mercoledì 27 settembre 2017

Un po' di recensioni a babbo

Giusto per spezzare un po' il logorio della vita moderna e interrompere la fitta serie di recensioni libresche - che altrimenti sembro quasi un intellettuale - ecco qualche giudizio rapido e tranchant su alcuni dischi ascoltati in quest'ultimo periodo (su cd, vinile, bandcamp, comprati nuovi, usati o sottratti con l'inganno a qualche vecchio punk, insomma un po' di tutto):

Tyrannamen - Tyrannamen

Disco incredibile uscito l'anno scorso, ma su cui ho messo le mani solo di recente. Sti ragazzacci australiani mescolano, amabilmente, garage, punk e glam. Melodie vorticose concentrate in pochi ma buonissimi pezzi. Davvero una rivelazione: come il salame con i fichi.

The Minneapolis Uranium Club - All of them naturals
Altro viniletto vecchio di un anno e altro regalo. Qui siamo dalle parti dei Devo, ma molto più lo-fi e rock'n'roll. Pezzi schizzati e schizzoidi, rumorosi al punto giusto, ma anche "space". I Minneapolis Uranium Club suonano una specie di kraut-rock'n'roll disperato e minimale, in cui le chitarre taglienti fanno da contraltare a una voce de-voluta e gracchiante. E come se non bastasse in mezzo al casino punk di sottofondo, qualche scienziato pazzo prova pure a spippolare un paio di manopole a caso.

Dalton - Dei malati
Se l'esordio "Come stai?" era un capolavoro assoluto e uno di quegli album destinati a rimanere (non solo nello stereo), questa seconda uscita dei romani Dalton è, per forza di cose, meno dirompente e clamorosa della precedente. Ma messi da parte i paragoni con il passato (recente) "Dei malati" è comunque un altro grande disco, in cui i nostri riaggiornano la loro personalissima versione del pub-rock in salsa oi!, spingendo di più sul versante pop-melodico-cantautorale. Non c'avete capito un cazzo? Bene, è l'informazione che volevo, direbbe il Mascetti. Perché qui c'è poco da capire: i Dalton sono uno dei migliori gruppi italiani in circolazione. Suonano potenti, poetici e rock'n'roll come pochi. E hanno una vena "epica" che mi fa letteralmente impazzire.

Leisfa - Liturgie di fallimenti e sconfitte
I mie concittadini Leisfa (che sta per Luca e i suoi fantastici amici, un nome secondo me grandioso e ignorante) sono uno dei gruppi hardcore più eccitanti e sinceri che possiate trovare oggi in circolazione. Questo nuovo disco, appena uscito in cd dopo due album in vinile più fanzine, è senza dubbio il loro lavoro più maturo e riuscito. Le nove canzoni sono "leggerissimamente" meno veloci rispetto al passato, ma se i tempi rallentano, la furia cieca della band genovese non ne risente minimamente. Anzi, il risultato è un disco ancora più violento e angosciante, dove la voce struggente e massiccia di Gippy sbuca fuori da un muro di suono tempestoso e compatto.

Tagliamidettagli - Nel segreto
Della serie dacci oggi la nostra figura di merda quotidiana. Il cui protagonista, naturalmente, sono noi, non la band, che spacca pure parecchio. Perché in un recente scambio dl librosullefanze con alcune produzioni Porrozione, mi sono trovato fra le mani il cd dei Tagliamidettagli e, appena messo nello stereo, sono rimasto piacevolmente colpito dal loro hardcore melodico (ma non troppo) suonato alla vecchia, ma prodotto bene. Qualche giorno fa, poi, mi ha scritto Paolo Caccio (ex Popsters e Semprefreski) chiedendomi si mi andasse di recensire il disco della band dove suona oggi. Naturalmente, bruciato come sono, non avevo collegato che si trattasse degli stessi Tagliamidettagli (gruppo hc anni novanta che si è recentemente riformato), ma appena mi sono messo ad ascoltare l'album su bandcamp: ecco la rivelazione. Tutto questo per dirvi che questo minicd (si tratta di 5 pezzi) è davvero una gioia per le orecchie. La band siciliana mi ricorda un po' i Kina-Frontiera (per le melodie) e i Sottopressione (per la potenza). Un hc davvero personale, che sa il fatto suo.

Alieni - Brucia la città

Gli Alieni vengono da Roma e mantengono fede al loro nome pubblicando un disco assolutamente fuori di testa e inclassificabile. Certo, ci troviamo sempre nei territori del punk, del rock'n'roll e del pub-rock, ma chi pensa di aver già inquadrato la band con questi piccoli e semplici dettagli si sbaglia di grosso. "Brucia la città" è un album urticante, turbolente e irrequieto. La voce di Tiziana, spesso paragonata a una Loredana Bertè punk (e diciamo che la suggestione regge), è un concentrato di rabbia senza fine. Sotto la band macina un rock'n'roll robusto e vibrante. Al di là della cover che ti spiazza ("Confessione" del gruppo prog Biglietto per l'Inferno), in alcuni momenti gli Alieni mi ricordano - a livello sonoro ma di certo non attitudinale - gli Incesti, il gruppo "fake-punk" italiano che le major avevano lanciato per cavalcare la moda del momento. Il loro 45 giri, al di là del testo nonsense, ha un'anima pub-rock che rivedo in questo quartetto romano. Per il resto gli Alieni sono tutto un altro pianeta, e che pianeta!

Capitalist Kids - Brand damage
Tra i dischi dell'anno c'è sicuramente questo nuovo lavoro dei Capitalist Kids. Ho avuto la fortuna di conoscere Jaff, il cantante, durante una sua recente vacanza genovese a casa di Simo Maffo, ma se il disco fosse stato una ciofeca non mi sarei fatto troppi problemi a dirlo. Invece "Brand damage" è l'anello di congiunzione perfetto fra pop-punk e power-pop, con in più la particolarità che almeno una buona metà dei pezzi tratta di temi politici e sociali. Jeff scrive ottimi testi, ma anche melodie superbe. Un album da ascoltare tutto d'un fiato e da lasciare giorni e giorni a girare nello stereo.




