sabato 22 dicembre 2012

10 anni senza Joe

Quando è morto Joe Strummer avevo 20 anni. E adesso ne ho 30. Joe è sempre stato il mio eroe. E anche se il punk ci ha sempre insegnato che non bisogna averne, di eroi, lui - cazzo - lo era. Lo è stato sin dall'inizio, da quando a 14 anni ho scoperto la musica dei Clash prima sulle pagine di un libro, "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", e poi nella canzoni di una cassetta ("The singles") che mi ero regalato in quarta ginnasio per il primo bel voto di greco (dopo è stato un disastro, fino a ottobre però promettevo bene).
Mi ricordo ancora come ho saputo la notizia della morte di Joe il 22 dicembre di dieci anni fa, anzi era il 23. Perché qui da noi si è saputo solo il giorno dopo cosa fosse successo. Internet non era ancora il mezzo di comunicazione globale che è oggi. C'era ancora un piccolo filtro per i profani. E così, mentre ero in camera a cazzeggiare in attesa della cena pre-natalizia organizzata sopra l'agenzia di viaggi di Fabio, mi arriva un messaggio sul cellulare: è Marco, un mio compagno di università. Nel sms c'è scritto "soltanto": è morto Joe Strummer. E nient'altro.
Ho faticato parecchio a decifrare quelle quattro parole in croce. E mi sono subito precipitato ad accendere la tv per controllare sul televideo (sembra davvero passato un secolo). Fra le "ultim'ora" messe in fila sullo schermo luminoso e spartano del servizio d'informazione Rai spiccava, tra un pezzo di cronaca e un'agenzia politica, la notizia che stavo cercando ma non avrei mai voluto leggere: è morto Jo Strummer, cantante dei Clash. Inutile dire che è stato un bruttissimo colpo. Perché se pensi che un amico ti possa fare uno scherzo di cattivo gusto, quando leggi una cosa del genere su organo di informazioni, sai che che purtroppo è tutto vero. Chi darebbe mai una notizia falsa su Joe Strummer? Ma soprattutto: chi se lo cagava, all'epoca, Joe Strummer fuori dal giro punk? Ormai il mio eroe era un simbolo per pochissime persone: un totem del tempo che fu, un cinquantenne che era tornato a fare musica senza troppi clamori e con un successo inferiore a ciò che avrebbe meritato. Negli anni Novanta, quando l'ho conosciuto per la prima volta con quella mitica cassettina, Joe, ma anche i Clash, erano roba per carbonari. Sì, qualche adulto si ricordava vagamente di loro, ma i miei amici quindicenni manco sapevano cosa fosse il punk. Per me Joe è sempre stato un piccolo grande eroe per pochi eletti. E solo dopo la morte, come accade spesso, la sua fama è ritornata quella degli anni belli di fine Settanta inizio Ottanta.
Comunque: quando ho capito che Marco, nel suo messaggio semplice e glaciale, non stava scherzando la prima reazione è stata quella di mettermi a piangere. Non lo facevo da anni. E mia madre, quando mi ha visto così malpreso si è persino spaventata. Poi mi sono chiuso nella mia cameretta e ho infilato "London calling" nello stereo. Sono andato alla cena di Natale che ero un straccio. Ho portato una cassetta dei Clash e mi sono ubriacato con i miei amici, anche se per loro Joe era un cantante come tanti e non è che gliene fregasse molto.
Io invece coi Clash ho passato alcuni dei momenti più belle della mia vita. Mi ricordo praticamente tutto dei miei incontri con la loro musica. Il disco omonimo, per esempio, che in cd si trovava in due versioni, quella americana  - con dentro anche alcuni singoli - e quella inglese. L'ho comprato alla Fiera del disco per 15 mila lire e adesso ce l'ho anche in vinile. "Giv'em enough rope" l'avevo preso invece da New Deal, il negozietto di Sestri che per qualche mese fece sconti pazzi e che poi chiuse all'improvviso portandosi dietro centinaia si caparre di ordini mai fatti. "London Calling" invece è arrivato una calda estate di 15 anni fa, dopo aver distribuito volantini per il Festival d'Irlanda. Mentre "Sandinista!" è stato un bellissimo regalo di Natale, anche se all'epoca c'avevo messo un po' a capirlo e ad amarlo. "Combat rock" l'avevo preso nuovamente da New Deal, prima ancora di "London calling" e ricordo che all'inizio sentivo solo "Should I stay o should I go". Poi ho comprato anche "Cut the crup", usato al Libraccio, perché anche se tutti dicevano che era brutto, volevo avere la discografia completa. E quando su "Musica" di Repubblica ho visto che Joe sarebbe tornato con una nuova band, i Mescaleros, e avrebbe fatto tappa in Italia ho messo a perdere i miei per andare al concerto. Avevo 17 anni, era l'inizio di settembre del 1999. Sono andato all'Indepedent Day Festival con due amici e i loro genitori. Pioveva e all'arena Parco Nord si era formato uno strato di fango appiccicoso. Quando Joe è salito sul palco mi sono messo a ridere dalla gioia. E non appena, sotto la pioggia, ha intonato "London calling" ho iniziato subito a cantare nel mio inglese stentato, facendo attenzione a beccare le uniche parole che conoscevo. Ancora oggi quello resta il concerto più bella della mia vita e uno di quei momenti che ricorderò per sempre.
Forse aver bisogno di eroi è sbagliato. E sono stati proprio i Clash a insegnarmelo. Ma per me Joe resterà sempre una figura mitica. Non un amico più grande da voler emulare. No, lui è il mio eroe. L'unico e ultimo della mia vita del cazzo.

