mercoledì 19 giugno 2019

Un po' di recensioni a babbo 13 Parte 1/Frittura globale totale

Vista la mole di materiale che mi è arrivato nella cassetta della posta (siete matti? Vi voglio bene, sappiatelo) e la mia cronica lentezze quella che segue è la prima parte di una serie recensioni 'a babbo' che leggerete in questi giorni. A breve arriva il secondo lato. 


The Twerks - (No) opinions
Vado pazzo per le cassette. Sono piccole, brutte e scomode, ma se parliamo di suono caldo e punk non hanno decisamente rivali. Un formato pessimo se vi piacciono i Pink Floyd, ma particolarmente azzeccato se dovete ascoltare una band ruvida come i milanesi Twerks. L'ep,  che rappresenta una sorta di ripartenza per il gruppo dopo un periodo di pausa, esce per Rocketman Records, si intitola "(No) opinions" e contiene tre pezzi per lato che La Contessa, Ale e Taffy cantano e suonano insieme a un po' di vecchi amici della scena lombarda. 
Anche se il filo conduttore dell'intero nastro resta il "punk", bisogna ammettere che in questi sei brani i Twerks dimostrano di avere un certo gusto eterogeneo per i cari vecchi tre accordi e spaziano dal classico garage sferragliante al punk-rock venato di melodia, che faceva sfracelli negli anni Novanta. "Neighbourhood", per esempio, il brano che apre il lato A, ha decisamente un piglio garage rock piuttosto sfacciato e di marca "scandinava". "Animal", il secondo pezzo in scaletta, continua sul sentiero del rock'n'roll suonato a tutta velocità e urlato squarciagola, mentre "Burkini", che chiude questa prima parte dell'ep, è una scheggia di musica selvaggia e maleducata (ma comunque in linea con i due brani precedenti).
Con il lato b - che è decisamente il mio preferito e lo dico senza malizia e doppi sensi - le carte in tavola cambiano. Il sound dei Twerks si fa più melodico, senza per questo perdere in irruenza. La partenza è affidata alla vorticosa "Work from home", con una strofa appiccicosa sorretta da ottimi coretti e cantata a rotta di collo. "Reason" parte un po' più lenta e si poggia su un riff di chitarra circolare e ipnotico, pronto ad esplodere, mentre "Opinion" - che conclude il disco ed è forse il mio brano preferito insieme a "Work from home" - è costruita su un riff da perdere la testa ed è un concentrato di furia pop-punk davvero irresistibile. Che dire? I Twerks, a dispetto delle tante sfumature, sembrano una band solida che si diverte a suonare ciò che gli pare, senza starsela a menare con troppe sovrastrutture. Che il Dio del punk ce li conservi (e che qualche giovane ardimentoso li porti a Genova a suonare, belin!).

AAVV - Fuck California Dreaming III
I pacchi della Buba Records di Luca Tanzini sono sempre una festa per chi, come me, ama alla follia l'etica e l'estetica Do it yourself. Cdr scritti a pennarello e infilati dentro buste trasparenti piene zeppe di adesivi, foglietti, disegni, messaggi scritti a penna e scarabocchi. Un mondo di carta e plastica ricco di sorprese e regali inaspettati, così come questo terzo e purtroppo ultimo volume di "Fuck California Dreaming", una serie di compilation messe insieme da Luca spulciando su Internet e intessendo contatti con la peggio feccia del punk, garage e blues dell'assolata costa ovest americana. Piccole canaglie decise e mettere a ferro e fuoco il vostro stereo con canzoni fulminanti da due o tre minuti, puro godimento per le orecchie, ma anche probabile fonte di lite condominiale con il vostro amato dirimpettaio. Solo per fare un esempio della lungimiranza di Luca, nel primo volume della serie, che posseggo fieramente in cassetta, figurava persino un allora misconosciuto Ty Segall. Ma se già vi state chiedendo quale delle tredici band (per 26 canzoni, due per ciascuna) presenti nella terza compilation sfonderà da qui ai prossimi anni: mettetevi pure l'anima in pace, molti dei gruppi in scaletta potrebbero essere già stati divorati dal tempo, dalle droghe, dalla vita regolare o, peggio ancora, magari sono finiti a suonare jazz o fusion. Già perché il disco in questione, pubblicato dalla Bubca ad aprile, raccoglie materiale che risale al 2011 e che solo per una serie infinita di casini - i soliti traslochi e le care vecchie menate che rendono il diy così eccitante - non è stato dato alle stampe otto anni fa. Questo piccolo particolare, raccontato nelle solite splendide note di Luca, non inficia assolutamente la bellezza e l'importanza di questo disco. Una sorta di Killed by Death al quadrato, con gruppi bollenti e malauguratamente pop (anzi speed-pop) come gli appiccicosissimi e torrenziali Cum Stain ("Smoker" e "Suckher 4 you" sono due perle incredibili e loro sono decisamente i miei preferiti) o studelinquenti annoiati come i Dirt Dress, con le loro cantilene indolenti, miste a una psichedelia d'accatto e ridotta all'osso ("Go to sleep"). L'inizio della compilation è quasi un omaggio al blues sporco e ferroso dei Birthday Party: gli Alpha Males En Parade sono delle bestie difficili da classificare, visto che partono con un pezzo lungo più di 5 minuti e ricco di suoni deviati, per poi sfociare in un secondo brano di rock puzzolente e sporco. Ecco, la sporcizia e la bassa fedeltà, come d'abitudine, sono due vere e proprie stelle polari per i gruppi che affollano "Fuck California Dreaming" e, d'altra parte, non poteva essere altrimenti per un disco che porta fieramente il marchio della Bubca Records. Tra gli esempi lampanti di questa filosofia sonica spiccano senza dubbio gli Okies Dokies con i loro punk velenoso e strisciante e i TRMRS, autori di noise rudimentale e al limite dalla cacofonia, che fa il paio con il loro nome insensato e impronunciabile. Ma è davvero un'impresa citare tutte le band in scaletta, così ecco ancora due o tre dritte per voi golosoni: i Bird Strike, che sembrano quasi una versione americana di Ta_bularasa, i Some Days con il loro country-punk lofi da veri campagnoli con la zappa e l'aratro e i Pipsqueak, che mescolano melodie zuccherose, garage e motivetti pop come solo i veri perdenti sono in grado di fare. Che dire? Uno dei dischi dell'estate. Sentitevelo a scrocco su bandcamp, ma poi ordinatelo a Luca, che costa poco e fa godere molto.

