venerdì 15 dicembre 2017

10 dischi del 2017

Giorcelli mi ha talmente setacciato la minchia con sta storia della classifica dei dischi del 2017 che ho buttato giù, senza starci troppo a pensare una lista di 10 titoli (cercando di ricordarmi cosa sia uscito quest'anno e cosa l'anno scorso, quali dischi vecchi abbia ascoltato e quanti dischi nuovi abbia comprato). Il risultato è il solito elenco di roba ignorante, che se va bene piace solo a me.
Mi scazza solamente per almeno tre o quattro album che sono finiti tutti idealmente all'undicesimo posto a pari merito e che quindi non si trovano in questa lista per un soffio; ma come dice il ragionier Ugo Fantozzi alla Pina quando rientra dalle lezioni di biliardo: sì, è la vita! Dalla classifica ho tolto scientemente ristampe o raccolte (altrimenti rischiavo di mettere solo vecchiume). Bando alle ciance ecco la CLASSIFICA DEI 10 DISCHI DEL 2017 in ordine più o meno sparso, ma non sempre:

Mr. T Experience “King Dork Approximately” lp
Aspettavo questo disco da anni, ma che dico anni: decenni e settimane. A parte tutto, quando ho saputo che Dr. Frank avrebbe resuscitato i MTX e dato alle stampe un nuovo lp dopo quasi 3 lustri me la sono fatta letteralmente sotto dalla paura. Il precedente "Yesterday rules", diciamoci la verità, è una mezza ciofeca e chi ce l'ha come me lo tiene per mero completismo e affetto. Questo "King Dork ecc", invece, è un gran disco. Davvero. Ci sono ottime melodie, pezzi un po' più tirati e altri molli ma ben scritti e si sente il guizzo del vecchio Frank, che tanto ci aveva fatto innamorare 20 anni fa. Power-pop e punk-rock, naturalmente, restano le coordinate principali. Ma c'è anche un po' di pop-rock alla vecchia maniera. Un ritorno coi fiocchi.

Capitalist Kids “Brand damage” lp
I Capitalisti Kids del mio amico Jeff hanno pubblicato indubbiamente il loro album migliore e se non fosse uscito quello dei Mr. T "Brand damage" sarebbe in cima al podio. Anche qui si battono i territori del pop-punk e del power-pop, con una predilezione più per Elvis Costello che per i Ramones. Jeff sa scrivere canzoni veloci e super melodiche, alternando testi impegnati che parlano della situazione socio-politica americana a brani d'amore. Il disco perfetto dell'era Trump.

Downtown Boys “Cost of living” lp
Tra i miei gruppi hardcore preferiti in assoluto ci sono i Downtown Boys: una band devastante dal vivo (li ho visti un anno e mezzo fa a Imperia e devo ancora riprendermi). Uno dei loro pregi più grandi è l'essere riusciti a trovare un suono così originale ma al tempo stesso familiare che ha davvero pochi eguali fra i gruppi contemporanei. Testi in inglese e spagnolo, che parlano di cosa sia oggi l'America e di come sia ancora attuale lottare e resistere per i propri diritti, tentando di cambiare il mondo. Nessuna velleità, solo sincerità, attitudine e urgenza. "Cost of living" è un filo meno dirompente del suo predecessore "Full Communism", ma resta un disco in cui punk e hardcore trovano un originalissimo modo per stare insieme. Ma se seguite questo blog scalcinato avrete già letto la recensione del disco.

Dalton “Dei malati” lp+cd
Anche in questo caso parliamo di un secondo album che arriva dopo un esordio capolavoro, il fantastico "Come stai?" e quindi "Dei malati" resta, per forza di cose, un gradino sotto quella meraviglia. Detto questo siamo comunque di fronte a un album stupendo, da imparare letteralmente a memoria. Questa splendida formula a base di oi!, pub-rock, punk, folk e cantautorato spinto rende i Dalton una band unica ed eccitante. L'inizio è fulminante, tanto che "Gaia" sembra una b-side di "Come stai?". E poi c'è un altro inno come "La dose fa il veleno" e un gran pezzo dal super riff come "Estate". Non mancano neppure qui le cover che non t'aspetti, da Tenco ai più "allineati" Pogues. Pochi brani, solo sette purtroppo, ma tutti da sentire 100 volte al giorno, senza stancarsi.

She Said What?! “Demichelis” cassetta
Eccolo qui il mio duo proferito. Anna e Manuela (anche se a volte dal vivo la sostituisce Bernardo) sono due tipe toste delle mie parti, che suonano una sorta di punk lo-fi acido ma al tempo stesso melodico, che mi fa letteralmente uscire di testa. Dopo qualche anno di stop, hanno ripreso a suonare da circa 12 mesi e hanno appena sfornato un disco (per ora solo su cassetta, presto anche su vinile) che è una delle robe più belle che abbia ascoltato in questi anni. L'album è una specie di concept (non pretenzioso) sulla prima repubblica e contiene pezzi come "Demichelis", Sigonella, "Craxi", "Fanfani" e "Love party" (ok li ho detti tutti). Il tutto suonato alla velocità della luce, come della Bikini Kill ridotte all'osso (batteria, basso distorto e due voci che si rincorrono in un botta e risposta strepitoso) alle prese con le cover dei Dead Kennedys. Un groviglio di ironia, minimalismo punk e melodie malate e stridule. Uno sballo.

Human Race “Negative” lp
Gli Human Race arrivano da Roma e spaccano i culi. Sono una band totalmente derivativa (punk '77 a manetta fra Boys, Buzzcocks, Weirdos, Germs e gruppi minori californiani). Ne ho parlato giusto il post scorso e quindi credo sia superfluo riscrivere le stesse cose. Però sappiate che questo pezzo di vinile è uno di quei classici dischi che, se amate certi suoni, faticherete davvero a mettere da parte. E' come un the best of o una summa della prima scena punk, con quel suono secco e abrasivo, un rock'n'roll imbastardito da distorsori marce e melodie storte. Una goduria.

Leisfa “Liturgie di fallimenti e sconfitte” cd
Anche i Leisfa, come le She Said What?! e tra poco i Goonies sono genovesi. E anche loro, come tutti gli altri, sono miei amici. Vi sembro campanilista? Ma non diciamo cazzate: questo è soltanto culo, misto a un pizzico d'intelligenza nello scegliere le persone con cui passare il proprio tempo libero. Luca e i suoi fantastici amici (questo il nome per esteso della band) si sono guadagnati sul campo i galloni e con questo terzo disco (se si conta come secondo il loro split con gli Essere) raggiungono la piena maturità. I Leisfa sono una band hardcore granitica, composta da ragazzi sui 25 anni (quindi giovani, dai), che è riuscita a trovare un sound personale, nonostante il genere. In questo "Liturgie di fallimenti e sconfitte" i ritmi sono leggermente più lenti rispetto ai primi album, ma ci sono comunque muri di chitarre in tempesta, canzoni furiose e testi introspettivi e carichi di pathos. Gippy ha una voce perfetta, tagliente, sporca e capace di raggiungere vette di cattiveria inaudita. Uno dei migliori gruppi hardcore italiani degli ultimi dieci anni (consigliatissimi anche dal vivo).

Goonies “Connessi e soli” cd
Ed eccoci nuovamente ai Goonies (di cui parlo anche nel post precedente). Senza stare troppo a ripetermi Ippo, Matteino, Buddy e Albe suonano un punk-rock in italiano superveloce e melodico sullo stile di Monelli, Ignoranti e Fichissimi. I sei pezzi di quest'album sono uno più bello dell'altro, scorrono come birra ghiacciata nel gargarozzo e non smetteresti mai di ascoltarli.


Heroin In Tahiti “Remoria” lp
Ogni volta che esce un disco nuovo degli Heroin In Tahiti finisce, puntualmente, nella mia classifica di fine anno, perché anche se questo duo romano di musica strumentale è, sulla carta, parecchio lontano dai mie classici ascolti, ogni volta che mi imbatto in qualche loro produzione finisco per andarci a bagno. Forse a farmi andare via di testa è il fatto che una volta messa la puntina sul primo solco inizia un viaggio ipnotico da cui è difficile tornare indietro. "Remoria", grazie ai suoi richiami mediterranei, assomiglia più a "Sun and violence" che a "Death surf", il disco che mi aveva fatto innamorare di loro. Ma resta comunque un album pazzesco e inteso, un disco dall'incedere tribale, con echi di musiche antiche in sottofondo. Un vinile da ascoltare completamente strafatti sul divano mentre si beve pastis. Nel caso foste straight edge o troppo vecchi come me per certi vizi, "Remoria" funziona ugualmente. Magari con le luci basse e il cuore sincronizzato sui battiti della musica.

The Minneapolis Uranium Club “Live at Arci Taun” lp
A causa della mia proverbiale ignoranza mi sono perso la prima e unica data italiana dei Minneapolis Uranium Club l'anno scorso a Fidenza. Ma grazie ai "colleghi" di Sottoterra ho potuto riparare, almeno in parte, a quest'errore. Perché sotto il marchio della rivista che ho la sventura di dirigere è uscito questo bel vinile nero, in cui è stato immortalato, grazie a una registrazione di ottima qualità, quello storico concerto. Dentro questi solchi c'è tutta la forza dirompente e dissonante dei MUC: un mix fra Devo, garage, punk e kraut da due soldi. Musica rumorosa ridotta all'osso: un viaggio cosmico a bordo di una motoretta scassata.




lunedì 11 dicembre 2017

Un po' di recensioni a babbo/ 2

E' stato un novembre impegnativo; pieno di concerti e quindi di dischi, visto che, come mi aveva detto una quindicina di anni fa Matteino, "non riesco ad andare a sentire una band e non comprare nulla al banchetto". Una maledizione che mi porto dietro da allora e cioè da quando ho iniziato a consegnare pizze in macchina - perché non ho mai imparato a guidare il motorino - per comprarmi cd e vinili. E quindi ecco il mio classico inventario semi ragionato fra alcune delle ultime robe che sono finite nel mio stereo o che ho ascoltato in streaming (salvo gli evergreen che tornano a farmi visita come i fantasmi dei Natali passati).

The Kinn-Ocks - s/t
Il buon Paolo Merenda degli Anno Senza Estate e prima ancora dei Kompagni di Merenda (nome geniale) mi ha inviato per posta il suo ultimo cd, che è anche l'esordio della nuova band della sua allegra combriccola: i Kinn-Ocks. Dieci pezzi (più una traccia fantasma strumentale) in meno di 15 minuti (compresi i secondi di attesa dell'undicesima canzone): una randellata di rock'n'roll sporchissimo e abrasivo, sullo stile degli Zeke tanto amati e venerati da Paolo e sulla falsariga di quel punk-rock maleducato e assai poco melodico che piaceva tanto a noi giovani negli anni novanta. Undici tracce registrate in presa diretta, nude e crude e suonate con scarsa perizia tecnica (che per quel che mi riguarda è uno dei migliori complimenti che possa fare a una band). Per citare il poeta: poche musse, qui c'è menù fisso, rock'n'roll robusto e voce che arriva dall'oltretomba per farvi fuori con una manciata di rasoiate.

Goonies - Connessi e soli
I Goonies sono una delle mie band preferite. E non lo dico perché siamo amici da una vita; il fatto è che questa banda di ragazzi - per citare un loro vecchio pezzo - sa come farmi felice in poche e semplice mosse: suoni veloci e melodici come le pop-punk band di 25 anni fa, pezzi che ti si incollano al cervello e un'attitudine incredibile. "Connessi e soli", che arriva parecchi anni dopo quel mezzo capolavoro che era "Suoniamo ancora anni novanta" non tradisce le aspettative. Certo, l'80 per cento dei sei pezzi di questo mini album faceva già parte del repertorio live del gruppo (e quindi appena ho messo su il cd ho iniziato a cantare le canzoni a memoria), ma a parte le mie digressioni da fan (li avrò visti 1457893 volte dal vivo) credo sia impossibile, per chiunque ascolti punk-rock, non amare quest'album e non adorarne la sua sincerità. E' raro che ascolti per più di 3 o 4 giorni di fila lo stesso disco, avendo sempre nuovo e vecchio materiale da sentire (il bello e il brutto di Internet).Ma nel caso di "Connessi e soli" è stato davvero difficile togliere quel pezzettino di plastica dallo stereo. Disco clamoroso e da 10.