domenica 9 dicembre 2012

Dischi 2012

Ed ecco la solita manfrina che piace tanto ai giovani (e pure a me): la classifica dei dischi dell'anno in ordine sparso.

1) GREEN DAY "Uno", "Dos", "Tre"
2) NOFX "Self entitled"
3) TY SEGALL "Twins"
4) OFF "Off"
5) DIAFRAMMA "Niente di serio"
6) I FENOMENI "Un vuoto appeso - Memorie della vita di G.L."
7) TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI "Nel giardino dei fantasmi"
8) TUNAS "Tunas"
9) HEROIN IN TAHITI "Death surf"
10) EDDA "Odio i vivi"

giovedì 6 dicembre 2012

Ricomincio da tre (album) - Green Day vi voglio bene

Forse dovrei aspettare l'uscita ufficiale di "Tre", il terzo album della trilogia dei Green Day, per parlare di questa nuova follia di Bollie Joe e compagni. Ma visto che ieri notte, grazie al solito Youtube, mi sono sentito anche l'ultimo capitolo in streaming, credo sia arrivato il momento per scrivere due o tre cazzate su questi tre dischi.
Allora: parlare dei Green Day con obiettività non è mai stato il mio forte. E devo ammettere che qualche volta sono stato eccessivamente partigiano nei loro confronti. Certo, poi il tempo mi ha dato - personalmente - ragione, ma la questione è sempre rimasta all'interno di un discorso alquanto soggettivo. Tanto per fare un esempio, anch'io come molte persone, dodici anni fa, ero rimasto spiazzato da "Warning". Perché insomma dopo "Nimrod", che secondo i miei canoni conteneva già una buona dose di "tradimenti", quel nuovo album sembrava una robetta buttata lì per doveri di contratto. Poi invece ho imparato ad amarlo e oggi  ritengo che sia "Warning" che "Nimrod", a parte "King for a day" che trovo orrenda e demenziale, siano due ottimi dischi. Su "American idiot" nulla da dire: appena è uscito mi è sembrato uno degli album più belli incisi negli ultimi dieci anni (dal '94 al 2004 s'intende). Mentre "20st century breakdown" fatico ancora a digerirlo completamente (anche se contiene almeno un pezzo importante - per me - e un altro di altissimo livello). In poche parole, da quando i Green Day hanno abbandonato il classico suono punk-rock - il dopo "Insomniac" tanto per capirci - ho avuto molti conflitti con i loro nuovi dischi. Ogni volta, però, sono riuscito a ricredermi e ad abbandonare quasi tutte le mie perplessità.
Ma torniamo alla trilogia. Aspettavo questi tre album con una certa ansia e il fatto che i Green Day, all'ultimo momento, avessero annullato il concerto di Bologna aveva alimentato ulteriormente i miei dubbi sul loro futuro. Poi è uscito "Uno" e mi sono subito fiondato da Disco Club e l'ho comprato. Quando sono arrivato a casa e l'ho fatto girare nello stereo il primo pensiero che ho avuto è stato: ok, poteva andare peggio. Lo so che è una cazzata, ma quando ami una band e sai che gioca sul filo del rasoio fra la classifica e le sue radici underground che te l'hanno fatta amare, temi sempre che ti possa deludere. O, ancora peggio, hai paura di non voler ammettere che abbia inciso un album di merda. "Uno" invece, a dispetto di alcune recensioni piuttosto negative, si è rivelato un bel disco. E se fosse stato l'unico cd partorito dai Green Day quest'anno sarei stato persino contento. La cosa più importante, secondo me, era affrancarsi dal formato concept che ormai aveva esaurito la sua carica di novità e freschezza (parlo sempre in termini di punk-rock e pop). E i Green Day questa volta ci sono riusciti. Di pezzi brutti, su "Uno" non ce ne sono molti. L'unico davvero schifoso è "Kill the dj". Ma quando si fa prima ad elencare le ciofeche rispetto alle canzoni interessanti si è già sulla buona strada.
