mercoledì 10 ottobre 2012

No fun house for the Doggs

A volte le cose capitano per caso. Del tipo che scrivo un post psichedelico su i Trans Upper Egypt e finisco per conoscere il cantante dei Doggs e trovarmi fra le mani il loro ultimo disco, "Red sessions". Otto pezzi di garage oscuro e malato, che hanno superato alla grande sia il test doccia, sia il test "notte". Mi spiego meglio. Visto che ho poco tempo per stare a casa e non possiedo iphone e cazzi simili, posso ascoltare musica solo in alcuni momenti cruciali della giornata: e cioè quando mi faccio la doccia e la barba al mattino, piazzando lo stereo portatile davanti alla porta del bagno, e quando vado a letto la notte, spostando il lettore cd all'ingresso della camera. Robe turche lo so, però non ho molte alternative. Quando stai fuori casa 12 ore, devi ingegnarti per ascoltare i dischi. Soprattutto se ne compri tanti.
Tornando alle qualità di "Red session", la prima cosa che mi è venuta in mente appena è partita "Midnight eyes" sono stati gli Stooges e chiunque conosca un minimo i Doggs penserà: bravo bella scoperta, questo lo sapeva anche mia nonna. Ok, è un'ovvietà. Però è bene dirla. Anche perché più che gli Stooges di primo o di ultimo periodo, questi pezzi mi ricordano quelli crepuscolari e tossici di "Fun house". Un groviglio di chitarre slabbrate e quella voce lontana e intensa, che sa tanto di garage fine anni Sessanta: un suono per nulla spensierato e rassicurante. Una sorta di rock'n'roll della crisi, tanto per capirci. Iggy e compagni però non sono l'unica influenza che si può trovare in queste otto tracce: fra un pezzo e l'altro, infatti, c'è anche un bel po' di lascivia alla Velvet Underground, miscelata all'odore di benzina e di chiuso dei bassifondi milanesi. Quella nebbia mista a smog della capitale amorale d'Italia, figlia del berlusconismo e nipote di Formigoni. Insomma un bella dose di musica incazzata e funerea, ma anche selvaggia e senza dio. "Wild boy", "Durgstore" la finale "Wax doll" corrono lente e ad ali spiegate e sono figlie del punk americano più deleterio. La voce di Marco è cupa come la sei corde di Christian. Mentre Grazia, alla batteria, insieme a Marco che suona anche il basso, stende un tappeto di ritmi tribali e sconci da farti girare la testa. C'è poco da dire: era un sacco di tempo che non sentivo un disco italiano suonare così. E anche se probabilmente non c'entra un cazzo, la cupezza di questi otto pezzi mi ha ricordato le vecchie canzoni dei Gags e degli Huns. La Milano punk di fine Settanta, per chi se la ricorda o l'ha recuperata in qualche modo: quella allergica al morbo hardcore che sarebbe arrivato tre anni dopo. Insomma quella di Glezos e soci, che più che all'America guardava all'Inghilterra dei Pistols e di Adam Ant. Le radici dei Doggs, nome perfetto tra l'altro, stanno anche lì, nonostante la band abbia una potenza e una consapevolezza maggiore rispetto al primo punk meneghino e segua soprattutto la strada tracciata oltreoceano.Ciò che hanno in comune questi due mondi, la Milano di ieri e di oggi, sono la cupezza e il nichilismo, la violenza e i vestiti neri. 
Per saperne di più comunque fatevi un giro sul loro sito Internet www.thedoggs.com. Questi ragazzi vi faranno ammattire!


Nessun commento:

Posta un commento