venerdì 25 maggio 2012

Jeffrey Lewis ti voglio bene

Di solito la regola è: non avere troppe aspettative quando ti consigliano di andare a vedere il concerto di un gruppo di cui non hai mai sentito parlare. E io, naturalmente, l'ho infranta. Anche perché da qualsiasi parte mi arrivasse "l'invito" per la serata in questione, il nome di Jeffrey Lewis & The Junkyard era accompagnato da aggettivi che definire esaltanti era decisamente un eufemismo. E così, quando è stato il momento di andare alla Claque e assistere a sto benedetto concerto un po' di paura-pacco, in fondo in fondo, c'era. Se non altro perché in ste situazioni la sfiga è sempre in agguato e perché anche io, sull'onda dell'entusiasmo, avevo speso nei confronti di Jeffrey e compagni un buon numero di lodi sperticate. "Com'è sta roba che c'è domani alla Claque?" mi hanno chiesto in due o tre. "Ah, una figata pazzesca...!" garantivo io, pentendomi appena un secondo dopo dell'azzardo appena compiuto. Insomma per la serata di mercoledì avevo firmato un po' di assegni a vuoto, non solo con me stesso ma anche con alcuni amici. Ma cazzo se avevo (inconsapevolmente) ragione! Il concerto di Jeffrey Lewis & The Junkyard è stato uno dei più belli in assoluto visti quest'anno e ancora mi mangio le mani per non essere andato a sentirlo la prima volta che è venuto a Genova un anno e mezzo fa. Parlare di anti-folk però, la definizione per eccellenza che è stata appiccicata alla sua musica, secondo me è piuttosto riduttivo. Se non altro perché, come tante etichette che si sprecano in questi casi, difficilmete rende bene l'idea di ciò che è accaduto l'altra sera sul palco della Claque. Prima di totto, ok, è vero: Jeffrey suona folk, ha una chitarra acustica e nella band c'è una tipa che ogni tanto tira fuori un violino. Però non aspettatevi un classico cantautore americano dall'aria triste che racconta quanto vorrebbe suicidarsi. No, il nostro assomiglia più a un novello Bob Dylan deciso a coverizzare i primi quattro album dei Ramones, nella cameretta di casa sua. Un punk in tutto e per tutto, che suona veloce e melodico, scanzonato e aggressivo, ma in punta di piedi. Certo, c'è un po' di gusto lo-fi nelle canzoni di Jeffrey, ma nulla di finto sporco o retro a tutti i costi. I pezzi sono, semplicmente, uno più bello dell'altro. E visto che il nostro è pure un ottimo fumettista, nel corso del concerto ci ha anche deliziato con la proiezione di alcuni "cartoon" undeground accompagnati da storielle cantate in rima. Un vero sballo, per esempio, è stata la storia del punk newyorkese dal 1950 al 1975: un collage di diapositive intervallato da pillole musicali di grandi classici di Velvet Underground, David Peel, New York Dolls e Richard Hell suonate al momento. Filologia rock da vero nerd, per parlare di quando il punk - più che un genere musicale - era un attitudine. E chissà che non sia proprio questa la chiave di lettura per capire davvero il concerto di Jeffrey: molti anni Sessanta, ma anche tanta ruvidezza e una semplicità disarmante. Un libro di storia della controculura elettrica, studiato con una chitarra acustica. Musica da falò per critici rock alla Lester Bangs. Amore a prima vista, insomma. Unico neo della serata il fatto che la band non avesse con sé manco uno straccio di disco o di fumetto. Tutti sold out, ci hanno spiegato sorridenti. Sì vabbè fanculo. Per fortuna che c'è Disco Club. Ora lo chiamo e accendo un mutuo.