Un mese dopo è stata la volta di "Dos". Prima che uscisse però sono riuscito a sentirlo in streaming su Youtube e l'impressione iniziale è stata terrificante. Quando poi sono riuscito a metterci le mani sopra (Gian sia lodato!) ho cambiato radicalmente idea. Anche in questo caso, però, almeno una canzone di merda, i nostri ce l'hanno infilata. "Nightlife", infatti, col suo finto rap rock, è il peggio del peggio e sembra quasi uno scherzo di cattivo gusto. A parte questa schifezza il resto del disco viaggia su buoni livelli, con punte altissime e qualche riempitivo di lusso. Insomma se "Uno" si merita un 7, a "Dos" si potrebbe dare persino 7,5. Ma comunque i due album si equivalgono. Certo, secondo le intenzioni dei nostri, il primo disco sarebbe quello più pop-punk mentre il secondo avrebbe un tiro più garage. Ma, a dirla tutta, né l'una né l'altra definizione sembrano descrivere al meglio i due lavori. Diciamo che nel primi si guarda più alla melodia e nel secondo ci sono più chitarre ruggenti. Ma siamo sempre nella solita formula di punk-rock misto a power-pop dei Green Day, poche palle.
Detto dei primi due cd, eccoci finalmente arrivati a "Tre", anche se qui il giudizio resta a metà, visto che l'ho potuto ascoltare solo su Youtube. La prima impressione però, salvo rettifiche, resta tutto sommato buona. Magari questo terzo capitolo è leggermente inferiore agli altri due soprattutto dal punto di vista "rock", ma si lascia comunque ascoltare piuttosto bene. E se è vero che, rispetto ai suoi due predecessori,"Tre" è quello più vicino alle ultime cose scritte dei Green Day, con tanto pianoforte e molte canzoni lunghe e "articolate", bisogna anche ammettere che non mancano alcuni pezzi più veloci e divertenti. A differenza di "Uno" e "Dos", poi, in quest'ultimo capitolo non c'è il pezzo "cesso" e anche se alcune canzoni sono meno belle di altre, tutte quante, comunque, conservano una certa dignità. Forse è l'insieme che non colpisce più di tanto. Se dovessimo usare il solito metro numerico, "Tre" si beccherebbe un bel 6/7.
Insomma volendo fare i matematici fino in fondo, la media di questa trilogia dei Green Day, secondo il mio opinabile parare, è 7 pieno. E anche se sono d'accordo che se da questi tre album ne avessero tirato fuori uno solo da 15 pezzi ci sarebbe scappato un mezzo capolavoro: alla fine, forse, è stato giusto così. Lo stesso discorso, 30 anni fa, qualcuno lo fece per "Sandinista!" dei Clash. Con tutto il rispetto per i Green Day, però, il paragone con quel progetto è decisamente blasfemo.
Visto che vi ho annoiato fin qui, continuerò a farlo ancora per qualche riga, scrivendo quello, che secondo me, sarebbe potuto essere il "disco perfetto" fondendo il meglio di "Uno", "Dos" e "Tre". I pezzi sono in ordine sparso:

Nuclear family
Fell for you
Oh love
Loss of control
Angel blue
Stray heart
Makeout party
Ashley
Lazy bones
Baby eyes
Lady cobra
Missing you
X-Kid
99 Revolution