domenica 24 settembre 2017

Storia vissuta del punk a Los Angeles

Va bene, la copertina e il titolo di "Storia vissuta del punk a Los Angeles" di John Doe e Tom DeSavia, appena uscito per Giunti, lasciano un po' a desiderare: perché la cover sembra quella di un diario scolastico da quattro soldi e perché, mentre il libro, in originale, citava lo splendido terzo disco degli X "Under the big black sun", qui invece si è preferito buttarla sul didascalico. Detto ciò lungo le 250 pagine di questo volume imprescindibile - tradotto molto bene da Andrea Valentini - si racconta una delle storie più ingiustamente sottovalutate del primo punk: la scena di Los Angeles. Naturalmente non dico che della California di fine Settanta e primi Ottanta non si sappia un gran che e che John Doe sia arrivato a illuminarci la strada con questo suo bel volume (anche perché il libro - ma poi lo vedremo - non è certo quel che si può definire un testo con delle velleità storiche). Ma a essere onesti bisogna anche ammettere che su New York e Londra, e sui primi vagiti di quel tipo di punk delle origini, si è scritto in lungo e in largo in questi anni e sono tantissime le pubblicazioni che analizzano ciò che è accaduto fra il 1975 e il 1980 in quelle due città simbolo. Per ricostruire il punk di Los Angeles invece - soprattutto in Italia - ci si è sempre dovuti affidare più ai dischi che ai libri. Germs, X, Go-Go's, Flesh Eaters, Gun Club, Alley Cats, Fear, Zeros e le tante band che, tra il '76 e il '77, hanno cominciato a infuocare i locali malfamati e gli scantinati più lerci e polverosi della città degli angeli hanno lasciato, per fortuna, una fitta discografia a cui poter attingere, senza doversi svenare. Quello che mancava era qualcuno che mettesse un po' di ordine in mezzo a tanta musica stupenda.
Già perché, secondo il mio modesto parere, la scena punk californiana (e quindi non solo di Los Angeles, ma anche di San Francisco) di fine Settanta-primi Ottanta resta uno degli apici dell'intero movimento. Quella miscela speciale e unica di rock'n'roll marcio e malato, musica delle radici, violenza e pop-art allucinata mi hanno conquistato sin da ragazzino, quando ho avuto il mio battesimo del fuoco con "Los Angeles" degli X. Quindi, diciamo che l'attesa per la pubblicazione di questo testo fondamentale era tanta. E le aspettative, almeno per quel che mi riguarda, non sono state tradite.
"Storia vissuta del punk a Los Angeles" non è, come accennavo prima, un libro storico. Dentro non ci troverete quindi una ricostruzione minuziosa, con tanto di date e discografia consigliata di quella scena particolarissima e devastante. L'approccio di John Doe e Tom DeSavi è più emozionale, che "accademico". Ogni capitolo del libro raccoglie la voce di un protagonista di quei giorni (dagli stessi due autori, che intervengono più volte, a Harry Rollins, Mike Watt, Exene Cervenka, Jane  Wiedlin delle Go-Go's, Chris D. ecc ecc). Un collage di esperienze e punti di vista differenti sul medesimo periodo, che hanno il merito di costruire una sorta di storia orale del primo punk di Los Angeles. Naturalmente all'appello manca tantissima gente (per esempio sarebbe stata interessante una testimonianza degli Screamers, uno dei gruppi più citati in questo volume e una delle band più eccitanti del periodo, nonché fra i pochissimi a non aver inciso alcun disco ufficiale). Ma "Storia vissuta del punk a Los Angeles" resta una lettura piacevole ed eccitante, piena di aneddoti e micro storie che si incrociano. Soprattutto, in questo libro, emerge una punto di vista interessante e assai condivisibile sui confini temporali (e non solo) della prima scena punk della città degli angeli, rispetto all'esplosione dell'hardcore.
Se ci fate coso, poco prima, ho fatto un breve elenco dei gruppi punk di Los Angeles e non ho citato, volutamente, Black Flag, Minutemen e più in generale tutto il giro SST di cui, comunque, in questo volume in parte si parla. Quelle band - anche se i primi Black Flag forse restano una cosa a parte - sono molto diverse, dal punto di vista musicale e attitudinale, da X, Zeros, Screamers e compagni; una seconda generazione di punk losangelini - quella dei surfisti delle vicine periferie e della violenza cieca sopra e sotto il palco - che ha pochissimo a che fare con chi li ha preceduti. E nel libro, di queste differenze, si parla chiaramente e senza troppi giri di parole. Se il primo punk di Los Angeles privilegiava un approccio più artistico e personale, più aperto, ma anche satirico e in un certo senso politico e intellettuale, l'hardcore che aveva iniziato a insinuarsi e che poi ha sostituito quella scena, mostrava un'attitudine più muscolare e senza compromessi. Non è un caso che, a parte rare eccezioni, nessuno della prima scena punk si trovò coinvolto in quella hardcore, come se ci fosse stato una sorta di passaggio di testimone (non del tutto indolore). Anzi, in un certo senso sembra proprio di trovarsi di fronte a due controculture completamente diverse e con pochissimi punti in comune. Una serie di riflessioni che mi sono sembrate molto simili a quelle lette qualche anno fa in una delle guide pratiche di Rumore sulla storia del punk italiano scritte da Luca Frazzi. Glezos, uno dei pionieri del punk di casa nostra, spiegava in poche ed efficaci parole la differenza fra primo punk e hardcore: "Avvertimmo che il cambiamento portava a una cosa che c'era già stata. L'hardcore per noi è sempre stato visto come una cosa da hippies". Una storia molto simile a quella accaduta a Los Angeles, salvo che in quel caso, forse, gli hippies erano proprio i primi punk. Anche a Londra e a New York c'è stato un passaggio di testimone fra la prima scena e quelle che sono venute dopo, ma in entrambi i casi la linea di demarcazione è stata meno netta o comunque meno problematica rispetto alla frattura che si è venuta a creare a Los Angeles e, con le dovute proporzioni, anche in Italia: nella capitale inglese dalle ceneri del punk è nato il post-punk, mentre l'hc è sempre stato un fenomeno più marginale (a parte il filone crassiano e anarcho che però è tutta un'altra storia); all'ombra della Statua della Libertà invece prima dell'hc di fine Ottanta ci sono stati la no wave e il noise che hanno comunque spinto l'acceleratore più sull'approccio artistico, intellettuale e avanguardistico, che sul tono muscolare della musica. Vabbè, forse mi sono un po' perso. Comunque "Storia vissuta del punk a Los Angeles" è un gran bel libro: procuratevelo alla svelta.


mercoledì 20 settembre 2017

A cavallo della "Superonda"

