martedì 29 settembre 2015

New York Dolls

Aver passato una vita (o forse sarebbe meglio dire gli ultimi 25 anni) ad accumulare cose - fumetti, dischi e libri - ha i suoi bei vantaggi. Perché quando sei costretto a darti una sana regolata e non puoi più comprarti tutto quello che ti passa per la testa, puoi sempre attingere alle scorte fatte nei momenti di vacche grasse. Così ti metti a riascoltare album perduti e dimenticati da tempo sullo scaffale oppure, finalmente, ti decidi a leggere quel libro che avevi comprato tanto tempo fa e che poi, per un motivo o per l'altro, avevi lasciato a prendere polvere sul comodino. Oggi per esempio, mentre stappavo una birra ghiacciata presa in offerta al supermercato, ho rimesso nello stereo, dopo almeno un paio d'anni d'assenza, il primo disco dei New York Dolls. O delle New York Dolls, che dir si voglia (perché la parola bambola è femminile e perché Thunders e soci, con le ambiguità sessuali, ci giocavano parecchio). Ora; lo so che scopro l'acqua calda, anche perché parliamo di un vero e proprio caposaldo del glam rock americano, ma anche di uno dei dischi proto-punk più importanti e belli di tutti i tempi. Però è anche vero che, pur essendo entrato nella leggenda, questo album resta ancora un oggetto misterioso per tanti giovani punk alle prime armi. E' più facile arrivare ai Clash, ai Sex Pistols e ai Ramones che alle New York Dolls persino oggi che, con youtube e sportify, nel bene o nel male, abbiamo tutto a portata di mano. Eppure senza questa manciata di canzoni incise nel 1973 di fronte al disinteresse generale - anche se all'epoca, in realtà, un briciolo di fama le Dolls l'assaggiarono - penso che gran parte dei cosiddetti gruppi capisaldi del punk non sarebbero neppure esistiti. Insomma mai come in questo caso possiamo scomodare il tanto abusato termine "seminale" parlando di quest'album (cosa che non si può certo dire, invece, del suo dignitoso ma non eccezionale successore "Too much too soon" del '74). Il disco parte con un pezzo incredibile come "Personality crisis", una canzone che ho sentito per la prima volta quando avevo ancora 11 o 12 grazie alle mitiche cassette dell'America del Rock di Repubblica. Ricordo che all'epoca, anche se non sapevo un'emerita fava di cosa fosse il punk, ero rimasto letteralmente fulminato da quel pezzo deragliante e sconclusionato, dal riffi micidiale e appiccicoso. Un vero e proprio trauma infantile, che mi porto dietro ancora oggi. Anche se, a dirla tutta, dopo quell'assaggio di musica perversa, sono passati almeno dieci anni prima che risentissi - questa volta con maggiore consapevolezza - le Dolls. Nel frattempo la band si era persino riformata nonostante i lutti e aveva anche pubblicato un nuovo disco che non ho mai voluto ascoltare. Insomma in molti si erano finalmente accorti di loro. Nonostante questo però e nonostante gli endorsement - a tempo debito - di gente come Morrisey e Michael Stipe, le Dolls non hanno mai veramente raccolto quanto hanno seminato nel corso della loro brevissima carriera. E questo, in fondo, è un classico del rock'n'roll. Tornando a quell'esordio fulminante, che oggi mandava a fuoco il mio stereo da quattro soldi, praticamente tutti i pezzi della tracklist sono dei piccoli classici. "Vietnamese baby", ""Frankenstein", "Bad girl", la cover di "Pills" di Bo Diddley  e "Subway train" (ma potrei citare tutti i pezzi, davvero) sono come grasso fumante, che cola da un bella e sugosa bistecca di maiale. Un miracolo del rock'n'roll come il primo disco dei Velvet Underground o "Fun house" degli Stooges. Anche perché è lì che, alla fine, andiamo a parare. Rock sporco e depravato, una specie di versione zombie di Elvis, suonata in preda a una crisi d'astinenza. Certo, come ho già detto non scopro nulla di nuovo. E spendere parole sul primo disco delle Dolls oggi, a più di 40 anni dalla sua uscita, è decisamente superfluo. Però qualche volta e bene ritornare da dove si è partiti e fare i conti con la storia. Soprattutto in un momento in cui gente come i Giuda - una delle mie band contemporanee preferite - recupera certe sonorità e alcune atmosfere glam e proto-punk che le Dolls hanno letteralmente inventato quando ancora in molti se la menavano col rock progressivo. Ok, lo anch'io che nel caso dei Giuda i riferimenti sono più inglesi che americani. Però in quelle canzoni ci vedo anche un po' di Thunders, Nolan, Sylvain, Kane e Johansen. Anche se 40 anni fa erano più selvagge, folli e pericolose.