Bully - Losing
Gian di Disco Club, qualche mese fa, mi ha passato da recensire il nuovo disco di una rocker chiamata Bully uscito su Sub Pop e intitolato "Losing". Premesso che anch'io, come i più avveduti di voi, non sapevo manco chi fosse Bully (un nome che può accompagnare solo) ho deciso di accostarmi a quest'album con le migliori intenzioni e senza pregiudizio alcuno. Peccato però che il disco sia una vera e propria ciofeca, col suo rock mollo simil-grunge, che mi ricorda un'Anouk (quella che cantava di essere una spiaggia o una prostituta, non ricordo bene) senza la freschezza di Anouk (e v'ho detto tutto). Di questi 12 pezzi ne salvo giusto un paio e guarda caso sono i lentoni ("Blame" nonostante tutto si lascia ascoltare, dai). Il resto è robetta da finta ragazza incazzata, con chitarre così molli e canzoni così leziose che al primo che si fa avanti regalo il cd e non ne parliamo più.

Human Race - Negative
Aspettavo questo disco da mesi. E più precisamente da quando ho ascoltato i primi due micidiali singoli - "Human race" e "I dont' mind" - di questa band romana (l'ennesima rivelazione in arrivo dalla Capitale). Gli Human Race suonano con una naturalezza disarmante, come i gruppi punk inglesi e americani del '77, soprattutto quelli sfigati e di serie B, che spesso sfuggono ai classici elenchi degli imprescindibili. Pensate a una miscela di Boys, Buzzcocks, Germs, Weirdos, Generation X ed Eater e ci sarete quasi vicini. Insomma, roba da leccarsi le dita dei piedi. Forse l'impatto di questo bel vinilone pubblicato dalla benemerita Dead Beat di Cleveland è un pizzico meno dirompente rispetto ai primi due singoli di cui ho parlato all'inizio (nell'album comunque c'è la splendida "I don't mind") però questo "Negative" resta un disco prezioso e vibrante, genuino e talmente sincero che vi farà godere come dei ricci.

Vecchiume su cui ho messo le mani di recente:

AA/VV - Bloodstains Across Califronia
Preso al banchetto dei Leeches al concerto dei Dictators questo volume della serie Bloodstains, una sorta di Killed by Death e cioè una compilation col meglio del punk più oscuro e sfigato, è un disco definitivo che gronda bellezza da ogni solco. Venti brani per altrettanti gruppi, di cui i più conosciuti sono, forse, i Dogs (non quelli francesi, he) e i Controllers. Cioè degli emeriti signor nessuno, ma con un talento immenso nello scrivere almeno un pezzo memorabile in tutta la loro vita. Cosa che per me vale già il Nobel per la pace. Tra le band migliori (ma tutti i pezzi e tutti i gruppi spaccano) ci sono le Maggots con una fenomenale "Tammy Wynette", i già citati Controllers, qui con "Slow boy" e i Child Molesters che, con un moniker così, non possono che estrarre un pezzaccio del calibro di "I'm gonna punch you in the face". Il filo conduttore di questa raccolta è un punk marcio e urgente, fatto di chitarre rumorose, melodie sgraziate ma che colpiscono al cuore e voci incerte e deliziose: insomma tutta la bellezza e l'ingenuità della prima scena punk californiana, una delle mie preferite in assoluto.

Teenage Head - s/t
Sia lodato Federico Tixi che con le sue segnalazioni delle migliori offerte Amazon è riuscito a farmi trovare il primo vinile dei Teenage Head a 13 euro. Da anni cercavo di comprarlo a un prezzo umano, almeno sotto i 15, anche se si tratta di uno di quei dischi della vita per i quali dovrei sforzarmi di spendere qualcosa di più. Ma, come dice il saggio, la perseveranza è stata premiata e finalmente ho potuto mettere le mani su un album che, grazie a Youtube, conoscevo già a memoria. Il primo disco di questa storica band canadese è una bomba assoluta. Power-pop e punk al massimo dello splendore. Tutti i pezzi sono bellissimi, veloci e ipermelodici. Non è facile raccontare un album così perfetto e vorticoso. Anche perché se bazzicate il punk-rock, il power-pop o l'hardcore sapete già con ragionevole certezza che difficilmente una band canadese (così come un'australiana) sbaglia un colpo o quantomeno il primo disco. Vi dicono qualcosa D.O.A., Propagandhi (fino ai primi tre album), Pointed Sticks, Yesterday's Kids, Hanson Brothers e No Means No?


lunedì 20 novembre 2017

Un weekend da leoni (e un lunedì da...): quella volta che in tre giorni ho visto i Dictators e i M.o.t.o. a due passi da casa

Ok non scrivo da un po' e bla bla bla, ma sono stato parecchio incasinato. Sono giorni pieni di cose interessanti (concerti, spettacoli teatrali ecc) e prometto che se riesco a uscire vivo da questo mese di novembre mi metto a ballare la Giga. Prima però devo sopravvivere alla doppietta del prossimo weekend: la presentazione del libro "La storia del punk" di Gilardino (di cui ho già parlato da queste parti) con tanto di concerto dei Ramoni (venerdì all'Altrove, a partire dalle 21, puntualissimi, davvero) e la serata organizzata sabato allo Zapata da Robertino con Dalton (cioè avete capito bene? Dalton!!!), Klasse Kriminale, Leisfa e Mad Beat. Lo scorso fine settimana però mi sono spaccato altri due concerti della vita: i Dictators (che ora sono costretti a farsi chiamare Manitoba NYC) al Raindogs e i M.o.t.o. al Little Italy. Ed è proprio di questi due mega eventi che voglio parlare. Partiamo dai cinque arzilli vecchietti di New York che, fuori da ogni pronostico, se la sono cavata alla grande. Oltre ai due fondatori Handsome Dick Manitoba - che ha il nome più bello di sempre - e Ross “The Boss” Friedman - che ha fondato anche i Manowar: uno dei miei incubi adolescenziali - sul palco c'erano Daniel Ray (che ha prodotto qualche album dei Ramones) e altri due anziani da competizione come JP "Thunderbolt" Patterson alla batteria e Dean "The Dream" Rispler al basso. Come detto le aspettative non erano altissime, ma al di là di una certa mollezza di alcuni pezzi - che però erano molli anche nel 1975 - il concerto è stato una piccola rivelazione. In apertura hanno suonato i Leeches, che sono sempre un bel sentire, con il loro mix di rock'n'roll grasso e sporco, quel tocco beach-punk che non guasta mai e un bell'assortimento di storie incredibili a base di assalti notturni al frigorifero e proclami anti-sportivi. I Dictators - non fatemeli chiamare Manitoba, visto che pure a loro sto moniker sta piuttosto stretto - sono saliti sul palco conciati come dei tamarri di New York che avevano dormito con tutti i vestiti addosso. Tanto per fare un esempio Handsome Dick, per tutto il concerto, ha tenuto in testa un cappello di lana con la scritta sbrillucciocosa Bronx e si è presentato con due camicie, una più improbabile dell'altra. Ma questioni di stile a parte la band ha dato davvero tutto, suonando una hit dietro l'altra e tenendo il palco con passione, senza abbandonarsi a stupide pose da leggende del rock. Manitoba se la chiacchierava allegramente col pubblico, raccontando aneddoti e provando a parlare malamente in italiano, visto che il suo vocabolario consisteva in tre magiche parole: "mamma", "cucina" e "pizza". Ross The Boss, che non si è lasciato andare a tentazioni metallare, ha messo la sua tecnica al servizio del rock'n'roll e si è limitato a sfoggiare un sorriso sornione per tutto il concerto, mostrando a più riprese i suoi tatuaggi da antologia (uno per tutti il campo da baseball che ricopre il suo bicipite destro). Insomma tanto cuore e una scaletta da lacrime, eseguita alla perfezione. I Dictators avranno pure una certa età e delle mise imbarazzanti, ma sono una delle band più genuine che abbia mai visto dal vivo. Lunga vita ad Handsome Dick e alla sua cricca di vecchietti terribili. E a proposito di anziani non è che Paul Caporino dei M.o.t.o. sia tanto più giovane dei Dictators. Anzi, Franz sostiene che dovrebbe avere più o meno 60 anni. E diciamo che così di primo acchito li dimostra tutti. Quando suona però è una furia inarrestabile. E domenica al Little Italy hanno dovuto fermarlo a forza, perché altrimenti sarebbe andato avanti a suonare tutta la notte (anche dopo che il resto della band aveva posato gli strumenti a terra). Nel giro di un'ora abbondante questo scalcinato terzetto di garage supermelodico è riuscito a farmi palpitare il cuore come non mi succedeva da un po' di tempo. Prima dei M.o.t.o. a scaldare il pubblico (piuttosto numeroso) ci hanno pensato i Goonies, che sono una delle mie band preferite. Ok, li conosco da una vita e sono quel tipo di amici che immagini che frequenterai anche quando sarai un vecchio rincoglionito che passerà le giornate a guardare i lavori in corso; però dai, come si fa a non amare il loro pop-punk in italiano deliziosamente anacronistico? Citando il titolo del loro penultimo disco: i Goonies suonano ancora Anni Novanta e lo fanno senza troppe menate e con una classe innata. Al concerto di spalla ai M.o.t.o. hanno presentato pure il loro ultimo disco, "Connessi e soli", ma - come accade ai veri loser - avevano pochissime copie da vendere, a causa di alcuni casini con la stampa del cd. Io un disco me la sono agguantato e vi consiglio di fare lo stesso, facendo un passo da Flamingo nei prossimi giorni. Il bilancio del loro concerto è stato: mezzora di ignoranza a velocità supersonica. Una delle mie band del cuore, ma forse l'ho già detto. I M.o.t.o., inutile dirlo, sono stati uno spettacolo assoluto. Paul si è fatto fuori mezzo bar e ha continuato a ciucciare, per tutta l'esibizione, una bottiglia di whisky, brindando con il pubblico in delirio e a due centimetri dal suo microfono. "I hate my fucking job", "Gonna get drunk tonight", "Dance dance dance dance to the radio" e "Crystallize my penis" hanno scatenato il delirio. La mia acufene deve aver superato i livelli di guardia, ma ne è valsa decisamente la pena. Certo, se siete dei puristi della pulizia sonora e del rock più classico e tecnico, le mitragliate punk di Caporino e soci potrebbero farvi letteralmente inorridire. Ma se invece amate la buona musica e cioè quella più sporca e veloce e se andati pazzi per le melodie rumorose e i pezzi sotto i due minuti, allora i M.o.t.o. potrebbero essere il vostro gruppo della vita. Quello che mi fa impazzire di Paul Caporino - che è stato davvero incredibile, l'altra sera - è anche la sua inesauribile vena melodica. Perché sotto quegli strati di chitarre minimali e sferraglianti, il nostro riesce, da oltre 30 anni, a scrivere pezzi stupendi e appiccicosi che ti si piantano in testa sin dal primo ascolto. A volte si ha la sensazione di conoscerli da sempre quei brani scalcinati e zuccherosi. Eppure c'è voluta la lungimiranza di Matteino perché, qualche anno fa, scoprissi questa band sotterranea e incredibile. Un culto totale per pochi eletti. Vederli a Genova, in una saletta minuscola al piano interrato di un bar (sia lode ai ragazzi del Little Italy e ad Alberto per aver organizzato questo concerto) è stato come sbronzarsi per la prima volta di gin tonic. Torni a casa col sorriso sulle labbra e ti svegli devastato come ai bei tempi.

martedì 7 novembre 2017

Gianfraco Manfredi mercoledì (domani) all'Aut Aut presenta "Ma chi ha detto che non c'è"