Qualche giorno fa ho finito di leggere "Superonda" di Valerio Mattioli: un bel volumone di oltre 600 pagine sulla "Storia segreta della musica italiana" (come recita il sottotitolo) fra il 1964 e il 1976.  Per finirlo mi ci è voluto quasi un mese: non solo perché, nel frattempo, come al solito, ho letto un botto di fumetti e riviste, ma soprattutto perché "Superonda" è un libro difficile, che richiede attenzione e un po' di sana lentezza. Mattioli, che avevo già imparato a conoscere grazie ai fantastici Heroin in Tahiti - la classica band che non dovrebbe piacermi e che invece mi fa uscire di testa - è riuscito, con questo volume pubblicato da Baldini & Castoldi, a raccontare una storia eterogenea ma bellissima, oscura e mainstream, mettendo finalmente ordine in una materia incasinata come la musica italiana contemporanea nella sua prima fase propulsiva.
Se devo proprio fare un appunto all'autore, che però appunto non è, è che mi pare davvero un peccato che "Superonda" si fermi proprio alla vigilia del '77 - anche se qualche leggerissimo sconfinamento c'è - visto che mi piacerebbe molto leggere "la versione di Mattioli" del periodo musicale che amo di più (il punk, la new wave, l'hardcore, il revival garage e magari anche le posse). Però, diciamoci la verità, su quelle vicende, ormai, esiste, anche in Italia, una folta pubblicistica. E anche se mi incuriosirebbe molto leggere cosa ne pensa l'autore di "Superonda" del primo punk italiano, tanto per fare un esempio, non è che ci sia un vero e proprio vuoto editoriale in materia. Sul periodo trattato dal libro, invece, direi che non esiste un'opera completa e accurata come questa. Anche la scelta di come trattare la vastissima materia musicale racchiusa in questi 12 anni che cambiarono l'Italia è secondo me molto azzeccata. Mattioli non può non citare gli urlatori, il beat italiano, il prog e i cantautori, ma visto che quei mondi musicali sono già stati oggetto di numerose pubblicazioni e disamine, in "Superonda" vengono inseriti all'interno di un discorso molto più ampio, dove trovano maggiore spazio scene e artisti che potremmo definire non convenzionali, o quasi. Certo, uno come Morricone - di cui si parla parecchio - ma anche uno come Battiato - altra "star" del libro - non sono degli illustri sconosciuti. Ma tra le pagine di "Superonda", grazie anche a interviste di prima mano, esce fuori un sorta di lato oscuro - o sarebbe meglio dire meno noto - di queste e altre figure, assurte ormai a santini della musica pop italiana. Anche di Battisti, per esempio, si privilegiano alcuni momenti meno noti della sua biografia. E lo stesso si fa con tante altre star come gli Area o Alan Sorrenti.
Al di là dei tanti capitoli in cui è diviso il libro - dall'epopea della library music alle mille facce della "musica contemporanea", dal prog alle colonne sonore, dal free jazz ai mitici anni del Piper - quella contenuta in "Superonda" è una storia con un unico filo conduttore unico: un racconto fatto di tante piccole vicende, che però hanno un legame fra loro. Mattioli non lavora per compartimenti stagni, ma sviluppa un discorso e un pensiero organico attraverso le fasi della storia musicale italiana del secondo dopoguerra. Commenta, analizza e mette insieme gli avvenimenti con molto scrupolo e tanta competenza e il risultato è un'epica del primo pop di casa nostra come, credo, non sia mai stata raccontata fino a questo momento. "Superonda", per la sua imponenza e la sua importanza storica, è quindi un vero e proprio caposaldo, un classico - anche se è uscito appena un anno fa - che tutti gli appassionati di musica dovrebbero leggere (e chi se ne frega se vi sembra la solita frase fatta: in questo caso è la pura verità). Un viaggio vorticoso e clamoroso, che parte dalle radici stesse del pop italiano, ma che non si limita esclusivamente all'aspetto musicale. In "Superonda", infatti, come chiarisce il titolo del libro che cita il mitico divano del Superstudio di Firenze, c'è anche spazio per le varie avanguardie artistiche che sono esplose in Italia dalla metà degli Anni Sessanta alla metà degli Anni Settanta (cinema, pittura, architettura, design: arte, insomma), offrendo uno spaccato culturale e sociale, che si lega a doppia mandata alla musica. Nel libro ci sono personaggi ricorrente (i già citati Morricone e Battiato come non li avete mai visti) e vere e proprie icone sotterranee (ma non troppo) come Mario Schifano o Gianfranco Manfredi. "Superonda" è un racconto selvaggio, ma al tempo stesso accademico, scritto come un assalto al treno della cultura pop.


giovedì 14 settembre 2017

Ti ricordi Grant Hart?