Duodenum - Senza Catene
Più che un disco, "Senza catene" dei Duodenum è il Santo Graal della musica merdosa, nel senso migliore del termine (avete presente Merda zine? Molto male, merdacce che non siete altro, andate a procurarvela e poi tornate qui!). Dicevo, questo album targato Bubca Records è un disco davvero particolare perché documenta, con dovizia di urla belluine e chitarre gracchianti, la rocambolesca esibizione dei nostri eroi al Dalverme di Roma il 10 febbraio del 2012. Non so se questa data vi dica qualcosa, in caso contrario vi verrò in soccorso io (e due...): parliamo della "mitica" nevicata che paralizzò per più di due giorni la Capitale e che, come da tradizione, scatenò polemiche a non finire su tv e giornali. Vi ricordate Alemanno con la pala che faceva finta di spalare la neve? Esatto, parliamo proprio di quel giorno lì. Con tanto di coprifuoco imposto dal sindaco, che vietò tutti (o quasi) gli spettacoli e gli eventi previsti in città. Dico quasi perché il Dalverme e i Duodenum se ne fotterono altamente delle ordinanze comunali e confermarono ugualmente il concerto, anche se uno dei due componenti della band, il mitico Number 71, si era appena messo in viaggio da Napoli, senza essere minimamente preparato ad affrontare la neve (nel foglietto allegato al cd trovate tutti i particolari). Questo live quindi è prima di tutto una testimonianza preziosa e oziosa di una concerto unico e irripetibile, suonato davanti a sette indomiti spettatori, che hanno sfidato le intemperie per vedere i nostri eroi all'opera. Vorrei dirvi che tra quei sette fortunelli ero presente anch'io. Ma purtroppo non solo non è così, ma facendo due o tre calcoli mentali ho scoperto - con sgomento - che quella sera pure io mi trovavo a Roma, ma nella mia infinita ignoranza non sapevo nulla del Dalverme e dei Duodenum. La mi ragazza (oggi mia moglie) mi aveva spedito in areo a trovare il mio amico Alessandro, che viveva e vive tuttora nella Capitale. Ma mentre stavamo per atterrare a Fiumicino l'aereo ha iniziato a girare su se stesso (e io a morire di infarto) perché a causa del maltempo non lo facevano atterrare. A quel punto il pilota ha fatto rotta verso Ciampino dove ci hanno fatto scendere in mezzo al nulla e a 80 centimetri di neve. Ho preso al volo l'unica corriera disponibile (una vera botta di culo) e di riffa o di raffa sono riuscito ad arrivare alla stazione Termine, immersa in un clima surreale: neve ovunque, gente in coda in attesa di taxi che non passavano e un silenzio spettrale. Quando sono arrivato - saranno state le undici di sera - ho chiamato Ale con il cellulare e solo seguendo le sue indicazioni sono riuscito a trovare casa sua. Quando ci siamo visti da lontano, con i fiocchi di neve che cadevano e la città vuota, bianca e immobile, mi sono sentito come il protagonista sfigato di un film di Pasolini. Tornassi indietro convincere Ale a portarmi, anche con una slitta, al Dalverme a sentire i Duodenum. Perché quello, cari miei, è stato uno dei concerti del secolo e le 5 luridissime tracce impresse in questo cdr di puro rumore sonico e disgraziato sono una testimonianza imprescindibile di quella serata magica. 