Ho scoperto e amato la musica di Gianfranco Manfredi ancora prima di perdere la testa per il punk. Avrò avuto 11 o 12 anni e mentre ascoltavo una delle mitiche cassette dell'Italia del Rock, la collana uscita in edicola con Repubblica nei primi Novanta che ha rappresentato una tappa fondamentale della mia educazione musicale, mi sono imbattuto in "Quarto Oggiaro Story", una canzone a dir poco incredibile, intrisa di una carica autoironica e demenziale unica. Manfredi, utilizzando il linguaggio semplice e "canonizzato" dei cantautori, era riuscito in pochi e divertentissimi minuti a sferrare un attacco politico alle liturgie radical chic della sinistra intellettuale e istituzionale, sfoggiando un insolito garbo e una sfrontatezza deliziosa, figlia del Movimento del 77. E infatti quel brano - come ho scoperto diversi anni più tardi - era contenuto nel bellissimo disco del 1976 "Ma non è una malattia": un album pieno di pezzi stupendi, scritti con uno stile, una leggerezza, ma anche una ferocia satirica senza eguali. Da ragazzino l'unico Manfredi che conoscevo era l'attore romano di "Brutti, sporchi e cattivi" che molti della mia generazione chiamavano semplicemente "il tizio della pubblicità della Lavazza" (visto che all'epoca quello spot imperversava tra un cartone animato e l'altro). Ma quello era Nino Manfredi; di Gianfranco, nei primi Anni Novanta, era davvero difficile trovare qualche notizia, soprattutto per un bambino un po' fessacchiotto com'ero io a quei tempi (e come probabilmente sono rimasto). Comunque, quel pezzo molto politico ma anche dannatamente ironico riuscì a sconvolgere la mia piccola esistenza di dodicenne a caccia di qualcosa, che all'epoca, non riuscivo ancora a trovare. E insieme ad alcune canzoni di Finardi, come "Musica ribelle" (ascoltata ancora una volta sull'Italia del Rock), preparò il terreno - magari involontariamente - a una rivoluzione personale "iniziata dentro casa" (anzi in cameretta) e carburata qualche anno dopo dall'ascolto compulsivo di Sex Pistols, Clash, Ramones e Green Day. Ma di questo già ho parlato un sacco di volte e sto cominciando ad annoiarmi persino io. Tornando invece a Manfredi, nel corso degli anni, ho scoperto che, seppur con risvolti personali assai diversi, molti altri miei coetanei erano rimasti folgorati da quel brano o da altri del cantautore milanese e, ancora adesso, con Fabrizio, quando ci mettiamo a recitarlo a memoria come un mantra ("e tu te legg'Agatha Crishhhte co' Totonne poro' cristhhhe") prima ci scompisciamo dalle risate e poi ci assale la malinconia.

Tutto questa lunga premessa per dirvi che domani, mercoledì 8 novembre, intorno alle 20,30 all'Aut Aut di via delle Fontane arriva proprio Gianfranco Manfredi, che nel frattempo, negli ultimi 40 anni, oltre al cantautore ha fatto lo sceneggiatore, lo scrittore e il fumettista (che è forse la sua attuale occupazione più importante). L'occasione della sua visita è la presentazione del suo ultimo e importantissimo libro "Ma chi ha detto che non c'è" (appena pubblicato per Agenzia X), che parla proprio del 1977. Insieme a Manfredi ci sarà anche Marco Philopat, di cui ho già parlato su questo blog e che dirige la casa editrice milanese che ha fortemente voluto questo volume. Non ne so molto di "Ma chi ha detto che non c'è", devo essere sincero, perché alla fine ho deciso di comprarlo proprio alla presentazione di domani. Però le promesse sono pazzesche (il libro si intitola come una canzone bellissima, commovente e poetica - ma anche ironica - contenuta proprio in quel "Ma non è una malattia" di cui parlavo poco fa e che non sono ancora riuscito a procurarmi). Se non fosse abbastanza chiara tutta l'enfasi che sto mettendo in questo post: quello di domani all'Aut Aut è uno degli appuntamenti dell'anno. Per me sarà l'occasione per ascoltare due miei eroi della controcultura ma anche dell'adolescenza. E, detto tra noi, sono già in pieno sbattimento.


sabato 4 novembre 2017

La storia del punk - di Stefano Gilardino

Minchia che botta! Ho appena finito di leggere "La storia del punk" di Stefano Gilardino, pubblicata da Hoepli una quindicina di giorni fa e, scusandomi in anticipo per la mia proverbiale lentezza (sono 349 pagine scritte fitte, piene di box e praticamente senza fotografie, comunque) sono pronto a dirvi cosa ne penso. Partiamo dal giudizio tranchant - che condivido - scritto alcuni giorni fa da Tony Face, che aveva definito il libro "monumentale": un aggettivo che calza a pennello a questo volumone viola e nero, che si prefigge l'arduo compito di ripercorre la parabola del punk in tutte le sue declinazioni, dai primi vagiti sino ai giorni nostri. Una storia lunga non 40 anni, come potrebbe sembrare a prima vista (l'anno zero di questa sottocultura è fissato, di solito, fra il 1976 e il 1977), ma almeno mezzo secolo, visto che il periodo di tempo preso in esame da Gilardino parte dalla seconda metà degli Anni Sessanta, quando si sono formati i primi gruppi proto-punk o garage o come diavolo vogliamo chiamarli (Velvet Underground, MC5, Stooges e le band poi raccolte nella compilation "Nuggets"). Un manipolo di eroi che, fra incoscienza e genialità, ha pubblicato alcuni dischi imprescindibili, che mescolavano suoni abrasivi, rock'n'roll, disperazione urbana, imperizia tecnica e violenza sonica; album e singoli capaci ancora oggi di rovesciarti le budella. Ecco, secondo me sta proprio qui - fuori dal punk "canonico" e nelle sue mille derive sotterranee - la forza di questo libro. Perché al di là della necessità di assolvere fino in fondo al compito che il volume si prefigge a partire dal titolo, i momenti più eccitanti de "La storia del punk" sono proprio quelli che paradossalmente c'entrano meno con Sex Pistols, Clash, Ramones e i numi tutelari per eccellenza. Sia chiaro, Gilardino compie uno sforzo immane per nominare (senza accontentarsi del semplice catalogo) tutti, ma proprio tutti i protagonisti passati e presenti di questa epopea musicale che doveva durare lo spazio di un attimo - vi ricordate il no future? - e che oggi viene persino celebrata a livello istituzionale, come un fenomeno di costume ampiamente storicizzato. Ma visto che l'autore di queste 349 pagine ha vissuta sulla propria pelle il punk ed è un divoratore onnivoro di musica "irregolare", in più di un'occasione cita scene e sottoculture che hanno preparato il terreno al punk o che sono cresciute ai suoi margini, si sono alimentate delle sue scorie tossiche e sono diventate qualcos'altro. E così se i capitoli dedicati alla New York del CBGB's o alla Londra che brucia di noia, alla rivoluzione individuale degli Husker Du e al revival degli Anni Novanta sono punti cruciali di questa bellissima storia (ad arricchirli ci sono citazioni, curiosità succose e discografie consigliate), a farmi palpitare maggiormente il cuore sono state le incursioni del libro in terreni meno battuti, ma contigui al punk. E quindi la storia dei già citati gruppi "proto" dei sixties, la vicenda ai limiti della sfiga dei New York Dolls, il capitolo sul glam (ok, devo ancora leggere il libro di Raynolds, ma wow!), le pagine sul power-pop e quelle sulle contaminazione punk oltre la musica (fanzine, film, libri, giornalismo ufficiale). Molto interessante (anche dal punto di vista quantitativo) il blocco finale dedicato all'Italia. Certo, chi segue il punk e negli ultimi 15 anni non si è perso neppure una delle ormai tantissime pubblicazioni a tema uscite nel nostro Paese (direi che il capostipite è "Costretti a sanguinare" di Philopat che risale addirittura a 20 anni fa) conoscerà già alcune parti della storia qui raccontate - come quelle più classiche - ma è anche vero che persino i più scafati non hanno mai potuto contare su un volume onnicomprensivo, che provasse a mettere in fila tutte le vicende che hanno costruito questo racconto e le infilasse dentro un discorso unico e critico, nel tentativo - riuscito in pieno - di sviluppare un'analisi complessiva della storia. I neofiti invece - se esistono ancora ragazzini capaci di appassionarsi al punk invece che alla trap - troveranno finalmente il loro Santo Graal. 
E poi diciamocela tutta: "La storia del punk" è un libro davvero ben scritto. Perché è anche questo che rende preziosa questa pubblicazione: Gilardino, come sa bene chi lo segue sin dai tempi di Rocksound o chi ha letto il suo libro precedente (l'indispensabile "100 dischi ideali per capire il punk") è un ottima penna e non è cosa da poco, di questi tempi. Il suo stile non è una bieca imitazione "gonzo" della critica rock d'assalto alla Lester Bangs - che io venero, sia chiaro - ma è asciutto, semplice e al tempo stesso carico di passione. Una chiarezza fondamentale per potersi districare in un racconto pieno di subordinate e incroci musicali particolari, che in mano ad altri rischierebbe di trasformarsi in un guazzabuglio senza senso o, peggio, in una masturbazione intellettuale.
Un altro pregio di questo libro "monumentale", poi, è la voglia matta di comprare dischi che ti instilla sin dalle prime pagine (e io mi dichiaro vittima consapevole e felicissima vittima di questo complotto). Perché, anche se avete a casa una buona collezione di album e singoli punk (e derivati), state pur certi che Gilardino saprà trovare qualche incredibile buco che sarete costretti a coprire al più presto. Io stesso, che in anni più spensierati ho dilapidato interi stipendi in cd e vinili, mettendomi in casa persino alcuni lp e cd discutibili pur di completare discografie e riempire le classiche casella degli album da avere a tutti i costi, ho dovuto aggiornare per l'ennesima volta la lista de dischi da comprare, che distribuirò ai miei parenti in vista di compleanni, Natali, onomastici e anniversari. Questo per dimostrarvi in che stato assoluta beatitudine possa ridurvi la lettura de "La storia del punk" di Stefano Gilardino. Un lungo viaggio che vale la pena percorrere.

Ps Per tutti i genovesi (ma non solo) all'ascolto: il 24 novembre, che è un venerdì, io e la Fra Pongy presenteremo "La storia del punk" al Teatro Altrove di piazzetta Cambiaso. L'appuntamento è alle 21 puntuali: dopo suonano, dopo un botto di anni, i Ramoni. Venite a fare un po' di casino.



mercoledì 25 ottobre 2017

Nico, 1988 - Adesso faccio pure l'esperto di cinema

Ma lo sapete che a me, invece, "Nico 1988" è piaciuto? E sottolineo l'avverbio "invece" perché negli ultimi giorni ho letto parecchi giudizi negativi su questo film (salvo poi scoprire - dopo la mia esternazione su Facebook - che qualcuno che la pensa come me esiste, eccome). Ma al di là delle affinità e divergenze fra i compagni del giro punk e noi (inteso come gruppo di spettatori soddisfatti) uno dei vari pregi di "Nico, 1988" - regia di Susanna Nicchiarelli e con Trine Dyrholm nei panni della protagonista - è soprattutto l'idea che sta dietro questa produzione italo-belga e cioè raccontare un'icona della musica, ma anche della cultura pop (nel senso più artistico del termine), in uno suoi periodi meno glamour e più difficili: la decadenza e la morte improvvisa. Il film, infatti, parla degli ultimi due anni di vita di Nico, dal 1986 al 1988, quando l'ex femme fatale dei Velvet Underground era costretta a sbarcare il lunario imbarcandosi in tour europei scalcinati, tentava di riallacciare un rapporto difficile con il figlio e si faceva regolarmente di eroina. Non c'è traccia (tranne che in fugaci e lisergici flash back) della bellezza teutonica che aveva incantato la Factory di Wahrol e un giovane Iggy Pop, che con Nico aveva avuto una travolgente relazione ai tempi di "Fun house" provocando scazzi enormi all'interno della band; la protagonista di questo film è una donna di quasi 50 anni (anche se al mezzo secolo Christa Paffgen non arriverà mai per una manciata di mesi) che pare piuttosto infastidita da quell'immagine da sex symbol con cui tutti la identificano. Non ha paura dell'età che avanza e dei chili di troppo. E deve lottare ogni giorno con i fantasmi di un'esistenza tormentata. Insomma: chi va a vedere il film su Nico per vedere un film sui Velvet Underground lasci perdere e resti a casa ad ascoltare il disco con la banana in copertina. Gli altri, magari i fan di "The Marble index", "Chelsea girl" e del resto della sua obliqua e spiazzante produzione solista si accomodino pure in poltrona. "Nico, 1988", lungi dall'essere un capolavoro, è un film semplice, ma al tempo stesso intenso. E' costruito più su un collage di momenti - magari non sempre a fuoco come quelli che raccontano le tappe del tour in Italia (purtroppo non si parla della sua esibizione genovese) - che su una trama lineare. E questo, per me, è un altro punto di forza. La musica c'è; si sente ed è - scusate la banalità - catartica e dirompente. Trine Dyrholm è una Nico incasinata e ingestibile, insoddisfatta e magnetica. Forse non del tutto aderente alla realtà (perché a quanto pare Nico era una figura ancora più contraddittoria e indecifrabile di quanto venga descritta qui). Ma è comunque molto credibile. Certo, nel film ci sono alcune scelte un po' particolari che non sempre risultano condivisibili, come il fatto che l'attore che interpreta Dome La Muerte dei Not Moving (ma anche dei CCM) abbia inspiegabilmente la barba. Ma si tratta di dettagli, dai. Cose che notano solo i nerd del punk; tanto più che in una bella intervista sul film, lo stesso Dome appare divertito e soddisfatto di come sia stata racconta la sua parte nella vicenda (anche perché il suo personaggio riveste davvero un bel ruolo nell'economia della storia). Ma non voglio fare il solito sbrodolone e mi fermo qui. E l'unica cosa che mi sento di dire è che, a mio modestissimo parare, "Nico, 1988" vale i soldi del biglietto. Se proprio devo trovare un difetto a questo film direi che gli spettatori che non conoscono - almeno superficialmente - la storia della protagonista potrebbero non comprendere appieno la vicenda (per esempio che Nico muoia non è così immediato e se uno non lo sa, magari neppure se ne accorge).