Questa merdosa giornata di fine estate, carica di nuvole gonfie, s'è portata via Grant Hart degli Husker Du, uno dei miei eroi musicali di tutti i tempi o più semplicemente uno dei dieci artisti che hanno influenzato di più la mia vita. E lo dico dal punto di strettamente personale, naturalmente, visto che non sono né un musicista, né un poeta, né uno scrittore. Grant Hart - insieme a Bob Mould e Greg Norton - ha sconvolto la mia esistenza a partire dal giorno in cui, a 16 anni e senza troppa convinzione, ho comprato il cd di "Warehouse" al Music Store. L'avevo preso solo perché i Green Day non facevano altro che citare gli Husker Du come una delle loro più grandi fonti di ispirazione. E se devo essere sincero non fu amore al primo ascolto. Però nel giro di pochi mesi e provando a recuperare anche il resto della discografia della band, mi sono lentamente e inesorabilmente innamorato di un suono che ancora oggi fatico a decifrare, ma che adoro. In un certo senso è stato come quando, da ragazzino, ho assaggiato per la prima volta la birra: all'inizio, abituato com'ero a bibite zuccherose e appicicaticce, mi era sembrata una roba strana, amara e quasi imbevibile. Poi sappiamo tutti com'è andata...
Gli Husker Du sono il mio gruppo preferito insieme ai Clash, perché, come Strummer e soci, mi hanno accompagnato lungo tutto l'arco della mia vita "vera" (dai 14 anni in su, anche se gli Huskers sono arrivati poco dopo). Senza stare a fare troppo il retorico, queste due band hanno forgiato la persona che sono oggi. Nel bene e nel male. E così, quando questa mattina ho letto della morte di Hart, che non era solo il batterista e cantante saltuario, ma era anche uno dei due maggiori compositori del gruppo, mi sono sentito letteralmente mancare la terra sotto i piedi. Sono rimasto intontito per qualche secondo e poi (per un momento) ho pianto.
Grant Hart è morto a 56 anni nel silenzio quasi totale della stampa mainstream. Al massimo si è guadagnato qualche citazione sui siti dei quotidiani italiani, con pezzi scopiazzati da Wikipedia o scritti senza troppo entusiasmo. Eppure la maggior parte della musica rock che abbiamo ascoltato dagli Anni Novanta a oggi ha un grosso debito nei suoi confronti e più in generale verso gli Husker Du. Anche se ci sono milioni di persone che ascoltano e consumano i dischi dei Nirvana e dei Foo Fighters, purtroppo, pochi di loro sanno che le fondamenta di quel suono si devono proprio a questo magico trio di Minneapolis, che una trentina di anni fa mise le basi per quelli che sarebbero stati il grunge, l'indie e il rock "alternativo" dei decenni a venire. Tra le altre grandi cose che gli Husker Du sono riusciti a fare in neppure due lustri di carriera, c'è anche l'aver sdoganato, presso il grande pubblico, un modo nuovo di intendere il rock'n'roll, visto che Mould, Hart e Norton sono stati i primi del giro post-hc e indie degli Anni Ottanta a firmare con una major, aprendo la strada a tante altre band (i Rem su tutti) che hanno fatto la storia della musica. A differenza di Stipe e co., però, non sono mai diventati ricchi e famosi. Anzi, si sono presi gli insulti all'epoca per aver lasciato la SST per la Warner e sono finiti a dover sbarcare il lunario facendo un po' di tutto per tirare a campare. E oggi sono poco più che un piccolo culto, maledizione.
Dopo lo scioglimento degli Husker Du, avvenuto in modo piuttosto tempestoso nell'87 (di mezzo c'è stato anche il suicidio del loro manager), Hart è stato il primo dei tre a pubblicare qualcosa. Prima un singolo davvero niente male ("2541") e poi un album solista meraviglioso, "Intolerance". Nei primi Anni Novanta il nostro ha provato anche a mettere su una band: i poco fortunati Nova Mob, con cui ha abbandonato la batteria per fare finalmente il frontman. Con questo nuovo progetto (una sorta di gruppo parallelo agli Sugar di Mould) ha inciso due album: il primo, "The last days of Pompeii", piuttosto interessante anche se lontano dalle vette di "Intolerance" o degli Husker Du e il secondo, omonimo, meno ispirato, ma tutto sommato accettabile. Poi sono arrivati i dischi solisti, sempre più incasinati e pretenziosi, con alcune perle incredibili, ma anche qualche passo falso. Parliamo di pochi album, in realtà ("Good news for modern man", "Hot wax" e "The argument"), intervallati fra loro da parecchi anni di silenzio.
Hart è sempre stato un tipo molto incasinato; aveva conosciuto prima Greg e poi Bob in un negozio di dischi a Minneapolis. Amava i Ramones, ma anche la musica psichedelica degli anni Sessanta. Negli Husker Du, dopo la fase furiosa dei primi anni, era diventato l'anima più poetica e melodica. Era quello, tanto per capire, che sapeva scrivere e cantare i brani più pop della band, senza alcuna paura di osare. Quando gli Huskers erano all'apice della loro carriera underground, Hart si era infilato in storiacce di droga e aveva iniziato un duro braccio di ferro con Mould sulla direzione musicale che avrebbe dovuto prendere la band. Ormai, soprattutto negli ultimi due anni di vita, il gruppo era diviso in due: Mould da una parte e Hart dall'altra, mentre Norton cercava faticosamente di fare da paciere. Chi li ha visti a Torino in quella magica data italiana dell'87, poco prima dello scioglimento, racconta che fra il chitarrista e il batterista c'era un gelo totale. Non si guardavano neppure in faccia. Hart era sempre stato quello più "ribelle" e spigliato, mentre Mould era quello introverso e riflessivo. Due prime donne che faticavano a convivere fra loro. Non a caso "Warehouse", l'ultimo lavoro della band, è un album doppio che contiene in realtà due dischi distinti e bellissimi: uno di Hart e l'altro di Mould, che erano arrivati al punto di dividersi equamente le canzoni da scrivere e da cantare. Come sempre i pezzi del chitarrista sono quelli più duri e disperati, mentre i brani di Hart suonano più melodici e "allegri", pur conservando una vena di malinconia da fine del mondo. Un dualismo talmente forte da generare una frattura che i due si sono portati dietro per tutta la vita. Anche se pare che nell'ultimo periodo ci fosse stata, almeno a livello umano, una sorta di riconciliazione. Le parole che Mould ha scritto oggi sulla sua pagina Facebook a proposito della morte dell'amico sono senza dubbio una conferma di questo timido riavvicinamento fra i due.
Hart pare che se ne sia andato per un cancro che lo stava divorando già da qualche mese. Ma non ne so molto, a essere sincero. Avevo letto che proprio poco dopo lo scioglimento degli Huskers gli era stato diagnosticato, per errore, l'Hiv. I medici si erano sbagliati e quando Hart aveva saputo di essere sano era quasi rinato (e ci credo bene, cazzo!). Questa volta, invece, è tutto vero e anche la notizia di stamattina, o forse ormai dovrei dire di ieri vista l'ora, inizialmente sembrava una bufala. Pareva davvero assurdo che potesse accadere una cosa del genere; soprattutto che fosse successo così all'improvviso e proprio pochi giorni dopo l'annuncio dell'uscita, a novembre, di un mega cofanetto con alcuni inediti degli Husker Du, che in tanti avevano accolto come il primo passo verso una possibile reunion. E invece Hart è morto. E con lui s n'è andato via per sempre un pezzo della mia vita. E' successo così, all'improvviso e senza neppure bussare alla porta.