The Mads - Turn me up
Se seguite questo scalcinato blog avrete già sentito il nome dei Mads, la prima mod band italiana - si sono formati nel 1979 - che, dopo qualche decennio di silenzio, ha deciso di tornare nuovamente in pista, con tanto di album, singoli e concerti. A seguire i Mads passo passo in questa seconda giovinezza sono i ragazzi di Area Pirata che, in queste settimane, hanno dato alle stampe un 45 giri nuovo di pacca intitolato "Turn me up". Un singolo che non tradisce le aspettative, grazie a una miscela di power-pop e mod revival che pochi (anzi oserei dire nessuno) sa fare così bene in Italia. La title-track è già un piccolo classico di rock souleggiante: un pezzo che ti si stampa subito in testa e non ti molla più, grazie a un ritornello azzeccato e un arrangiamento curato nei minimi particolari. Ottimo anche il lato B: una cover vibrante e perfetta di "Strange town" di Paul Weller, tanto per chiarire quali siano le radici della band. Nella versione in cd c'è anche una terza traccia, la versione strumentale di "Turn me up". Suoni eleganti, ritmo contagiosa e una continua conferma: più passano gli anni, più i Mads diventano i re incontrastati del mod revival italiano.

Los Infartos - El narco ritmo
Non ho la più pallida idea di chi siano i Los Infartos, ma dai nomi dei componenti stampati sul retro di copertina direi che non si tratta di una band spagnola (come suggerirebbero invece il moniker e il titolo di questo singolo). Ciò che mi interessa, comunque, è quello che questi quattro brutti ceffi suonano: un vigoroso garage-beat alla vecchia, con fuzz a profusione. Suoni martellanti, voce che gracchia come un uccellaccio del malaugurio e quattro pezzi da infarto (appunto). Il singolo, due canzoni per lato, porta il marchio di Area Pirata e oltre ai rimandi anni Sessanta - quelli americani e più sfrenati, insomma quelli che piacciono a me - ha un'innegabile attitudine punk (ascoltatevi "Karrate Bilbao" e poi mi dite). Ma al di là delle solite chiacchiere il consiglio che mi sento di darvi è: mollate subito questa recensione e procuratevi al più presto questo 45 giri da sturbo.




giovedì 6 giugno 2019

Affinità e divergenze fra il compagno Marshall e noi - Recensione non richiesta di "Spirit of '69", la Bibbia skinhead.

Non sono mai stato skinhead, per il semplice fatto che sin da ragazzino - cioè da quando ho cominciato a bazzicare la scena underground genovese e ad ascoltare musica punk - mi è sempre sembrata una sottocultura troppo vicina all'idea di "branco" (nel senso più nobile del termine). Quando guardavo gli skin, compresi molti miei amici, vedevo - e vedo ancora adesso - un gruppo coeso di persone con gli stessi gusti e gli stessi valori: gente con molte affinità, che riesce a stare insieme non solo ai concerti, ma anche al pub, alla partita o il sabato pomeriggio a cazzeggiare in giro per la città.

Io, invece, la logica del branco l'ho sempre rifiutata. Forse perché, fondamentalmente, resto un tipo solitario, un cane sciolto e soprattutto un inguaribile bastian contrario, che appena capisce di trovarsi in sintonia con qualcuno inizia ad agitarsi e a cercare, a tutti i costi, un modo qualunque per distinguersi. Che ci volete fare, è più forte di me.