mercoledì 11 ottobre 2017

I pirati dei Navigli - Il nuovo libro di Marco Philopat

Ogni volta che esce un nuovo libro di Marco Philopat vado in sbattimento. Perché è grazie a una lettura illuminante come "Costretti a sanguinare" (il suo esordio) se ho preso coscienza del punk italiano degli Anni Ottanta e se mi sono reso conto che la musica che tanto amavo e che mi aveva cambiato la vita non era fatta soltanto di stupide canzonette suonate a mille all'ora, ma era una vera e propria sottocultura (o controcultura), con radici forti e robuste anche in una periferia dell'impero come l'Italia. Volendo semplificare: "Costretti a sanguinare" - che non ho letto nel 1997 ma a cavallo tra '98 e '99 - è stato a tutti gli effetti il mio primo manuale di educazione "politica" al punk, inteso come "strategia di guerra", tanto per citare il Luca Frazzi delle mitiche "Guide pratiche di Rumore"; una "lettura maledetta" grazie alla quale mi sono infilato in tunnel di rumore assordante (la prima volta che ho sentito parlare dei Wretched e della prima scena hc italiana è stata in quelle pagine) e di movimenti di occupazione e autogestione, slegati e alternativi e quelli classici della sinistra extraparlamentare e post-sessantottina, seppur non così antitetici (ok la pianto che altrimenti sembro Folagra...). Insomma quel libro per me resta un totem assoluto, su cui sono tornato spesso nel corso degli anni e che considero l'apripista di una lunga e fortunata serie di volumi sul punk e l'hardcore italiani che continua ancora oggi. E così, quando ho saputo che, dopo vent'anni, Philopat avrebbe ripreso il filo del discorso che si era interrotto con lo sgombero del Virus, raccontando il "seguito" di quella vicenda sono corso in libreria e mi sono buttato a capofitto nella lettura de "I pirati dei Navigli".

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Prima di proseguire a parlare del libro, però, visto che di solito mi piace farla lunga e contorta, vorrei fare ancora qualche considerazione preliminare, che naturalmente consiglio a tutti di saltare a piè pari. Per gli amanti del masochismo invece ecco due o tre osservazioni in libertà. Innanzitutto mi sembra molto interessante che Philopat abbia deciso di continuare a raccontare la sua storia, da dove si era fermato "Costretti a sanguinare", dopo anni di lavori che l'avevano portato - narrativamente parlando - quasi sempre altrove: e cioè lungo un percorso a ritroso nella storia dei movimenti milanesi ("La banda Bellini" e "I viaggi di Mel", che compongono insieme all'esordio una splendida trilogia) e poi a confrontarsi con veri e propri romanzi di fiction (anche se intrisi di sottocultura) come "Roma k.o." e "Rumble bee", entrambi scritti insieme al Duka. Certo, Philopat era tornato a  parlare del punk italiano con "Lumi di punk" del 2006, ma quella era più un'antologia di testimonianze dirette dei protagonisti dell'hc di casa nostra e rappresentava quasi un compendio - fondamentale e assolutamente da leggere - a "Costretti a sanguinare". L'ultimo considerazione che vi voglio sottoporre riguarda, infine, la casa editrice che ha pubblicato "I pirati dei Navigli": Bompiani e non Agenzia X, fondata e diretta dallo stesso Philopat dopo aver lasciato Shake una decina di anni fa. Una scelta interessante e azzeccata, perché porta a un pubblico più ampio una storia che un tempo si sarebbe considerata di nicchia. Anche se ormai i libri, purtroppo, sono un fatto di nicchia di per sé, indipendentemente da chi li pubblica.

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Venendo invece a "I pirati dei Navigli", in queste 300 pagine Philopat racconta il periodo storico per certi versi meno epico (forse perché di transizione) della controcultura milanese: i "pieni" Anni Ottanta, quelli di Craxi, Pillitteri, dell'edonismo, della Milano da bere e del riflusso; anni lontanissimi dal '68, ma anche dal Movimento del '77 e nel corso dei quali certe dinamiche e pratiche del passato venivano messe in discussione non per innovarle - com'era accaduto fino a poco tempo prima - ma per reprimerle. Certo, per chi riesce ad andare un po' al di là delle apparenze - e questo libro aiuta molto a farlo - gli Anni Ottanta italiani e milanesi furano, per fortuna, anche tanto altro, visto che misero le basi delle contaminazioni future e dei movimenti del decennio successivo che portarono avanti le lotte contro la globalizzazione e utilizzarono per la prima volta uno strumento all'epoca pionieristico e oggi fulcro delle nostre vite: Internet. In mezzo a tutto questo Philopat infila la sua vicenda personale, che è anzi il motore propulsore di un libro, che risulta assai meno "politico" e più "confidenziale" di quelli precedenti. Ne "I pirati dei Navigli" l'autore, raccontando se stesso, ricostruisce una storia comune dell'underground milanese, in uno dei momenti più difficili per quel movimento, anche se non mancarono - e da queste pagine lo si capisce bene - tanta fantasia, situazioni interessanti e grandi intuizioni. L'Helter Skelter - il "clubbino" post-punk del Leoncavallo -, l'occupazione di Conchetta, il ruolo della Calusca, i primi vagiti della rivista "Decoder" e della cooperativa Shake: tutto viene visto e filtrato attraverso gli occhiali spessi di Philopat e mescolato alle sue paranoie, al suo rapporto con la famiglia e con gli ex virusiani, alle sue storie sentimentali e alle nuove e in alcuni casi "strane" amicizie che stringe nel corso del tempo. Si parla di punk, naturalmente, anche se molto meno rispetto ai tempi di "Costretti a sanguinare". Mentre un personaggio chiave resta Primo Moroni, una sorta di mentore e padre politico-culturale per Philopat e per tutto il movimento milanese che arrivava dal punk e da via Correggio. Per farla breve "I pirati dei Navigli" è un libro assolutamente fondamentale e necessario, che aggiunge un tassello importante nella storia della controcultura italiana, raccontando una vicenda umana e politica che prima di oggi nessuno aveva messo nero su bianco. Un volume complementare, tra l'altro, a una pubblicazione uscita in questi mesi proprio per Agenzia X, "Fame", la storia romanzata dell'omonima fanzine realizzata dalla "creature simili" di cui lo stesso Philopat parla in "Costretti a sanguinare" e ne "I pirati dei Navigli". Insomma tanti pezzi di un unico puzzle sulle controculture, per raccontare la storia dei movimenti italiani direttamente dall'interno.




martedì 3 ottobre 2017

Propagandhi live (fast, die young) - Il mio brutto rapporto con la mia ex band preferita

Ogni tanto un po' di sana polemica ci vuole anche da queste parti. E quindi in barba alle reazioni entusiastiche (e a caldo) lette in questi primi giorni, ecco la mia serena analisi sul nuovo disco dei Propagandhi, "Victory lap", appena uscito per Epitaph: due palle.
Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che quella che vi accingerete a leggere fra pochissime righe non è un vera e propria recensione, perché il disco l'ho sentito soltanto due volte in mp3 e quindi non sono in grado di dare un giudizio puntuale sulla sua reale qualità. E allora che cazzo stai a scrivere? potreste giustamente obiettare; in realtà è che già dopo il primo svogliatissimo ascolto di "Victory lap", ho capito di trovarmi di fronte al classico album dei Propagandhi post John K. Samson (l'ex bassista, che per la cronaca ha mollato la band nel 1996) e cioè all'ennesima metallata, che non ho più la forza di ascoltare e soprattutto di comprare. E quindi il problema non è quest'album in sé, ma cosa sia diventata oggi quella band che tanto amavo da ragazzino.
Mi spiego meglio. Ho scoperto i Propagandhi, (per chi non lo sapesse sono un gruppo hardcore canadese) alla fine degli Anni Novanta grazie al solito Tito, che mi ha aveva duplicato su cassetta il primo disco del 1993, "How to clean everything", uscito per la Fat Wreck. Ed è stata una botta che levati. Canzoni velocissime e potenti, ma allo stesso tempo melodiche, testi ben scritti e "impegnati" (sì lo so, fa schifo come termine, ma almeno ci capiamo) e una follia dissacratoria, che non aveva (e non ha) eguali. Un copione perfetto replicato, anche se non con lo stesso impatto, pure nel secondo album, "Less talk, more rock", che, se vogliamo, è ancora più "politico" del primo (ci sono pezzi di spoken word), ma che comunque si basa sempre sulla formula vincente: melodia, aggressività e grandi liriche. Siamo al 1996 e a quel punto John, il bassista, decide di mollare il gruppo per fondare gli Weakerthans (un mix fra pop, rock acustico, indie-rock ed emo che non mi ha mai fatto saltare sulla sedia, ma che comunque aveva e ha una sua dignità). E lì iniziano i casini. Il terzo disco su Fat arriva dopo 4 anni (nel 2001) e si intitola "Today's empires, tomorrow's ashes": il suono si è decisamente inspessito, le melodie hanno iniziato a scarseggiare, ma, e lo dico a posteriori (dato che all'epoca rimasi delusissimo), l'album resta un buon lavoro. Magari con i suoni leggermente più sporchi e duri rispetto al glorioso passato, però si tratta ugualmente di una svolta interessante e non scontata. All'epoca Chris (il cantante-chitarrista) e Jord (il batterista) avevano detto di essersi stancati del classico hardcore melodico in stile Fat Wreck e di voler riscoprire le loro radici punk e hardcore Anni Ottanta, fatte di suoni brutali e metallici, canzoni veloci e voci urlate. E va bene, in fondo ci poteva anche stare. Però poi, da lì in avanti, si sono fatti un po' prendere la mano. E per quel che mi riguarda sono diventati una band molto meno interessante e - scusatemi se lo dico - molto più anonima.
Il disco della svolta in negativo, per quel che mi riguarda, è il successivo: "Potemkin City Limits", uscito nel 2005 e ultimo sotto l'egida della Fat (e poi capiremo anche perché). Ricordo che, quando è uscito, mi sono precipitato, come al solito, a comprarlo sulla fiducia (anche perché all'epoca era difficile trovarlo da scaricare in anticipo), con la (folle) speranza che i Propagandhi potessero tornare quelli degli Anni Novanta. E invece niente. Anzi, il suono aveva preso una piega, o forse sarebbe meglio dire deriva, inaspettata, visto che oltre a proseguire sulla strada dell'hc-metallico, i nostri si erano persino inventati una sorta di hardcore "progressivo" (ok, adesso potete pure sparare quando volete) che non aveva nulla a che fare col passato. Sui testi, naturalmente, nulla da dire. Sempre la solita lucidità senza compromessi. Anche se, quella volta, Chris e co., hanno leggermente pisciato fuori dal bulacco, visto che nel pezzo "Rock for sustainable capitalism" se la sono presa persino con Fat Mike (che però gli ha pubblicato ugualmente il disco, guarda un po') accusandolo di essere uno dei responsabili della "normalizzazione" e della commercializzazione del punk (tutto era nato dalle posizioni pro Democratici del cantante dei NOFX contro la rielezione di Bush). Ma vabbè adesso non è che questa storia ci freghi più di tanto. Il fatto è che, invettiva contro Mike a parte, "Potemkin", anche a distanza di tempo, resta un disco ben scritto, ma con un suono di merda, pieno di canzoni piatte che faticano a entrarti in testa. Quando l'ho sentito per la prima volta sono stato tentato di prenderlo e cacciarlo fuori dalla finestra. Ma erano pur sempre i Propagandhi, cazzo, una delle mie band preferite. E poi tutti ne parlavano bene. Così me ne sono stato zitto e buono, sperando che con l'album successivo questa follia sarebbe giunta al termine. E invece niente. Pure "Supporting Caste" del 2009, stavolta pubblicato dalla loro G7 Welcoming Comittee (perché Mike è bravo e buono, ma fino a un certo punto) è un altro disco pieno di schitarrate, mini-assoli, hardcore progressivo, zero ritornelli, nessuna melodia decente, voce alta e cambi di tempo. In parole povere: una specie di thrash metal senz'anima (mica parliamo dei Sod, purtroppo). Ma visto che sono un inguaribile romantico e per un breve periodo della mia vita ho avuto qualche soldo da buttare in dischi inutili, tre anni dopo ci sono ricascato e appena è uscito il nuovo album dei Propagandhi -. e siamo arrivati al 2012 - c'ho lasciato le solite 18 carte a scatola chiuse. Mi ero illuso che uscendo per Epitaph (ma dovevo capire che si trattava pur sempre dell'Epitaph degli anni Duemila) ci sarebbe stato un magico ritorno alle origini. E ancora una volta sono rimasto deluso. "Failed states", siamo sempre lì, è il solito disco monolitico da mezzi metallari (i ritmi sono pure più lenti), che contiene una sfilza di brani cantati male, suonati (tecnicamente) bene (e scusate se mi incazzo!), con testi ben scritti, ma con zero personalità. Mi spiace, ma resto un fan del rock'n'roll. E anche se ascolto tonnellate di hardcore vecchia scuola, quello che fanno oggi i Propagandhi (ultimo disco compreso) è tutto fuorché un ritorno alle radici di quel suono. A me, continuo a ripeterlo, pare la solita metallata new school, dove bisogna mostrare i muscoli e persino l'abilità tecnica (ci rendiamo conto?). Tra l'altro, dopo l'uscita di "Failed states", ho avuto persino la malaugurata idea di andarli a vedere dal vivo, sempre nella speranza che facessero un concerto pieno di vecchi classici, tipo "Haille Sellasse up your ass". E invece niente. Mi pareva di stare a sentire gli Snapcase o peggio gli Iron Maiden. Comunque: tutta questa pappardella è servita per farvi capire con quale stato d'animo mi sia avvicinato al nuovo disco del mio ex gruppo preferito, uscito un paio di giorni fa. La diffidenza era tantissima e le aspettative negative sono state ampiamente confermate. E quindi ritorniamo alle "due palle" assegnate all'inizio di questo post delirante. La differenza col passato, però, è che questa volta non mi fregano. L'album non lo compro manco se lo becco usato a metà prezzo. E corro ad ascoltare "How to clean everything" e a sperare in un tour celebrativo di quel disco, per riprendermi i Propagandhi della mia adolescenza e poter finalmente cantare sotto il palco "Anti Manifesto".