domenica 10 settembre 2017

Downtown Boys - Cost of living

Ogni volta che parlo dei Downtown Boys finisce che mi prendono per il culo. Non per la band in sé, ma per la venerazione che ho nei confronti di questi ragazzetti di Providence, in cui mi sono imbattuto un po' per caso un paio di anni fa. Non starò a farla tanto lunga, ma al di là delle battute e delle piccole frecciatine che ci scambiamo quotidianamente su Facebook o su Whatsapp c'è una "sottile" linea rossa che divide chi li adora come il sottoscritto e chi, senza troppi trionfalismi, li considera una buona band hardcore da ascoltare in macchina o sul treno, mentre va al lavoro: averli visti dal vivo. In Italia non siamo in tanti ad aver avuto un tale privilegio, visto che per ora la band ha suonato qui da noi soltanto due volte: una a Milano e una a Imperia, con una media di venti spettatori a botta. Sta tutta lì però la differenza fra me e voi stolti che ve li siete persi. Perché va bene che i dischi usciti finora sono una bomba, dal primo demo ristampato su vinile (grezzo, veloce e rabbioso), al capolavoro "Full Communism" fino il nuovissimo "Cost of living". Ma un concerto dei Downtown Boys è un'esperienza così totale ed elettrizzante, che vi sembrerà quasi di assistere al vostro primo live hardcore. Di questa storia però ho già parlato su Sottoterra e chi mi ha incontrato in giro nell'ultimo anno avrà sentito ormai cento volte il mio racconto di quel folle lunedì sera a Imperia insieme a Luca, Marco, mio fratello e un altro manipolo di illuminati (grazie Ale Pio per averli portati all'Arci Camalli). Quello di cui vorrei parlare oggi, invece, è il loro ultimo disco, uscito il mese scorso su Sub Pop.
Devo ammettere che quando ho saputo che i Downtown Boys avevano firmato per la label di Seattle ho storto un po' il naso, perché temevo che un ciclo - seppur breve - si fosse ormai concluso e che il loro hardcore così particolare potesse in un certo senso normalizzarsi. E' successo a tante band e, in alcuni casi, non è stato neppure un male. Per altre, invece, ha rappresentato un disastro. E così quando sono iniziati a uscire i primi pezzi in anteprima, che ho accolto come farebbe un tossico col metadone, ho cercato di capire se i miei timori fossero fondanti oppure no. Intendiamoci: non è che le due o tre canzoni pubblicate come antipasto del disco fossero brutte e insignificanti (che poi in questi casi è quello il maggior pericolo). Però non riuscivano a entusiasmarmi. E mi rodeva parecchio. Poi, poco prima che partissi per le vacanze è uscito in streaming l'intero album e due giorni dopo era già nei negozi.
Ascoltando il disco tutto insieme, anche se un po' di fretta, ho capito che le mie paure erano decisamente esagerate. Certo, la nostalgia per "Full Communism" era ancora molto forte. E ho dovuto attendere di stringere fra le mani il vinile, metterlo sul piatto e stapparmi una Moretti per fare definitivamente pace con "Cost of living". Pur essendo consapevole che non lo amerò mai come il suo predecessore (che beneficia comunque dell'effetto "sorpresa" e del fatto che, come tutti i dischi importanti, è stato scritto e inciso in uno stato di grazia forse irripetibile), il nuovo lavoro dei Downtown Boys è comunque un altro album che lascia il segno. La struttura resta fondamentalmente la stessa: hardcore isterico e progressivo, con sax impazzito a rincorrere la voce stridula di Victoria; canzoni politiche e schierate ma senza il classico abuso di slogan, cantante in inglese e in spagnolo. Un vortice di suoni che mescola Fugazi, X-Ray Spex, MC5, Minutemen e jazz-rock. "A wall", il pezzo che apre il disco è un vero e proprio inno e un nuovo classico dei Downtown Boys, con il suo incedere epico e storto, capace di farti battere il cuore anche alla veneranda età di 35 anni. Saltando come un grillo al lato B, "It cant' wait" è un'altra scheggia impazzita impastata di melodie acide cantante in coro, mentre "Promissory note" (di uovo lato A) è quasi un omaggio ai già citati Fugazi (non a caso in regia siede Guy Picciotto...). Ma come dico spesso (ripetendomi) è tutto l'album a funzionare a dovere. Ogni brano sembra aggredire l'ascoltatore per non lasciarlgi scampo ("Because you" parte lenta e indecifrabile e poi ti prende letteralmente a bastonate sulle orecchie), il sax di Joe sfrigola come un matto in "Tonta" e sorregge l'intero impianto di un brano tumultuoso e ruvido come "Clara Rancia". Un altro inno contenuto nel disco è senza dubbio "I'm enough (I want more)" in cui i proclami irresistibili di Victoria si incastrano fra le linee di chitarra. E potrei restare qui per ore e ore a raccontarvela, per dirvi sostanzialmente che "Cost of living" è un ottimo album, che non vi tradirà. Quindi forse è arrivato il momento di piantarla e di andare a pulire il bagno.


martedì 5 settembre 2017

Robette niente male: gli Y.e.s. e i Planet Y

Per la serie "vedo cose, faccio gente" - etichetta sotto la quale andranno a finire i post sulle mie attività più disparate, tipo ascoltare musica sul divano, bere birrette e stronzzeggiare in giro - vorrei spendere qualche parola sui due 45 giri che ho recuperato nei giorni scorsi dalla distro di Gippy . (Lanterna Pirata). Se non fosse per il suo fiuto e la sua curiosità, come tutti gli anziani che continuano a comprare dischi, sarei fermo alle band dei miei 15-20 anni (il che, comunque, non sarebbe poi così male), ma devo dire che Gippy e gli altri giovinastri che affollano la scena punk genovese (tutti e cinque, intendo) sanno darmi, spesso, consigli interessanti.

Y.E.S. - E.p. # I


Non ho la più pallida idea di chi siano gli Y.e.s. (e non è che me ne importi più di tanto). Credo che siano tedeschi o almeno così c'è scritto sulla loro pagina bandcamp (ma il fatto che abbiano inciso un pezzo in italiano mi spiazza non poco, anche se la pronuncia è tutto un programma...). Quel che conta, comunque, è che pestano come ferrai e in pochi minuti riescono a infilare, sui due lati di questo singolo coprodotto da Lanterna Pirata e una manciata di altre label, otto canzoni di hc sferragliante, come non sentivo da un pezzo. Il suono ricorda un po' quello della California Anni Ottanta, dai Dead Kennedys agli Ill Repute passando - con fischio o senza? - per i JFA; senza andare troppo indietro nel tempo e restando dalle nostre parti, però, devo ammettere che gli Y.e.s. - che tra l'altro si chiamano quasi come una delle peggiori band mai partorite dalla contorta mente umana - mi ricordano piacevolmente gli ormai sciolti Anti-You di Roma (una delle mie piccole ossessioni in campo hardcore). Di solito, e qui mi calo proprio le braghe, non sono un fan sfegatato dei 45 giri (o 7 pollici, che dir si voglia), perché essendo piuttosto pigro mi rompo le scatole a dovermi alzare dal divano per girare il disco a intervalli così frequenti. Fisime da 'ex punk ora venduto' a parte, l'ep degli Y.e.s. è uno dei singoli più eccitanti degli ultimi mesi. 

https://yespunkband.bandcamp.com/releases

 PLANET Y  - Planet Y ep

L'altro 45 che mi è atterrato sullo stereo in questi giorni è il primo disco dei Planet Y di Copenhagen. Ancora una volta siamo dalle parti dell'hc californiano Anni Ottanta, con l'aggiunta però di quel tocco "nordico" che piace ai gggiovani e che ricorda deliziose meteore come i Vicious o i più recenti e indomiti Rotten Mind. Voce femminile e maschile che si alternano, coretti surf-punk, malinconia dark e chitarre sfrigolanti e sgangherate sono il piatto forte del menù acido e insuperabile che ci propone questo quartetto di ragazzacci. I ritmi sono un po' meno sostenuti rispetto agli Y.e.s. di cui ho parlato poco sopra; anzi qui le canzoni hanno un suono più ossessivo e disperato. Come se fossimo di fronte al lato oscuro del punk-hc. 