Per tutte queste ragioni - ma anche per molte altre - mi sono accostato con curiosità e un pizzico di distacco alla lettura di "Spirit of '69", la Bibbia skinhead, come viene comunemente definito lo storico libro di George Marshall, pubblicato per la prima volta in Italia da Hellnation, con la traduzione di Flavio Frezza. Chiarisco subito che quello di cui mi accingo a parlare è un testo fondamentale per capire fino in fondo questa sottocultura ed è pazzesco che, fino a poche settimane fa, non fosse mai uscita una sua traduzione italiana (quindi un grande plauso va a Robertò di Hellnation e a Flavio che hanno coperto quest'enorme lacuna).
Detto questo, leggere da "non-skinhead" - ma comunque da simpatizzante - la Bibbia di Marshall è senza dubbio un'esperienza interessante e stimolante, per vari motivi. Prima di tutto perché consente di capire, in modo semplice e chiaro, le evoluzioni storiche di questa sottocultura, visto che Marshall ha deciso di impostare il suo racconto in forma cronologica, partendo dai primi vagiti della seconda metà degli anni Sessanta e arrivando sino ai primi Novanta (quando il libro è uscito ed è stato poi aggiornato, 1991 e 1994). E poi si tratta di un volume scritto senza alcun ammiccamento nei confronti del lettore. E questo contribuisce a mettere in moto il pensiero critico di chi sta dall'altra parte della pagina.
Un altro aspetto interessante di questo volume è il titolo, che mette già in chiaro quale sia la chiave di lettura utilizzata da Marshall per descrivere questa sottocultura: l'autore applica un giudizio qualitativo (e non quantitativo) all'analisi del movimento skinhead, visto che uno dei fili conduttori del volume è la "nostalgia" per gli esordi di fine anni Sessanta (lo spirito del 1969, appunto), rispetto alla seconda fase legata al punk-oi!, che però coincide anche con la sua massima diffusione (anche fuori dai confini inglesi). Naturalmente - visto anche il periodo in cui è stato scritto il libro e cioè i primi '90 - a tenere banco, in molti casi, è la classica diatriba skinhead-politica e Marshall si dilunga spesso sul tentativo dell'estrema destra di inglobare frange più o meno consistenti di questa sottocultura. Una questione (anzi La Questione, a mio avviso) rispetto alla quale non sempre mi trovo d'accordo con l'autore; soprattutto non condivido il suo atteggiamento di fondo, visto che, in alcuni passi, sembra quasi mettere sullo stesso piano gli skin di sinistra e quelli legati al Fronte Nazionale, in nome della stella polare dell'apoliticità. Come dire: "rossi e neri sono tutti uguali", visto che - provo a interpretare il pensiero del vecchio George - il vero cancro della sottocultura è proprio la politica, indipendentemente dallo "schieramento" che si sceglie.
Certo, si tratta di una posizione legittima, anche perché un conto sono i vestiti che porti e la musica che ascolti, un altro è cosa voti nella cabina elettorale. Io però ho sempre pensato che il personale sia politico (e qui forse Marshall mi avrebbe dato dello sporco hippie) e molto banalmente credo ci sia ancora una grossa differenza tra stare dalla parte di razzisti e fascisti e schierarsi con antirazzisti e antifascisti (o più semplicemente definirsi di sinistra). Oggi chi si dichiara apolitico, spesso, è semplicemente di destra e fatica ad ammetterlo. Mentre 30 anni fa, quando Marshall ha scritto la sua Bibbia, c'erano in ballo altre cose e alcuni skinehad che si professavano apolitici provavano, in quel modo, a marcare una differenza nei confronti di chi era di estrema destra e quindi "politico". In più non possiamo non sottovalutare il diverso retroterra ideologico che si porta dietro chi abbraccia una qualsiasi sottocultura in l'Italia, rispetto a chi fa la stessa scelta in un Paese anglosassone, dove l'approccio è sempre stato meno politico (basta ensare a cosa accadeva qui da noi negli anni Settanta e confrontarlo con ciò che avveniva in Inghilterra nello stesso periodo. Vi dicono niente le Brigate Rosse, il terrorismo nero, le trame di Stato ecc?). Insomma il solito casino, quando si parla di sottocultura skinhead e politica (a tal proposito, molte risposte interessanti e condivisibili, si trovano nel libro di Flavio Frezza "Italia skins").

Il libro, comunque, non parla solo di questi argomenti scottanti e delicati. Ma dedica molte pagine anche all'abbigliamento (forse quelle che ho trovato più noiose) e alla musica (le mie preferite). Si parla di raggae, ska, punk e oi!, della storia di alcune band cardine e soprattutto si leggono testimonianze di prima mano, visto che Marshall ha vissuto direttamente e sulla propria pelle la seconda ondata skinhead inglese, quella esplosa insieme al punk. "Spirit of '69" racconta di concerti memorabili a cui l'autore ha partecipato e descrive le band con le quali l'autore è entrato in contatto direttamente. E anche se oggi l'ossatura - ma non il succo - di queste informazioni è patrimonio di tutti grazie a Internet, trent'anni fa, quando è uscito "Spirit of '69", era difficile mettere in ordine tutto quel materiale infiammabile.

In definitiva credo che ogni skinhead che si rispetti non possa fare a meno di leggere questo libro (tra l'altro ben scritto, tradotto ottimamente e corredato da una fitta serie di note). Ma visto che do per scontato che qualsiasi testa resata abbia già messo le mani su questo volume (chi non l'ha fatto provveda subito), consiglio la lettura della Bibbia di Marshall soprattutto a chi, come me, non ha mai abbracciato questa sottocultura. Conoscere, anche con un occhio esterno, la nascita e l'evoluzione di un movimento sociale e culturale di tale portata è fondamentale e obbligatorio, non solo per chi non ama il mainstream, ma anche per chi vuole ampliare i propri orizzonti e ha ancora voglia di imparare qualcosa.