mercoledì 27 settembre 2017

Un po' di recensioni a babbo

Giusto per spezzare un po' il logorio della vita moderna e interrompere la fitta serie di recensioni libresche - che altrimenti sembro quasi un intellettuale - ecco qualche giudizio rapido e tranchant su alcuni dischi ascoltati in quest'ultimo periodo (su cd, vinile, bandcamp, comprati nuovi, usati o sottratti con l'inganno a qualche vecchio punk, insomma un po' di tutto):

Tyrannamen - Tyrannamen

Disco incredibile uscito l'anno scorso, ma su cui ho messo le mani solo di recente. Sti ragazzacci australiani mescolano, amabilmente, garage, punk e glam. Melodie vorticose concentrate in pochi ma buonissimi pezzi. Davvero una rivelazione: come il salame con i fichi.

The Minneapolis Uranium Club - All of them naturals
Altro viniletto vecchio di un anno e altro regalo. Qui siamo dalle parti dei Devo, ma molto più lo-fi e rock'n'roll. Pezzi schizzati e schizzoidi, rumorosi al punto giusto, ma anche "space". I Minneapolis Uranium Club suonano una specie di kraut-rock'n'roll disperato e minimale, in cui le chitarre taglienti fanno da contraltare a una voce de-voluta e gracchiante. E come se non bastasse in mezzo al casino punk di sottofondo, qualche scienziato pazzo prova pure a spippolare un paio di manopole a caso.

Dalton - Dei malati
Se l'esordio "Come stai?" era un capolavoro assoluto e uno di quegli album destinati a rimanere (non solo nello stereo), questa seconda uscita dei romani Dalton è, per forza di cose, meno dirompente e clamorosa della precedente. Ma messi da parte i paragoni con il passato (recente) "Dei malati" è comunque un altro grande disco, in cui i nostri riaggiornano la loro personalissima versione del pub-rock in salsa oi!, spingendo di più sul versante pop-melodico-cantautorale. Non c'avete capito un cazzo? Bene, è l'informazione che volevo, direbbe il Mascetti. Perché qui c'è poco da capire: i Dalton sono uno dei migliori gruppi italiani in circolazione. Suonano potenti, poetici e rock'n'roll come pochi. E hanno una vena "epica" che mi fa letteralmente impazzire.

Leisfa - Liturgie di fallimenti e sconfitte
I mie concittadini Leisfa (che sta per Luca e i suoi fantastici amici, un nome secondo me grandioso e ignorante) sono uno dei gruppi hardcore più eccitanti e sinceri che possiate trovare oggi in circolazione. Questo nuovo disco, appena uscito in cd dopo due album in vinile più fanzine, è senza dubbio il loro lavoro più maturo e riuscito. Le nove canzoni sono "leggerissimamente" meno veloci rispetto al passato, ma se i tempi rallentano, la furia cieca della band genovese non ne risente minimamente. Anzi, il risultato è un disco ancora più violento e angosciante, dove la voce struggente e massiccia di Gippy sbuca fuori da un muro di suono tempestoso e compatto.

Tagliamidettagli - Nel segreto
Della serie dacci oggi la nostra figura di merda quotidiana. Il cui protagonista, naturalmente, sono noi, non la band, che spacca pure parecchio. Perché in un recente scambio dl librosullefanze con alcune produzioni Porrozione, mi sono trovato fra le mani il cd dei Tagliamidettagli e, appena messo nello stereo, sono rimasto piacevolmente colpito dal loro hardcore melodico (ma non troppo) suonato alla vecchia, ma prodotto bene. Qualche giorno fa, poi, mi ha scritto Paolo Caccio (ex Popsters e Semprefreski) chiedendomi si mi andasse di recensire il disco della band dove suona oggi. Naturalmente, bruciato come sono, non avevo collegato che si trattasse degli stessi Tagliamidettagli (gruppo hc anni novanta che si è recentemente riformato), ma appena mi sono messo ad ascoltare l'album su bandcamp: ecco la rivelazione. Tutto questo per dirvi che questo minicd (si tratta di 5 pezzi) è davvero una gioia per le orecchie. La band siciliana mi ricorda un po' i Kina-Frontiera (per le melodie) e i Sottopressione (per la potenza). Un hc davvero personale, che sa il fatto suo.

Alieni - Brucia la città

Gli Alieni vengono da Roma e mantengono fede al loro nome pubblicando un disco assolutamente fuori di testa e inclassificabile. Certo, ci troviamo sempre nei territori del punk, del rock'n'roll e del pub-rock, ma chi pensa di aver già inquadrato la band con questi piccoli e semplici dettagli si sbaglia di grosso. "Brucia la città" è un album urticante, turbolente e irrequieto. La voce di Tiziana, spesso paragonata a una Loredana Bertè punk (e diciamo che la suggestione regge), è un concentrato di rabbia senza fine. Sotto la band macina un rock'n'roll robusto e vibrante. Al di là della cover che ti spiazza ("Confessione" del gruppo prog Biglietto per l'Inferno), in alcuni momenti gli Alieni mi ricordano - a livello sonoro ma di certo non attitudinale - gli Incesti, il gruppo "fake-punk" italiano che le major avevano lanciato per cavalcare la moda del momento. Il loro 45 giri, al di là del testo nonsense, ha un'anima pub-rock che rivedo in questo quartetto romano. Per il resto gli Alieni sono tutto un altro pianeta, e che pianeta!

Capitalist Kids - Brand damage
Tra i dischi dell'anno c'è sicuramente questo nuovo lavoro dei Capitalist Kids. Ho avuto la fortuna di conoscere Jaff, il cantante, durante una sua recente vacanza genovese a casa di Simo Maffo, ma se il disco fosse stato una ciofeca non mi sarei fatto troppi problemi a dirlo. Invece "Brand damage" è l'anello di congiunzione perfetto fra pop-punk e power-pop, con in più la particolarità che almeno una buona metà dei pezzi tratta di temi politici e sociali. Jeff scrive ottimi testi, ma anche melodie superbe. Un album da ascoltare tutto d'un fiato e da lasciare giorni e giorni a girare nello stereo.




