dell'amante di lei). Insomma il gioco dell'amore con soggetti e regole diverse, tanto per riprendere il titolo dello spettacolo, con dialoghi diretti e asciutti quanto una scenografia azzeccata: sette sedie bianche e le assi del palcoscenico nude e crude.
Il piccolo mondo contemporaneo dei protagonisti è fatto di litigi, speranze, abbracci e rifiuti, pensieri detti ad alta voce, routine dilanianti e promesse. Mentre due di loro parlano gli altri continuano silenziosamente a portare avanti la loro vita e, su un grande schermo alle spalle degli attori, scorrono capovolte le immagini di ciò che lo spettatore vede realmente. Una sorta di raddoppio di quello che avviene in scena, mentre le luci inquadrano via via i protagonisti, lasciando gli altri nell'ombra. Elisa non intende dare alcuna lezione. Ritaglia un pezzo di vita da ciascun personaggio e ce lo racconta. La forza dello spettacolo, come appunto i libri di Carver e di altri "veristi" contemporanei, non sta nella storia in sé, ma nelle parole e nella bellezza della semplicità umana. Certo poi ci sono trovate che tengono desta l'attenzione dello spettatore come la "teatralizzazione" degli sms (scopritelo da soli), ma il succo è che quando si accendono le luci, gli attori fanno gli inchini di rito e cala il sipario: ne vorresti ancora. Anche la fine è spiazzante, perché potrebbe essere l'inizio, oppure il centro di un'altra storia.
Il fulcro de "La regola del gioco" è la famiglia sgretolata e frammentata di oggi. Le diverse derive dello stare in coppia, sia fisicamente sia mentalmente. Ma c'è anche una dilaniazione continua dell'essere umano di fronte alla vita. Un pezzetto di noi in ognuno dei personaggi, che nel silenzio del teatro sembrano parlarci personalmente. Anche gli attori (Silvia Bottini, Linda Caridi, Bruno Cereseto, Sara Cianfriglia, Andrea Di Casa, Sara Nomellini e Lucia Schierano) sono bravissimi. Perché per mettere in scena uno testo così, paradossalmente, bisogna essere il meno teatrali possibile e rimanere umani al cento per cento.
E poi dove lo trovate uno spettacolo che inizia con la musica dei dEus? Fatevi un favore: andate alla Tosse e godetevi questo racconto. Se sottoscrivete la tessera sostenitori "Cantiere Campana" e avete meno di 28 anni l'ingresso costa persino poco. Altrimenti bevetevi due aperitivi di meno e andate a vedere "La regola del gioco". Non stasera, certo, che è lunedì e il teatro è chiuso, ma da domani e per tutta la settimana. L'appuntamento è alle 20,30. Dopo il teatro avrete anche il tempo per andare a casa a fare l'amore.


mercoledì 10 ottobre 2012

No fun house for the Doggs

A volte le cose capitano per caso. Del tipo che scrivo un post psichedelico su i Trans Upper Egypt e finisco per conoscere il cantante dei Doggs e trovarmi fra le mani il loro ultimo disco, "Red sessions". Otto pezzi di garage oscuro e malato, che hanno superato alla grande sia il test doccia, sia il test "notte". Mi spiego meglio. Visto che ho poco tempo per stare a casa e non possiedo iphone e cazzi simili, posso ascoltare musica solo in alcuni momenti cruciali della giornata: e cioè quando mi faccio la doccia e la barba al mattino, piazzando lo stereo portatile davanti alla porta del bagno, e quando vado a letto la notte, spostando il lettore cd all'ingresso della camera. Robe turche lo so, però non ho molte alternative. Quando stai fuori casa 12 ore, devi ingegnarti per ascoltare i dischi. Soprattutto se ne compri tanti.
Tornando alle qualità di "Red session", la prima cosa che mi è venuta in mente appena è partita "Midnight eyes" sono stati gli Stooges e chiunque conosca un minimo i Doggs penserà: bravo bella scoperta, questo lo sapeva anche mia nonna. Ok, è un'ovvietà. Però è bene dirla. Anche perché più che gli Stooges di primo o di ultimo periodo, questi pezzi mi ricordano quelli crepuscolari e tossici di "Fun house". Un groviglio di chitarre slabbrate e quella voce lontana e intensa, che sa tanto di garage fine anni Sessanta: un suono per nulla spensierato e rassicurante. Una sorta di rock'n'roll della crisi, tanto per capirci. Iggy e compagni però non sono l'unica influenza che si può trovare in queste otto tracce: fra un pezzo e l'altro, infatti, c'è anche un bel po' di lascivia alla Velvet Underground, miscelata all'odore di benzina e di chiuso dei bassifondi milanesi. Quella nebbia mista a smog della capitale amorale d'Italia, figlia del berlusconismo e nipote di Formigoni. Insomma un bella dose di musica incazzata e funerea, ma anche selvaggia e senza dio. "Wild boy", "Durgstore" la finale "Wax doll" corrono lente e ad ali spiegate e sono figlie del punk americano più deleterio. La voce di Marco è cupa come la sei corde di Christian. Mentre Grazia, alla batteria, insieme a Marco che suona anche il basso, stende un tappeto di ritmi tribali e sconci da farti girare la testa. C'è poco da dire: era un sacco di tempo che non sentivo un disco italiano suonare così. E anche se probabilmente non c'entra un cazzo, la cupezza di questi otto pezzi mi ha ricordato le vecchie canzoni dei Gags e degli Huns. La Milano punk di fine Settanta, per chi se la ricorda o l'ha recuperata in qualche modo: quella allergica al morbo hardcore che sarebbe arrivato tre anni dopo. Insomma quella di Glezos e soci, che più che all'America guardava all'Inghilterra dei Pistols e di Adam Ant. Le radici dei Doggs, nome perfetto tra l'altro, stanno anche lì, nonostante la band abbia una potenza e una consapevolezza maggiore rispetto al primo punk meneghino e segua soprattutto la strada tracciata oltreoceano.Ciò che hanno in comune questi due mondi, la Milano di ieri e di oggi, sono la cupezza e il nichilismo, la violenza e i vestiti neri. 
Per saperne di più comunque fatevi un giro sul loro sito Internet www.thedoggs.com. Questi ragazzi vi faranno ammattire!