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sabato 2 settembre 2017

L'effetto che mi fanno i NOFX - Recensione della loro biografia e altre amenità (Sono tornato, belandi)

Magari non lo sapete, ma qualche settimana fa Tsunami edizioni ha pubblicato uno dei libri dell'anno: "Una vasca per cesso e altre storie", la traduzione italiana della biografia dei NOFX - una delle mie band preferite di tutti i tempi - che in originale aveva un titolo un po' più interessante "The hepatitis bathtup and other stories" ("La vasca di epatite e altre storie").
Ma al di là di questo piccolo particolare non potrò mai ringraziare abbastanza la casa editrice milanese per aver portato in questa landa desolata e desolante un volume che, personalmente, attendevo con trepidazione da almeno un anno e cioè da quando è uscito per la prima volta negli Stati Uniti. E visto che l'inglese non è quel che si possa definire la mia seconda lingua (me la cavo, ok, ma alle medie ho fatto francese) ho accolto questa scelta illuminante della Tsunami come una benedizione. Il libro poi è uno spasso e come avrete già letto da altre parti mette in fila i ricordi e le ricostruzioni dell'intera storia della band a seconda dei punti di vista di ciascuno dei suoi componenti (attuali ed ex). La struttura ricorda un po' quella di "Please kill me", capolavoro e caposaldo della storia del punk newyorkese, che immagino tutti voi abbiate imparato a memoria. E così, sulla falsa riga di questo testo fondamentale, "Una vasca per cesso e altre storie" è stato concepito come una raccolta di capitoli che come titolo portano, di volta in volta, il nome del componente della band a cui in quel momento è affidato il racconto, in modo che ognuno possa dare la propria versione della storia. Lungo le pagine del libro non si parla solo di dischi e concerti, ma anche (e soprattutto) di alcuni episodi personali piuttosto scottanti e crudi (dalla droga agli abusi sessuali, dalle prime scoperte adolescenziali al rapporto coi genitori) che rendono la storia ancora più avvincente. Paradossalmente lungo le 350 pagine di questo sontuoso volume, scritto con l'aiuto dell'ottimo Jeff Alulis, si parla più di vita che di musica, tanto che gli anni del "successo" dei NOFX (dal '92 in poi) occupano una porzione minoritaria rispetto al periodo in cui la band muoveva i suoi primi passi. Addirittura di dischi importanti come "Punk in drublic" o "So long" quasi non si fa menzione, privilegiando aspetti meno conosciuti e più sfiziosi, come il racconto della cena fra il gruppo e gli "scagnozzi" di una major che aveva intenzione di metterli sotto contratto. Più che una biografia di una punk band, "Una vasca per cesso e altre storie", è stata definita una seduta collettiva dallo psicologo, una terapia di gruppo in senso letterale, durante la quale sono ammessi colpi bassi, critiche, scazzi interni, confessioni inconfessabili e drammi personali (la leggenda vuole che ciascun componente della band conoscesse soltanto la parte del libro relativa alla propria storia e che ignorasse cosa avessero detto gli altri, almeno fino alla definitiva pubblicazione). Se questo pettegolezzo sia vero o meno mi interessa davvero poco: quel che è certo è che ci troviamo di fronte una lettura avvincente, divertente, sgradevole e storicamente interessante. Perché se, come detto, degli anni d'oro dei NOFX si parla relativamente poco, una buona metà del volume è dedicata agli esordi del gruppo, quando Fat Mike e soci facevano letteralmente cagare e suonavano un hc stonato e monotono (a me, sinceramente, piacciono anche così, ma resta un problema mio...). Una scelta azzeccata, visto che in quelle pagine si racconta una fetta importante della scena punk e del primo hardcore californiano e americano, con storie e aneddoti che in pochi conoscono così a fondo. Il tutto, come ho già avuto modo di dire, scritto con uno stile scorrevole e molto diretto, che vi consentirà di bervi queste 350 pagina in pochi giorni.
Non pago di questo inutile fiume di parole, ho deciso che mi (o vi) voglio rovinare e quindi, insieme a questa sgangherata "recensione" del libro, parlerò (in poche righe) della sterminata discografia dei NOFX. Così, giusto per rompere un po'  i coglioni.

Piccola avvertenza: mi soffermerò solo sugli album, comprese alcune pseudo raccolte come "Maximum rock n roll", ma lascerò perdere la mole infinita di singoli e split. Farò giusto qualche piccola eccezione per alcuni ep, visto che in certi casi si tratta dischi piuttosto importanti per la storia della band. Cominciamo.

MAXIMUM ROCK N ROLL - Pubblicato nel 1992 dal Mystic Records, "Maximum rock n roll" è un bootlegone non autorizzato che gli stessi NOFX dicono di aver visto per la prima volta in un negozio, mentre spulciavano i dischi del reparto punk. Nessuno di loro ne sapeva nulla, però è un ottimo viatico per conoscere i primi e più rognosi vagiti della band. Qui dentro c'è il loro primo ep, ma ci potete trovare anche delle registrazioni ignoranti e sgangherate fatte proprio negli studi della Mystic quando i nostri erano agli inizi e nessuno se li cagava manco di striscio. Anche la copertina del disco è piuttosto brutta e raffazzonata. Io l'avevo comprato per completismo, quando ero ancora un pischello, dal defunto Pink Moon nei vicoli. Non costava poco all'epoca (era il 1999-2000 direi e avrò speso almeno 30 mila lire). Una volta infilato nello stereo mi aveva fatto subito cagare. Poi ho imparato ad amarlo ugualmente (forse).

LIBERAL ANIMATION - Anche se la copertina spacca, quest'album dell'88, vero e proprio esordio sulla lunga distanza della band, è una mezza ciofeca. Almeno al primo ascolto (ma pure al secondo e al terzo). Suoni sconclusionati, canzoni registrate e scritte alla cazzo e, particolare non da poco, un Fat Mike davvero (di)sgraziato alla voce. Quando Dibe me l'aveva venduto per poche lire a fine Novanta avevo capito subito di aver preso un pacco (ma a sua discolpa devo ammettere che ne ero piuttosto consapevole). Anche se lo ritenevo un album orrendo, facevo finta che mi piacesse. Ma oggi, a distanza di quasi 20 anni (per me) e 30 anni (per loro) penso che ci sia del genio in quei solchi. Pezzi come "I live in a cake" sono uno spasso senza senso. Detto questo "Liberal animation" non lo ascolto quasi mai.


S&M AIRLINES - Il primo disco "vero" dei NOFX, a detta loro. Siamo nel 1989. Ma se vi piace la band com'è oggi o com'era anche solo 25 anni fa (cacchio che vecchi che sono!) non è che ci sia tutta questa differenza con "Liberal animation". Ho sentito gente definire "S&M Airlines" uno dei loro migliori album. Ma si tratta dei soliti poseur che devono per forza fare gli strani. Non scherziamo: alcuni pezzi sono carini, ok, però in questo disco ci sono anche degli assoli simil metal (vi rendete conto???) che gridano vendetta. La voce di Mike migliora un po' rispetto al passato, ma nell'insieme "S&M Airlines" non si può beccare più di un 6 meno. Ricordo che l'avevo preso al Music Store dopo una lunga traversata ponente-centro sull'autobus numero 1, appena uscito da scuola. E forse il giorno dopo mi ero persino beccato un brutto voto, perché avevo passato il resto della giornata ad ascoltarlo e a capire perché avessi buttato via così i mie soldi.