domenica 24 settembre 2017

Storia vissuta del punk a Los Angeles

Va bene, la copertina e il titolo di "Storia vissuta del punk a Los Angeles" di John Doe e Tom DeSavia, appena uscito per Giunti, lasciano un po' a desiderare: perché la cover sembra quella di un diario scolastico da quattro soldi e perché, mentre il libro, in originale, citava lo splendido terzo disco degli X "Under the big black sun", qui invece si è preferito buttarla sul didascalico. Detto ciò lungo le 250 pagine di questo volume imprescindibile - tradotto molto bene da Andrea Valentini - si racconta una delle storie più ingiustamente sottovalutate del primo punk: la scena di Los Angeles. Naturalmente non dico che della California di fine Settanta e primi Ottanta non si sappia un gran che e che John Doe sia arrivato a illuminarci la strada con questo suo bel volume (anche perché il libro - ma poi lo vedremo - non è certo quel che si può definire un testo con delle velleità storiche). Ma a essere onesti bisogna anche ammettere che su New York e Londra, e sui primi vagiti di quel tipo di punk delle origini, si è scritto in lungo e in largo in questi anni e sono tantissime le pubblicazioni che analizzano ciò che è accaduto fra il 1975 e il 1980 in quelle due città simbolo. Per ricostruire il punk di Los Angeles invece - soprattutto in Italia - ci si è sempre dovuti affidare più ai dischi che ai libri. Germs, X, Go-Go's, Flesh Eaters, Gun Club, Alley Cats, Fear, Zeros e le tante band che, tra il '76 e il '77, hanno cominciato a infuocare i locali malfamati e gli scantinati più lerci e polverosi della città degli angeli hanno lasciato, per fortuna, una fitta discografia a cui poter attingere, senza doversi svenare. Quello che mancava era qualcuno che mettesse un po' di ordine in mezzo a tanta musica stupenda.
Già perché, secondo il mio modesto parere, la scena punk californiana (e quindi non solo di Los Angeles, ma anche di San Francisco) di fine Settanta-primi Ottanta resta uno degli apici dell'intero movimento. Quella miscela speciale e unica di rock'n'roll marcio e malato, musica delle radici, violenza e pop-art allucinata mi hanno conquistato sin da ragazzino, quando ho avuto il mio battesimo del fuoco con "Los Angeles" degli X. Quindi, diciamo che l'attesa per la pubblicazione di questo testo fondamentale era tanta. E le aspettative, almeno per quel che mi riguarda, non sono state tradite.
"Storia vissuta del punk a Los Angeles" non è, come accennavo prima, un libro storico. Dentro non ci troverete quindi una ricostruzione minuziosa, con tanto di date e discografia consigliata di quella scena particolarissima e devastante. L'approccio di John Doe e Tom DeSavi è più emozionale, che "accademico". Ogni capitolo del libro raccoglie la voce di un protagonista di quei giorni (dagli stessi due autori, che intervengono più volte, a Harry Rollins, Mike Watt, Exene Cervenka, Jane  Wiedlin delle Go-Go's, Chris D. ecc ecc). Un collage di esperienze e punti di vista differenti sul medesimo periodo, che hanno il merito di costruire una sorta di storia orale del primo punk di Los Angeles. Naturalmente all'appello manca tantissima gente (per esempio sarebbe stata interessante una testimonianza degli Screamers, uno dei gruppi più citati in questo volume e una delle band più eccitanti del periodo, nonché fra i pochissimi a non aver inciso alcun disco ufficiale). Ma "Storia vissuta del punk a Los Angeles" resta una lettura piacevole ed eccitante, piena di aneddoti e micro storie che si incrociano. Soprattutto, in questo libro, emerge una punto di vista interessante e assai condivisibile sui confini temporali (e non solo) della prima scena punk della città degli angeli, rispetto all'esplosione dell'hardcore.
Se ci fate coso, poco prima, ho fatto un breve elenco dei gruppi punk di Los Angeles e non ho citato, volutamente, Black Flag, Minutemen e più in generale tutto il giro SST di cui, comunque, in questo volume in parte si parla. Quelle band - anche se i primi Black Flag forse restano una cosa a parte - sono molto diverse, dal punto di vista musicale e attitudinale, da X, Zeros, Screamers e compagni; una seconda generazione di punk losangelini - quella dei surfisti delle vicine periferie e della violenza cieca sopra e sotto il palco - che ha pochissimo a che fare con chi li ha preceduti. E nel libro, di queste differenze, si parla chiaramente e senza troppi giri di parole. Se il primo punk di Los Angeles privilegiava un approccio più artistico e personale, più aperto, ma anche satirico e in un certo senso politico e intellettuale, l'hardcore che aveva iniziato a insinuarsi e che poi ha sostituito quella scena, mostrava un'attitudine più muscolare e senza compromessi. Non è un caso che, a parte rare eccezioni, nessuno della prima scena punk si trovò coinvolto in quella hardcore, come se ci fosse stato una sorta di passaggio di testimone (non del tutto indolore). Anzi, in un certo senso sembra proprio di trovarsi di fronte a due controculture completamente diverse e con pochissimi punti in comune. Una serie di riflessioni che mi sono sembrate molto simili a quelle lette qualche anno fa in una delle guide pratiche di Rumore sulla storia del punk italiano scritte da Luca Frazzi. Glezos, uno dei pionieri del punk di casa nostra, spiegava in poche ed efficaci parole la differenza fra primo punk e hardcore: "Avvertimmo che il cambiamento portava a una cosa che c'era già stata. L'hardcore per noi è sempre stato visto come una cosa da hippies". Una storia molto simile a quella accaduta a Los Angeles, salvo che in quel caso, forse, gli hippies erano proprio i primi punk. Anche a Londra e a New York c'è stato un passaggio di testimone fra la prima scena e quelle che sono venute dopo, ma in entrambi i casi la linea di demarcazione è stata meno netta o comunque meno problematica rispetto alla frattura che si è venuta a creare a Los Angeles e, con le dovute proporzioni, anche in Italia: nella capitale inglese dalle ceneri del punk è nato il post-punk, mentre l'hc è sempre stato un fenomeno più marginale (a parte il filone crassiano e anarcho che però è tutta un'altra storia); all'ombra della Statua della Libertà invece prima dell'hc di fine Ottanta ci sono stati la no wave e il noise che hanno comunque spinto l'acceleratore più sull'approccio artistico, intellettuale e avanguardistico, che sul tono muscolare della musica. Vabbè, forse mi sono un po' perso. Comunque "Storia vissuta del punk a Los Angeles" è un gran bel libro: procuratevelo alla svelta.


mercoledì 20 settembre 2017

A cavallo della "Superonda"

Qualche giorno fa ho finito di leggere "Superonda" di Valerio Mattioli: un bel volumone di oltre 600 pagine sulla "Storia segreta della musica italiana" (come recita il sottotitolo) fra il 1964 e il 1976.  Per finirlo mi ci è voluto quasi un mese: non solo perché, nel frattempo, come al solito, ho letto un botto di fumetti e riviste, ma soprattutto perché "Superonda" è un libro difficile, che richiede attenzione e un po' di sana lentezza. Mattioli, che avevo già imparato a conoscere grazie ai fantastici Heroin in Tahiti - la classica band che non dovrebbe piacermi e che invece mi fa uscire di testa - è riuscito, con questo volume pubblicato da Baldini & Castoldi, a raccontare una storia eterogenea ma bellissima, oscura e mainstream, mettendo finalmente ordine in una materia incasinata come la musica italiana contemporanea nella sua prima fase propulsiva.
Se devo proprio fare un appunto all'autore, che però appunto non è, è che mi pare davvero un peccato che "Superonda" si fermi proprio alla vigilia del '77 - anche se qualche leggerissimo sconfinamento c'è - visto che mi piacerebbe molto leggere "la versione di Mattioli" del periodo musicale che amo di più (il punk, la new wave, l'hardcore, il revival garage e magari anche le posse). Però, diciamoci la verità, su quelle vicende, ormai, esiste, anche in Italia, una folta pubblicistica. E anche se mi incuriosirebbe molto leggere cosa ne pensa l'autore di "Superonda" del primo punk italiano, tanto per fare un esempio, non è che ci sia un vero e proprio vuoto editoriale in materia. Sul periodo trattato dal libro, invece, direi che non esiste un'opera completa e accurata come questa. Anche la scelta di come trattare la vastissima materia musicale racchiusa in questi 12 anni che cambiarono l'Italia è secondo me molto azzeccata. Mattioli non può non citare gli urlatori, il beat italiano, il prog e i cantautori, ma visto che quei mondi musicali sono già stati oggetto di numerose pubblicazioni e disamine, in "Superonda" vengono inseriti all'interno di un discorso molto più ampio, dove trovano maggiore spazio scene e artisti che potremmo definire non convenzionali, o quasi. Certo, uno come Morricone - di cui si parla parecchio - ma anche uno come Battiato - altra "star" del libro - non sono degli illustri sconosciuti. Ma tra le pagine di "Superonda", grazie anche a interviste di prima mano, esce fuori un sorta di lato oscuro - o sarebbe meglio dire meno noto - di queste e altre figure, assurte ormai a santini della musica pop italiana. Anche di Battisti, per esempio, si privilegiano alcuni momenti meno noti della sua biografia. E lo stesso si fa con tante altre star come gli Area o Alan Sorrenti.
Al di là dei tanti capitoli in cui è diviso il libro - dall'epopea della library music alle mille facce della "musica contemporanea", dal prog alle colonne sonore, dal free jazz ai mitici anni del Piper - quella contenuta in "Superonda" è una storia con un unico filo conduttore unico: un racconto fatto di tante piccole vicende, che però hanno un legame fra loro. Mattioli non lavora per compartimenti stagni, ma sviluppa un discorso e un pensiero organico attraverso le fasi della storia musicale italiana del secondo dopoguerra. Commenta, analizza e mette insieme gli avvenimenti con molto scrupolo e tanta competenza e il risultato è un'epica del primo pop di casa nostra come, credo, non sia mai stata raccontata fino a questo momento. "Superonda", per la sua imponenza e la sua importanza storica, è quindi un vero e proprio caposaldo, un classico - anche se è uscito appena un anno fa - che tutti gli appassionati di musica dovrebbero leggere (e chi se ne frega se vi sembra la solita frase fatta: in questo caso è la pura verità). Un viaggio vorticoso e clamoroso, che parte dalle radici stesse del pop italiano, ma che non si limita esclusivamente all'aspetto musicale. In "Superonda", infatti, come chiarisce il titolo del libro che cita il mitico divano del Superstudio di Firenze, c'è anche spazio per le varie avanguardie artistiche che sono esplose in Italia dalla metà degli Anni Sessanta alla metà degli Anni Settanta (cinema, pittura, architettura, design: arte, insomma), offrendo uno spaccato culturale e sociale, che si lega a doppia mandata alla musica. Nel libro ci sono personaggi ricorrente (i già citati Morricone e Battiato come non li avete mai visti) e vere e proprie icone sotterranee (ma non troppo) come Mario Schifano o Gianfranco Manfredi. "Superonda" è un racconto selvaggio, ma al tempo stesso accademico, scritto come un assalto al treno della cultura pop.


giovedì 14 settembre 2017

Ti ricordi Grant Hart?

Questa merdosa giornata di fine estate, carica di nuvole gonfie, s'è portata via Grant Hart degli Husker Du, uno dei miei eroi musicali di tutti i tempi o più semplicemente uno dei dieci artisti che hanno influenzato di più la mia vita. E lo dico dal punto di strettamente personale, naturalmente, visto che non sono né un musicista, né un poeta, né uno scrittore. Grant Hart - insieme a Bob Mould e Greg Norton - ha sconvolto la mia esistenza a partire dal giorno in cui, a 16 anni e senza troppa convinzione, ho comprato il cd di "Warehouse" al Music Store. L'avevo preso solo perché i Green Day non facevano altro che citare gli Husker Du come una delle loro più grandi fonti di ispirazione. E se devo essere sincero non fu amore al primo ascolto. Però nel giro di pochi mesi e provando a recuperare anche il resto della discografia della band, mi sono lentamente e inesorabilmente innamorato di un suono che ancora oggi fatico a decifrare, ma che adoro. In un certo senso è stato come quando, da ragazzino, ho assaggiato per la prima volta la birra: all'inizio, abituato com'ero a bibite zuccherose e appicicaticce, mi era sembrata una roba strana, amara e quasi imbevibile. Poi sappiamo tutti com'è andata...
Gli Husker Du sono il mio gruppo preferito insieme ai Clash, perché, come Strummer e soci, mi hanno accompagnato lungo tutto l'arco della mia vita "vera" (dai 14 anni in su, anche se gli Huskers sono arrivati poco dopo). Senza stare a fare troppo il retorico, queste due band hanno forgiato la persona che sono oggi. Nel bene e nel male. E così, quando questa mattina ho letto della morte di Hart, che non era solo il batterista e cantante saltuario, ma era anche uno dei due maggiori compositori del gruppo, mi sono sentito letteralmente mancare la terra sotto i piedi. Sono rimasto intontito per qualche secondo e poi (per un momento) ho pianto.
Grant Hart è morto a 56 anni nel silenzio quasi totale della stampa mainstream. Al massimo si è guadagnato qualche citazione sui siti dei quotidiani italiani, con pezzi scopiazzati da Wikipedia o scritti senza troppo entusiasmo. Eppure la maggior parte della musica rock che abbiamo ascoltato dagli Anni Novanta a oggi ha un grosso debito nei suoi confronti e più in generale verso gli Husker Du. Anche se ci sono milioni di persone che ascoltano e consumano i dischi dei Nirvana e dei Foo Fighters, purtroppo, pochi di loro sanno che le fondamenta di quel suono si devono proprio a questo magico trio di Minneapolis, che una trentina di anni fa mise le basi per quelli che sarebbero stati il grunge, l'indie e il rock "alternativo" dei decenni a venire. Tra le altre grandi cose che gli Husker Du sono riusciti a fare in neppure due lustri di carriera, c'è anche l'aver sdoganato, presso il grande pubblico, un modo nuovo di intendere il rock'n'roll, visto che Mould, Hart e Norton sono stati i primi del giro post-hc e indie degli Anni Ottanta a firmare con una major, aprendo la strada a tante altre band (i Rem su tutti) che hanno fatto la storia della musica. A differenza di Stipe e co., però, non sono mai diventati ricchi e famosi. Anzi, si sono presi gli insulti all'epoca per aver lasciato la SST per la Warner e sono finiti a dover sbarcare il lunario facendo un po' di tutto per tirare a campare. E oggi sono poco più che un piccolo culto, maledizione.
Dopo lo scioglimento degli Husker Du, avvenuto in modo piuttosto tempestoso nell'87 (di mezzo c'è stato anche il suicidio del loro manager), Hart è stato il primo dei tre a pubblicare qualcosa. Prima un singolo davvero niente male ("2541") e poi un album solista meraviglioso, "Intolerance". Nei primi Anni Novanta il nostro ha provato anche a mettere su una band: i poco fortunati Nova Mob, con cui ha abbandonato la batteria per fare finalmente il frontman. Con questo nuovo progetto (una sorta di gruppo parallelo agli Sugar di Mould) ha inciso due album: il primo, "The last days of Pompeii", piuttosto interessante anche se lontano dalle vette di "Intolerance" o degli Husker Du e il secondo, omonimo, meno ispirato, ma tutto sommato accettabile. Poi sono arrivati i dischi solisti, sempre più incasinati e pretenziosi, con alcune perle incredibili, ma anche qualche passo falso. Parliamo di pochi album, in realtà ("Good news for modern man", "Hot wax" e "The argument"), intervallati fra loro da parecchi anni di silenzio.
Hart è sempre stato un tipo molto incasinato; aveva conosciuto prima Greg e poi Bob in un negozio di dischi a Minneapolis. Amava i Ramones, ma anche la musica psichedelica degli anni Sessanta. Negli Husker Du, dopo la fase furiosa dei primi anni, era diventato l'anima più poetica e melodica. Era quello, tanto per capire, che sapeva scrivere e cantare i brani più pop della band, senza alcuna paura di osare. Quando gli Huskers erano all'apice della loro carriera underground, Hart si era infilato in storiacce di droga e aveva iniziato un duro braccio di ferro con Mould sulla direzione musicale che avrebbe dovuto prendere la band. Ormai, soprattutto negli ultimi due anni di vita, il gruppo era diviso in due: Mould da una parte e Hart dall'altra, mentre Norton cercava faticosamente di fare da paciere. Chi li ha visti a Torino in quella magica data italiana dell'87, poco prima dello scioglimento, racconta che fra il chitarrista e il batterista c'era un gelo totale. Non si guardavano neppure in faccia. Hart era sempre stato quello più "ribelle" e spigliato, mentre Mould era quello introverso e riflessivo. Due prime donne che faticavano a convivere fra loro. Non a caso "Warehouse", l'ultimo lavoro della band, è un album doppio che contiene in realtà due dischi distinti e bellissimi: uno di Hart e l'altro di Mould, che erano arrivati al punto di dividersi equamente le canzoni da scrivere e da cantare. Come sempre i pezzi del chitarrista sono quelli più duri e disperati, mentre i brani di Hart suonano più melodici e "allegri", pur conservando una vena di malinconia da fine del mondo. Un dualismo talmente forte da generare una frattura che i due si sono portati dietro per tutta la vita. Anche se pare che nell'ultimo periodo ci fosse stata, almeno a livello umano, una sorta di riconciliazione. Le parole che Mould ha scritto oggi sulla sua pagina Facebook a proposito della morte dell'amico sono senza dubbio una conferma di questo timido riavvicinamento fra i due.
Hart pare che se ne sia andato per un cancro che lo stava divorando già da qualche mese. Ma non ne so molto, a essere sincero. Avevo letto che proprio poco dopo lo scioglimento degli Huskers gli era stato diagnosticato, per errore, l'Hiv. I medici si erano sbagliati e quando Hart aveva saputo di essere sano era quasi rinato (e ci credo bene, cazzo!). Questa volta, invece, è tutto vero e anche la notizia di stamattina, o forse ormai dovrei dire di ieri vista l'ora, inizialmente sembrava una bufala. Pareva davvero assurdo che potesse accadere una cosa del genere; soprattutto che fosse successo così all'improvviso e proprio pochi giorni dopo l'annuncio dell'uscita, a novembre, di un mega cofanetto con alcuni inediti degli Husker Du, che in tanti avevano accolto come il primo passo verso una possibile reunion. E invece Hart è morto. E con lui s n'è andato via per sempre un pezzo della mia vita. E' successo così, all'improvviso e senza neppure bussare alla porta.