lunedì 14 settembre 2015

Nova Mob

A proposito di dischi e gruppi che nessuno si caga: oggi, mentre facevo le pulizie di casa, mi sono risentito l'intera discografia dei Nova Mob e cioè i loro unici due dischi che ho comprato qualche anno fa in pieno furore Husker Du. Ma chi cacchio sono i Nova Mob, diranno i più beceri di voi? Beh, intanto vi ho già aiutato un pochino qualche riga più sopra citando IL GRUPPO più grande di tutti tempi (insieme a Clash e Ramones). Sì cazzo, sto parlando proprio degli Husker Du. E se non li conoscete potete pure portare le vostre chiappette secche fuori da questo inutile blog. (Tornate soltanto quando avrete ascoltato almeno 10 volte "Zen Arcade" e "New Day Rising").
Bene. Ora torniamo ai Nova Mob, che mentre spolveravo i mobili e lavavo i pavimenti, rimbalzavano come matti fra le casse del mio stereo portatile. Il gruppo, durato una manciata di anni - dal 1989 al 1997 - viene fondato da Grant Hart quando gli Huskers sono implosi da poco, al culmine dei loro scazzi personali. Ma prima di loro, il nostro, si diletta con un paio di dischi solisti come l'ep "2541" e l'album "Intolerance", che secondo me è un altro mezzo capolavoro dimenticato, Poi Hart, che era appena uscito da una brutta storia personale (gli avevano detto che era sieropositivo, ma si erano sbagliati...) decide che dopo la parentesi solista gli manca l'idea di avere di nuovo un gruppo con cui condividere tour e litigate memorabili. E così, mollata la batteria, si prende (finalmente) microfono e chitarra e costruisce attorno a sé i Nova Mob (negli stessi anni, guarda caso, il suo ex amico Bob Mould fa lo stesso con i fantastici Sugar). Il primo parto della nuova band di Grant Hart si chiama "Last days of Pompeii", esce nel 1991 ed è targato Rough Trade. Il disco spacca, anche se è parecchio strano e quindi in puro stile Grant Hart. Dentro c'è  un po' di tutto: dal pop-rock sofisticato alle litanie mezza dark e mezze anni sessanta, che riportano a certi episodi di "Intolerance". Sopra ogni cosa però c'è la voce dell'ex batterista degli Husker Du, fragile e disperata e capace ogni volta di farti venire la pelle d'oca. Non ci sono cazzi: Hart è dannatamente bravo a tirare fuori dal nulla delle melodie uniche e mai scontate; e non perde mai il vizio di scrivere canzonette agrodolci e sporche, che risultano sempre irresistibili e totalmente fuori da ogni canone prestabilito. Siamo agli inizi degli anni novanta, ma lui se ne sbatte altamente di ciò che va di moda in quel periodo e suona una musica senza tempo, in grado di toccare tutte le corde giuste. Il secondo e omonimo album dei Nova Mob, invece uscito tre anni dopo per Restless - purtroppo è un passo indietro rispetto all'esordio. Forse Grant si è già stancato dei suoi compagni di viaggio e della band. Forse ha qualcos'altro per la testa. Oppure, più banalmente, ha esaurito (per il momento) la sua riserva creativa. Fatto sta che la maggior parte dei pezzi del disco suona monotono e senza guizzi. Ci sono persino dei lentoni pop, che se non fossero cantanti con la sua voce superba sarebbero delle robette proto-Coldplay con dieci anni di anticipo. Detto questo "Noba Mob" resta comunque un album dignitoso, che funziona meno rispetto al suo predecessore e non è nemmeno lontanamente paragonabile agli Husker Du, ma rimane pur sempre un disco da sufficienza piena, grazie a qualche interessante intuizione (il fatto che sia uscito nel 1994, però - uno degli anni magici del rock - non lo aiuta per niente). Pensavo tutte queste cose mentre spruzzavo lo smacchiatore universale sulla tazza del mio cesso.



domenica 13 settembre 2015

Afrirampo

Sono davvero inaffidabile. Ogni volta che torno da queste parti giuro solennemente che aggiornerò questo dannatissimo blog con un minimo di continuità e invece... Vabbè non è che ogni volta mi possa mettere a scrivere la solite solfa. Quindi si riparte. O almeno ci riprovo.