RIBBED - Oh, finalmente ci siamo. Anche se qua e là si sente ancora qualche tamarrata di chitarra - credo che la colpa sia del buon Steve che da lì a poco, bontà sua, avrebbe lasciato la band, giusto un minuto prima che diventasse famosa - le radici del classico NOFX-sound di cui mi sono innamorato a 15 anni sono qui. Che poi, detto tra noi, non è altro che l'hc melodico dei Bad Religion di "Suffer" suonato e cantato peggio. Detto questo, a me, "Ribbed" è sempre piaciuto un sacco, perché il suono è ancora grezzo e sporco, ma le melodie ci sono tutte. I pezzi fighi sono una marea, sin dall'opener "Green corn" e fino ad alcune incursioni ska-core ("Food, sex & ewe") che erano non così scontate all'epoca (era pur sempre il 1991) e virate pop anni '50. Ho consumato la cassettina pirata di quest'album per una vita, prima di comprarlo originale in cd a una fiera del disco di qualche anno fa.

THE LONGEST LINE - La vera svolta dei NOFX arriva nel '92 con l'ingresso di Hel Efe, che non è un punk, ma suona e canta molto bene. I pezzi sono solo 5 e sono uno più bello dell'altro. Anche la copertina spacca e infatti la stampa e il pubblico cominciano ad accorgersi della band. "The longest line" si chiude con una canzone reggae (con coda punk) che si chiama "Kill all the white man" che all'epoca era diventata per me una vera e propria ossessione. La cassetta me l'aveva duplicata Tito, il mio mentore punk delle superiori. Alla fine di una manifestazioni in centro dopo l'ennesimo sciopero contro una delle tante riforme della scuola, sono andato da Ricordi e ho investito i soldi della mia paghetta in uno scintillante cd che ascolto con grande piacere ancora adesso.

WHITE TRASH, TWO HEEBS AND A BEAN - Sempre 1992 e ancora una volta un centro perfetto. Qui siamo ai massimi livelli dei NOFX: pezzi veloci, melodie pop, testi divertenti ma non scontati, scherzetti e battute disseminati qua e là. Questo album, quando ero un adolescente brufoloso di fine anni Novanta, non era facilissimo da trovare a Genova. Almeno per me che abitavo in periferia e non riuscivo ad andare così spesso in centro. Al tempo avevo sempre poche lire in tasca e così sono riuscito a recuperarlo soltanto in gita scolastica a Madrid (rinunciando a qualche birra e forse a qualche pasto) nel 1999. Un mio compagno aveva un lettore cd portatile (io ancora viaggiavo a walkman con cassetta) e credo di averglielo requisito per tutta la gita per sentire quel mio piccolo Santo Graal del punk.

PUNK IN DRUBLIC - Se vi siete già rotti le palle posso capirlo. Anche io comincio a dubitare dell'utilità di questa articolessa. Però mi spiace lasciare le cose a metà, così vi prometto che d'ora in poi sarò più breve (non è vero!). "Punk in drublic" è forse il disco più famoso e amato dei NOFX e chi sono io per sostenere il contrario? I pezzi sono tanti, ma non c'è alcun riempitivo. Non capirò mai per quale ragione abbiano escluso dalla tracklist un mezzo capolavoro come "Drugs are good" (titolo fenomenale e pezzo messo come b-side del singolo "Leave it alone"), ma per il resto, dall'inizio alla fine, c'è soltanto da godere. I nostri in questo disco della consacrazione e delle palanche vere (ne venderanno moltissssssimisssime copie) vanno ancora più veloci del solito e i testi sono una bomba. Siamo nel 1994.

HEAVY PETTING ZOO - Due anni dopo "Punk in drublic", nel 1996, i NOFX recuperano un po' di vena melodica e se ne escono fuori con un disco che, soprattutto loro, odieranno a morte per parecchio tempo. Sinceramente è il primo loro album che abbia mai ascoltato e mi piace da morire. Era l'estate del 1997 e Vizzi mi aveva passato la sua cassetta (duplicata) dicendomi: "Guarda che questi vanno molto più veloce dei Green Day...". E cazzo se aveva ragione. Appena è partito il tasto play sono stato letteralmente investito da "Hobophobic": 48 secondi di follia che ancora oggi mi fanno venire la pelle d'oca. A quel punto ho venduto a un amico la mia copia di "Blood sugar sex magic" dei Red Hot e dopo aver racimolato qualche lira in più sono corso da Sonorama a comprarmi il cd originale. La copertina è stupenda (un contadino che fa una 69 con una pecora) e non so dirvi quanto abbia cantato a squarcia gola le canzoni di questo disco, inventandomi di sana pianta le parole, visto che i testi erano scritti a cane nel libretto. Vado pazzo per "Heavy petting zoo" e non me ne frega nulla di cosa ne pensino Fat Mike e i fan della band.

SO LONG AND THANKS FOR ALL THE SHOES - Questo è il primo disco dei NOFX che ho atteso con trepidazione, di cui ho letto una recensione in tempo reale e che mi sono andato a comprare da Ricordi appena è uscito. Per gli album precedenti invece si è trattato solo di un'operazione di recupero. Mi ricordo che quando ho visto le (finte) foto della band nel libretto del cd mi è quasi venuto un coccolone. Pensavo davvero che Mike, Hefe, Melvin e Smelley fossero quei vecchiardi ritratti lì dentro. L'album è molto eterogeneo: si parte con l'hc tirato di "It's my job to keep punk rock elite", ma poi ci si perde in varianti ska, ska-core, reggae ("Eat the meek") e persino strumentali quasi jazz come "Quart in session". Forse un disco di transizione. Ma comunque un gran disco di transizione. Anzi no, mi correggo: un super album. O forse sbaglio. Mah!

THE DECLINE - Questo ep del 1999 per me (ma credo anche per molti altri) è stato una vera botta. Nel senso che mai più mi sarei aspettato di comprare un disco dei NOFX in cui ci fosse un solo pezzo della durata di oltre 18 minuti. Roba da rock progressivo, ho subito pensato quando ho infilato il cd nel computer (all'epoca non avevo uno stereo degno di questo nome) e ho letto: 1 traccia, minuti 18,19. Poi però ho schiacciato play ed è stata una rivelazione. Anche perché "The decline" è più un collage di pezzi che una canzone unica. E visto che mantiene tutte le caratteristiche essenziali dei NOFX (velocità e melodia) ci sono subito andato a nozze.