domenica 10 settembre 2017

Downtown Boys - Cost of living

Ogni volta che parlo dei Downtown Boys finisce che mi prendono per il culo. Non per la band in sé, ma per la venerazione che ho nei confronti di questi ragazzetti di Providence, in cui mi sono imbattuto un po' per caso un paio di anni fa. Non starò a farla tanto lunga, ma al di là delle battute e delle piccole frecciatine che ci scambiamo quotidianamente su Facebook o su Whatsapp c'è una "sottile" linea rossa che divide chi li adora come il sottoscritto e chi, senza troppi trionfalismi, li considera una buona band hardcore da ascoltare in macchina o sul treno, mentre va al lavoro: averli visti dal vivo. In Italia non siamo in tanti ad aver avuto un tale privilegio, visto che per ora la band ha suonato qui da noi soltanto due volte: una a Milano e una a Imperia, con una media di venti spettatori a botta. Sta tutta lì però la differenza fra me e voi stolti che ve li siete persi. Perché va bene che i dischi usciti finora sono una bomba, dal primo demo ristampato su vinile (grezzo, veloce e rabbioso), al capolavoro "Full Communism" fino il nuovissimo "Cost of living". Ma un concerto dei Downtown Boys è un'esperienza così totale ed elettrizzante, che vi sembrerà quasi di assistere al vostro primo live hardcore. Di questa storia però ho già parlato su Sottoterra e chi mi ha incontrato in giro nell'ultimo anno avrà sentito ormai cento volte il mio racconto di quel folle lunedì sera a Imperia insieme a Luca, Marco, mio fratello e un altro manipolo di illuminati (grazie Ale Pio per averli portati all'Arci Camalli). Quello di cui vorrei parlare oggi, invece, è il loro ultimo disco, uscito il mese scorso su Sub Pop.
Devo ammettere che quando ho saputo che i Downtown Boys avevano firmato per la label di Seattle ho storto un po' il naso, perché temevo che un ciclo - seppur breve - si fosse ormai concluso e che il loro hardcore così particolare potesse in un certo senso normalizzarsi. E' successo a tante band e, in alcuni casi, non è stato neppure un male. Per altre, invece, ha rappresentato un disastro. E così quando sono iniziati a uscire i primi pezzi in anteprima, che ho accolto come farebbe un tossico col metadone, ho cercato di capire se i miei timori fossero fondanti oppure no. Intendiamoci: non è che le due o tre canzoni pubblicate come antipasto del disco fossero brutte e insignificanti (che poi in questi casi è quello il maggior pericolo). Però non riuscivano a entusiasmarmi. E mi rodeva parecchio. Poi, poco prima che partissi per le vacanze è uscito in streaming l'intero album e due giorni dopo era già nei negozi.
Ascoltando il disco tutto insieme, anche se un po' di fretta, ho capito che le mie paure erano decisamente esagerate. Certo, la nostalgia per "Full Communism" era ancora molto forte. E ho dovuto attendere di stringere fra le mani il vinile, metterlo sul piatto e stapparmi una Moretti per fare definitivamente pace con "Cost of living". Pur essendo consapevole che non lo amerò mai come il suo predecessore (che beneficia comunque dell'effetto "sorpresa" e del fatto che, come tutti i dischi importanti, è stato scritto e inciso in uno stato di grazia forse irripetibile), il nuovo lavoro dei Downtown Boys è comunque un altro album che lascia il segno. La struttura resta fondamentalmente la stessa: hardcore isterico e progressivo, con sax impazzito a rincorrere la voce stridula di Victoria; canzoni politiche e schierate ma senza il classico abuso di slogan, cantante in inglese e in spagnolo. Un vortice di suoni che mescola Fugazi, X-Ray Spex, MC5, Minutemen e jazz-rock. "A wall", il pezzo che apre il disco è un vero e proprio inno e un nuovo classico dei Downtown Boys, con il suo incedere epico e storto, capace di farti battere il cuore anche alla veneranda età di 35 anni. Saltando come un grillo al lato B, "It cant' wait" è un'altra scheggia impazzita impastata di melodie acide cantante in coro, mentre "Promissory note" (di uovo lato A) è quasi un omaggio ai già citati Fugazi (non a caso in regia siede Guy Picciotto...). Ma come dico spesso (ripetendomi) è tutto l'album a funzionare a dovere. Ogni brano sembra aggredire l'ascoltatore per non lasciarlgi scampo ("Because you" parte lenta e indecifrabile e poi ti prende letteralmente a bastonate sulle orecchie), il sax di Joe sfrigola come un matto in "Tonta" e sorregge l'intero impianto di un brano tumultuoso e ruvido come "Clara Rancia". Un altro inno contenuto nel disco è senza dubbio "I'm enough (I want more)" in cui i proclami irresistibili di Victoria si incastrano fra le linee di chitarra. E potrei restare qui per ore e ore a raccontarvela, per dirvi sostanzialmente che "Cost of living" è un ottimo album, che non vi tradirà. Quindi forse è arrivato il momento di piantarla e di andare a pulire il bagno.


martedì 5 settembre 2017

Robette niente male: gli Y.e.s. e i Planet Y

Per la serie "vedo cose, faccio gente" - etichetta sotto la quale andranno a finire i post sulle mie attività più disparate, tipo ascoltare musica sul divano, bere birrette e stronzzeggiare in giro - vorrei spendere qualche parola sui due 45 giri che ho recuperato nei giorni scorsi dalla distro di Gippy . (Lanterna Pirata). Se non fosse per il suo fiuto e la sua curiosità, come tutti gli anziani che continuano a comprare dischi, sarei fermo alle band dei miei 15-20 anni (il che, comunque, non sarebbe poi così male), ma devo dire che Gippy e gli altri giovinastri che affollano la scena punk genovese (tutti e cinque, intendo) sanno darmi, spesso, consigli interessanti.

Y.E.S. - E.p. # I


Non ho la più pallida idea di chi siano gli Y.e.s. (e non è che me ne importi più di tanto). Credo che siano tedeschi o almeno così c'è scritto sulla loro pagina bandcamp (ma il fatto che abbiano inciso un pezzo in italiano mi spiazza non poco, anche se la pronuncia è tutto un programma...). Quel che conta, comunque, è che pestano come ferrai e in pochi minuti riescono a infilare, sui due lati di questo singolo coprodotto da Lanterna Pirata e una manciata di altre label, otto canzoni di hc sferragliante, come non sentivo da un pezzo. Il suono ricorda un po' quello della California Anni Ottanta, dai Dead Kennedys agli Ill Repute passando - con fischio o senza? - per i JFA; senza andare troppo indietro nel tempo e restando dalle nostre parti, però, devo ammettere che gli Y.e.s. - che tra l'altro si chiamano quasi come una delle peggiori band mai partorite dalla contorta mente umana - mi ricordano piacevolmente gli ormai sciolti Anti-You di Roma (una delle mie piccole ossessioni in campo hardcore). Di solito, e qui mi calo proprio le braghe, non sono un fan sfegatato dei 45 giri (o 7 pollici, che dir si voglia), perché essendo piuttosto pigro mi rompo le scatole a dovermi alzare dal divano per girare il disco a intervalli così frequenti. Fisime da 'ex punk ora venduto' a parte, l'ep degli Y.e.s. è uno dei singoli più eccitanti degli ultimi mesi. 

https://yespunkband.bandcamp.com/releases

 PLANET Y  - Planet Y ep

L'altro 45 che mi è atterrato sullo stereo in questi giorni è il primo disco dei Planet Y di Copenhagen. Ancora una volta siamo dalle parti dell'hc californiano Anni Ottanta, con l'aggiunta però di quel tocco "nordico" che piace ai gggiovani e che ricorda deliziose meteore come i Vicious o i più recenti e indomiti Rotten Mind. Voce femminile e maschile che si alternano, coretti surf-punk, malinconia dark e chitarre sfrigolanti e sgangherate sono il piatto forte del menù acido e insuperabile che ci propone questo quartetto di ragazzacci. I ritmi sono un po' meno sostenuti rispetto agli Y.e.s. di cui ho parlato poco sopra; anzi qui le canzoni hanno un suono più ossessivo e disperato. Come se fossimo di fronte al lato oscuro del punk-hc. 

https://planetypunk.bandcamp.com/album/planet-y-ep





sabato 2 settembre 2017

L'effetto che mi fanno i NOFX - Recensione della loro biografia e altre amenità (Sono tornato, belandi)