Da quando non ho più uno stipendio regolare (il lavoro è andato a puttane) ho iniziato, per forza di cose, a comprare meno dischi. O comunque a stare molto più attento di prima a cosa prendo e a quanto costa. Per esempio, da qualche mese, mi sono imposto due regole auree di sopravvivenza: non comprare più robe a cazzo come facevo un tempo (come tutte le ristampe anni ottanta italiane che avessero in minimo di attinenza col punk, l'hardcore e la new wave) ed evitare come la peste (a parte rarissimi casi e momenti di opulenza improvvisa, quindi mai) tutto ciò che costi oltre i 15 euro. E dico davvero: se sull'etichetta del disco ci trovo scritto 15,50 comincio girargli alla larga (anche se poi, di notte, non riesco a dormire e mi rivolto nel letto pensando che, in fondo, qualche volta, le regole si potrebbero pure infrangere). Insomma come un novello Mario Monti mi sono imposto l'austerità discografica, che per uno come me è come finire agli alcolisti anonimi o in qualche comunità di recupero per tossicodipendenti. Il guaio però è che la scimmia di musica non mi passa. Di mettermi ad ascoltare i dischi su youtube o su bandcamp (insomma dalle casse del pc) però non ne voglio sentire manco parlare. Sono quel tipo di barbarie alla stregua del pesto senz'aglio o delle penne lisce, che mi fanno letteralmente impazzire. Così, per tamponare questo momento di malessere (è solo una mia impressione oppure in quest'ultimo periodo sono uscite decine e decine di ristampe fighe a 18 fottutissimi euro?) ho deciso di rimettermi ad ascoltare alcuni di quei dischi che, negli anni di abbondanza, ho abbandonato miseramente sullo scaffale. Robe che magari ho comprato in preda all'ansia compulsiva e che poi ho finito per ascoltare una o due volte, prima di riporle al loro posto, senza tante cerimonie. Dischi talmente dimenticati che, in certi casi, mi sembra quasi di avere a che fare con qualcosa di nuovo. Tanto per fare un esempio oggi mi sono rimesso a sentire un album che mi ero quasi dimenticato di avere e che, quando mi ricordavo delle sua esistenza, ho persino pensato di vendere. Parlo del cd omonimo delle Afrirampo, un duo giapponese di garage rumorista chiassoso e spacca budella, preso qualche anno fa da Maso. Uno di quei dischi che compri su consiglio di qualche amico che ha gusti diversi dai tuoi ma che prova comunque a capirti (sarà stato Ale Di Tizio? mah...) e che una volta messo nelle stereo ti sembra una mezza ciofeca. O almeno questo era il ricordo che avevo di questo benedetto dischetto senza titolo e dal libretto inutile (ci sono solo alcuni collage di fumetti erotici giapponesi e un po' ideogrammi sparsi). Così quando stasera l'ho infilato nel lettore cd dopo tempo immemore, sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fatto che, in fondo in fondo, ste due punk decerebrate con gli occhi a mandorla, non sono poi così male. Anzi... Certo le Afrirampo urlano come delle bestiole e ho dovuto abbassare di corsa il volume almeno un paio di volte, per evitare di svegliare Grazia o di trovarmi la polizia davanti alla porta di casa. Però insomma, tutte quelle tonnellate di chitarre grattugiate e quegli urletti da tenniste scuoiate col machete mi hanno convinto. Quindi il disco me lo tengo; non so quando lo riascolterò (è meglio farlo quando sono in casa da solo e le finestre sono chiuse a doppia mandata), ma alla fine le Afrirampo sono una band onesta, che si merita un posto sullo scaffale accanto agli Afterhours e agli Age (sì ok ho tre cd degli Afterhours, ma non li ascolto quasi masi, lo giuro). E pazienza se gli otto pezzi del cd sono un mix di schegge di puro casino da poche manciate e lunghi intermezzi di musica giapponese con gente che parla in sottofondo. Ascoltando quest'album ci si sente spiazzati e infastiditi, e già questo è importante. Le Afrirampo sembrano un po' i primissimi Sonic Youth, ma se possibile sono ancora più marce. E visto che io - citando la pessima traduzione di un gran bel libro sul punk - mi sento assai sporco e imbecille, direi che tutto quadra alla perfezione.