PUMP UP THE VALUUM - Mancava poco ai miei 18 anni (estate 2000) e io volevo a tutti i costi farmi regalare il nuovo disco dei NOFX. Altro che macchine (vabbè, magari) e feste in smoking (vi rendete conto di cosa andava di moda all'epoca???). Per il conseguimento della mia maggiore età desideravo soltanto mettere le mani sul nuovo album di una delle mie band preferite, che sarebbe uscito di lì a poco. Così mi sono fatto anticipare il regalo dai miei di qualche giorno e sono corso sul lungomare nel nuovo negozio di dischi a comprare "Pump up the valuum", giusto poche ore prima del mio primo concerto dal vivo dei NOFX al Decunstruction tour (che giorni meravigliosi erano quelli!). L'album non è niente male, la formula magari comincia un po' a stancare, ma i testi di Mike migliorano e i pezzi belli non mancano. Anzi ricordo che all'epoca mi piacevano praticamente tutte le canzoni e me le cantavo giorno dopo giorno in cameretta. Di ska non ce n'è praticamente più (anzi all'epoca i NOFX suonavano dal vivo un pezzo che si intitolava "We don't play ska anymore"). Ma la chiusa è un brano memorabile e folle come "Theme for a NOFX album": una specie di incrocio fra una polka e un pezzo tradizionale irlandese (che poi però accelera alla fine) in cui viene presentato ciascun componente della band.

WAR ON ERRORISM - Passa qualche anno, è il 2003, sono all'università ed esce il nuovo disco dei NOFX. Lo compro da Felipe Records e, come avevo letto su Internet e in qualche rivista nei mesi precedenti, l'album è fortemente schierato politicamente contro la rielezione di Bush a presidente degli Stati Uniti (in copertina il caro W è ritratto come un clown). Ancora una volta il mio giudizio a caldo è positivo: i pezzi mi piacciono (sono sempre i NOFX, belin) e l'esplicita scelta di campo (che proseguirà con punkvoter, le compilation "Rock against Bush" e tante altre iniziative) vale decisamente un punto in più. Oggi però, risentendo "War on errorism", al di là dell'immutato apprezzamento politico, sono meno entusiasta di un tempo. Certo ci sono pezzi che ancora adesso sono tra i miei preferiti dei NOFX: su tutti la doppietta "We got two Jealous Agains" e "13 stitches" che canto regolarmente sotto la doccia e che mi hanno fatto scoprire una marea di band e di dischi hc che non conoscevo (le due canzoni sono una sorta di bignami del punk). Però secondo me, in questo album, Mike e soci hanno iniziato ad accusare un po' di stanchezza.

WOLVES IN WOLVES' CLOTHING - Siamo nel 2006 e il mio rapporto coi NOFX è un po' meno solido. Addirittura l'album lo compro su ebay a qualche giorno dalla sua uscita, evitando il solito stalkeraggio ai danni del negoziante di dischi di turno. Eppure "Wolves in wolves' clothing" è un gran disco. Molto meglio del suo predecessore, ma forse va anche oltre "Pump up the valuum". I testi sono sempre più lunghi, corposi e ben scritti, ma anche le melodie fiche non mancano. Probabilmente siamo di fronte al disco più sottovalutato dei NOFX e Mike lo ricorda spesso nelle interviste. Non lo dico perché anch'io all'epoca l'abbia un po' snobbato, ma perché tutti, forse, in quel 2006, avevamo delle cose più interessanti da fare che appassionarci all'ennesimo disco (bello) dei nostri beniamini. "The Marxist brothers", titolo e testo geniali, è una presa per i fondalli degli ex amici (poi faranno la pace, he) Propagandhi, che avevano polemizzato con Fat Mike per "Rock against Bush" e poi lo avevano perculato in un pezzo del loro ultimo album, dicendogli in sostanza che se il punk era diventato così innocuo (domanda che lo stesso Mike si poneva nel primo brano di "War on errorism") la colpa era anche sua. Comunque: belle canzoni e bei testi, in questo disco. Non sottovalutatelo, mi raccomando.

COASTER  - Ci vogliono quasi tre anni (2009) per fare uscire "Coaster", anche se in mezzo ci sono i soliti singoli e progetti folli della band. Il disco, per una volta, è davvero una mezza delusione. Intendiamoci i pezzi non sono da buttare, ma dopo 25 anni i NOFX cominciano a usare un po' di mestiere. L'ho risentito recentemente e come tutti gli album della band post '92 suona bene: è compatto e melodico. Ma le canzoni sono un po' anonime (a parte rare eccezioni come "My orphan year"). I NOFX sono punk di mezza età, che hanno fatto i soldi (e non c'è niente di male in tutto questo). Però è chiaro che la benzina non può durare per sempre e in qualsiasi condizione. Detto questo meglio "Coaster" di "Liberl animation" e "S&M airilines" (dai, scherzo, su!).

SELF ENTITLED - Oltre al titolo geniale, quest'album del 2012, a mio modesto parere, rappresenta la vera resurrezione dei NOFX. Mike ha appena divorziato e se ne esce fuori con un disco difficile proprio perché nasce da una situazione di grande sofferenza. Anche il suo rapporto con le droghe, da qualche anno a questa parte, è diventato molto più intenso, e il risultato di questa miscela esplosiva è un album cupo, ma molto bello e granitico. C'è la solita satira senza compromessi ("72 Hookers"), ma ci sono anche pezzi che parlano senza remore dei suoi casini coniugali ("I've got one Jealouse Again, again" riaggiorna la precedente dichiarazione d'amore alla moglie diventata adesso ex). Ma "Sel Entitled" è un album che va ascoltato tutto insieme, senza prendere i pezzi qua e là. I brani sono ruvidi e veloci. Non ce n'è per nessuno.

FIRST DITCH EFFORT - Dopo un disco bello ma sofferto come il precedente il futuro dei NOFX (di questi NOFX) appariva piuttosto fosco: sciogliersi, pubblicare un album orrendo (tipo quello dei Green Day), piangere la morte prematura di Fat Mike (lanciato a mille nella sua esplorazione a tutto tondo delle sostanze più disparate). Erano queste, più o meno, le opzioni sul tavolo che i fan della band stavano vagliando. E invece questi vecchi punkettoni ciquantenni se ne sono usciti fuori, nel 2016 e quindi quasi quattro anni dopo "Self entitled", con un'altra bomba. Tredici pezzi stupendi, marci, sporchi, sinceri, addirittura cattivi (come nei pochi secondi di "Happy father's day" in cui Mike insulta il padre morto qualche anno prima): un vortice di hc melodico (moooolto melodico) in cui le canzoni restano il perno fondamentale. Perché sembra banale dirlo, ma i pezzi sono belli e ben scritti, tanto che "First ditch effort" appare, sin dal primo ascolto, come uno dei lavori migliori in assoluto sfornato dai NOFX, anche se è stato registrato in un momento piuttosto complesso per la band. Che bellezza: ho finito questo lunghissimo post inutile.