Magari non lo sapete, ma qualche settimana fa Tsunami edizioni ha pubblicato uno dei libri dell'anno: "Una vasca per cesso e altre storie", la traduzione italiana della biografia dei NOFX - una delle mie band preferite di tutti i tempi - che in originale aveva un titolo un po' più interessante "The hepatitis bathtup and other stories" ("La vasca di epatite e altre storie").
Ma al di là di questo piccolo particolare non potrò mai ringraziare abbastanza la casa editrice milanese per aver portato in questa landa desolata e desolante un volume che, personalmente, attendevo con trepidazione da almeno un anno e cioè da quando è uscito per la prima volta negli Stati Uniti. E visto che l'inglese non è quel che si possa definire la mia seconda lingua (me la cavo, ok, ma alle medie ho fatto francese) ho accolto questa scelta illuminante della Tsunami come una benedizione. Il libro poi è uno spasso e come avrete già letto da altre parti mette in fila i ricordi e le ricostruzioni dell'intera storia della band a seconda dei punti di vista di ciascuno dei suoi componenti (attuali ed ex). La struttura ricorda un po' quella di "Please kill me", capolavoro e caposaldo della storia del punk newyorkese, che immagino tutti voi abbiate imparato a memoria. E così, sulla falsa riga di questo testo fondamentale, "Una vasca per cesso e altre storie" è stato concepito come una raccolta di capitoli che come titolo portano, di volta in volta, il nome del componente della band a cui in quel momento è affidato il racconto, in modo che ognuno possa dare la propria versione della storia. Lungo le pagine del libro non si parla solo di dischi e concerti, ma anche (e soprattutto) di alcuni episodi personali piuttosto scottanti e crudi (dalla droga agli abusi sessuali, dalle prime scoperte adolescenziali al rapporto coi genitori) che rendono la storia ancora più avvincente. Paradossalmente lungo le 350 pagine di questo sontuoso volume, scritto con l'aiuto dell'ottimo Jeff Alulis, si parla più di vita che di musica, tanto che gli anni del "successo" dei NOFX (dal '92 in poi) occupano una porzione minoritaria rispetto al periodo in cui la band muoveva i suoi primi passi. Addirittura di dischi importanti come "Punk in drublic" o "So long" quasi non si fa menzione, privilegiando aspetti meno conosciuti e più sfiziosi, come il racconto della cena fra il gruppo e gli "scagnozzi" di una major che aveva intenzione di metterli sotto contratto. Più che una biografia di una punk band, "Una vasca per cesso e altre storie", è stata definita una seduta collettiva dallo psicologo, una terapia di gruppo in senso letterale, durante la quale sono ammessi colpi bassi, critiche, scazzi interni, confessioni inconfessabili e drammi personali (la leggenda vuole che ciascun componente della band conoscesse soltanto la parte del libro relativa alla propria storia e che ignorasse cosa avessero detto gli altri, almeno fino alla definitiva pubblicazione). Se questo pettegolezzo sia vero o meno mi interessa davvero poco: quel che è certo è che ci troviamo di fronte una lettura avvincente, divertente, sgradevole e storicamente interessante. Perché se, come detto, degli anni d'oro dei NOFX si parla relativamente poco, una buona metà del volume è dedicata agli esordi del gruppo, quando Fat Mike e soci facevano letteralmente cagare e suonavano un hc stonato e monotono (a me, sinceramente, piacciono anche così, ma resta un problema mio...). Una scelta azzeccata, visto che in quelle pagine si racconta una fetta importante della scena punk e del primo hardcore californiano e americano, con storie e aneddoti che in pochi conoscono così a fondo. Il tutto, come ho già avuto modo di dire, scritto con uno stile scorrevole e molto diretto, che vi consentirà di bervi queste 350 pagina in pochi giorni.
Non pago di questo inutile fiume di parole, ho deciso che mi (o vi) voglio rovinare e quindi, insieme a questa sgangherata "recensione" del libro, parlerò (in poche righe) della sterminata discografia dei NOFX. Così, giusto per rompere un po'  i coglioni.

Piccola avvertenza: mi soffermerò solo sugli album, comprese alcune pseudo raccolte come "Maximum rock n roll", ma lascerò perdere la mole infinita di singoli e split. Farò giusto qualche piccola eccezione per alcuni ep, visto che in certi casi si tratta dischi piuttosto importanti per la storia della band. Cominciamo.

MAXIMUM ROCK N ROLL - Pubblicato nel 1992 dal Mystic Records, "Maximum rock n roll" è un bootlegone non autorizzato che gli stessi NOFX dicono di aver visto per la prima volta in un negozio, mentre spulciavano i dischi del reparto punk. Nessuno di loro ne sapeva nulla, però è un ottimo viatico per conoscere i primi e più rognosi vagiti della band. Qui dentro c'è il loro primo ep, ma ci potete trovare anche delle registrazioni ignoranti e sgangherate fatte proprio negli studi della Mystic quando i nostri erano agli inizi e nessuno se li cagava manco di striscio. Anche la copertina del disco è piuttosto brutta e raffazzonata. Io l'avevo comprato per completismo, quando ero ancora un pischello, dal defunto Pink Moon nei vicoli. Non costava poco all'epoca (era il 1999-2000 direi e avrò speso almeno 30 mila lire). Una volta infilato nello stereo mi aveva fatto subito cagare. Poi ho imparato ad amarlo ugualmente (forse).

LIBERAL ANIMATION - Anche se la copertina spacca, quest'album dell'88, vero e proprio esordio sulla lunga distanza della band, è una mezza ciofeca. Almeno al primo ascolto (ma pure al secondo e al terzo). Suoni sconclusionati, canzoni registrate e scritte alla cazzo e, particolare non da poco, un Fat Mike davvero (di)sgraziato alla voce. Quando Dibe me l'aveva venduto per poche lire a fine Novanta avevo capito subito di aver preso un pacco (ma a sua discolpa devo ammettere che ne ero piuttosto consapevole). Anche se lo ritenevo un album orrendo, facevo finta che mi piacesse. Ma oggi, a distanza di quasi 20 anni (per me) e 30 anni (per loro) penso che ci sia del genio in quei solchi. Pezzi come "I live in a cake" sono uno spasso senza senso. Detto questo "Liberal animation" non lo ascolto quasi mai.


S&M AIRLINES - Il primo disco "vero" dei NOFX, a detta loro. Siamo nel 1989. Ma se vi piace la band com'è oggi o com'era anche solo 25 anni fa (cacchio che vecchi che sono!) non è che ci sia tutta questa differenza con "Liberal animation". Ho sentito gente definire "S&M Airlines" uno dei loro migliori album. Ma si tratta dei soliti poseur che devono per forza fare gli strani. Non scherziamo: alcuni pezzi sono carini, ok, però in questo disco ci sono anche degli assoli simil metal (vi rendete conto???) che gridano vendetta. La voce di Mike migliora un po' rispetto al passato, ma nell'insieme "S&M Airlines" non si può beccare più di un 6 meno. Ricordo che l'avevo preso al Music Store dopo una lunga traversata ponente-centro sull'autobus numero 1, appena uscito da scuola. E forse il giorno dopo mi ero persino beccato un brutto voto, perché avevo passato il resto della giornata ad ascoltarlo e a capire perché avessi buttato via così i mie soldi.

RIBBED - Oh, finalmente ci siamo. Anche se qua e là si sente ancora qualche tamarrata di chitarra - credo che la colpa sia del buon Steve che da lì a poco, bontà sua, avrebbe lasciato la band, giusto un minuto prima che diventasse famosa - le radici del classico NOFX-sound di cui mi sono innamorato a 15 anni sono qui. Che poi, detto tra noi, non è altro che l'hc melodico dei Bad Religion di "Suffer" suonato e cantato peggio. Detto questo, a me, "Ribbed" è sempre piaciuto un sacco, perché il suono è ancora grezzo e sporco, ma le melodie ci sono tutte. I pezzi fighi sono una marea, sin dall'opener "Green corn" e fino ad alcune incursioni ska-core ("Food, sex & ewe") che erano non così scontate all'epoca (era pur sempre il 1991) e virate pop anni '50. Ho consumato la cassettina pirata di quest'album per una vita, prima di comprarlo originale in cd a una fiera del disco di qualche anno fa.

THE LONGEST LINE - La vera svolta dei NOFX arriva nel '92 con l'ingresso di Hel Efe, che non è un punk, ma suona e canta molto bene. I pezzi sono solo 5 e sono uno più bello dell'altro. Anche la copertina spacca e infatti la stampa e il pubblico cominciano ad accorgersi della band. "The longest line" si chiude con una canzone reggae (con coda punk) che si chiama "Kill all the white man" che all'epoca era diventata per me una vera e propria ossessione. La cassetta me l'aveva duplicata Tito, il mio mentore punk delle superiori. Alla fine di una manifestazioni in centro dopo l'ennesimo sciopero contro una delle tante riforme della scuola, sono andato da Ricordi e ho investito i soldi della mia paghetta in uno scintillante cd che ascolto con grande piacere ancora adesso.

WHITE TRASH, TWO HEEBS AND A BEAN - Sempre 1992 e ancora una volta un centro perfetto. Qui siamo ai massimi livelli dei NOFX: pezzi veloci, melodie pop, testi divertenti ma non scontati, scherzetti e battute disseminati qua e là. Questo album, quando ero un adolescente brufoloso di fine anni Novanta, non era facilissimo da trovare a Genova. Almeno per me che abitavo in periferia e non riuscivo ad andare così spesso in centro. Al tempo avevo sempre poche lire in tasca e così sono riuscito a recuperarlo soltanto in gita scolastica a Madrid (rinunciando a qualche birra e forse a qualche pasto) nel 1999. Un mio compagno aveva un lettore cd portatile (io ancora viaggiavo a walkman con cassetta) e credo di averglielo requisito per tutta la gita per sentire quel mio piccolo Santo Graal del punk.

PUNK IN DRUBLIC - Se vi siete già rotti le palle posso capirlo. Anche io comincio a dubitare dell'utilità di questa articolessa. Però mi spiace lasciare le cose a metà, così vi prometto che d'ora in poi sarò più breve (non è vero!). "Punk in drublic" è forse il disco più famoso e amato dei NOFX e chi sono io per sostenere il contrario? I pezzi sono tanti, ma non c'è alcun riempitivo. Non capirò mai per quale ragione abbiano escluso dalla tracklist un mezzo capolavoro come "Drugs are good" (titolo fenomenale e pezzo messo come b-side del singolo "Leave it alone"), ma per il resto, dall'inizio alla fine, c'è soltanto da godere. I nostri in questo disco della consacrazione e delle palanche vere (ne venderanno moltissssssimisssime copie) vanno ancora più veloci del solito e i testi sono una bomba. Siamo nel 1994.

HEAVY PETTING ZOO - Due anni dopo "Punk in drublic", nel 1996, i NOFX recuperano un po' di vena melodica e se ne escono fuori con un disco che, soprattutto loro, odieranno a morte per parecchio tempo. Sinceramente è il primo loro album che abbia mai ascoltato e mi piace da morire. Era l'estate del 1997 e Vizzi mi aveva passato la sua cassetta (duplicata) dicendomi: "Guarda che questi vanno molto più veloce dei Green Day...". E cazzo se aveva ragione. Appena è partito il tasto play sono stato letteralmente investito da "Hobophobic": 48 secondi di follia che ancora oggi mi fanno venire la pelle d'oca. A quel punto ho venduto a un amico la mia copia di "Blood sugar sex magic" dei Red Hot e dopo aver racimolato qualche lira in più sono corso da Sonorama a comprarmi il cd originale. La copertina è stupenda (un contadino che fa una 69 con una pecora) e non so dirvi quanto abbia cantato a squarcia gola le canzoni di questo disco, inventandomi di sana pianta le parole, visto che i testi erano scritti a cane nel libretto. Vado pazzo per "Heavy petting zoo" e non me ne frega nulla di cosa ne pensino Fat Mike e i fan della band.

SO LONG AND THANKS FOR ALL THE SHOES - Questo è il primo disco dei NOFX che ho atteso con trepidazione, di cui ho letto una recensione in tempo reale e che mi sono andato a comprare da Ricordi appena è uscito. Per gli album precedenti invece si è trattato solo di un'operazione di recupero. Mi ricordo che quando ho visto le (finte) foto della band nel libretto del cd mi è quasi venuto un coccolone. Pensavo davvero che Mike, Hefe, Melvin e Smelley fossero quei vecchiardi ritratti lì dentro. L'album è molto eterogeneo: si parte con l'hc tirato di "It's my job to keep punk rock elite", ma poi ci si perde in varianti ska, ska-core, reggae ("Eat the meek") e persino strumentali quasi jazz come "Quart in session". Forse un disco di transizione. Ma comunque un gran disco di transizione. Anzi no, mi correggo: un super album. O forse sbaglio. Mah!

THE DECLINE - Questo ep del 1999 per me (ma credo anche per molti altri) è stato una vera botta. Nel senso che mai più mi sarei aspettato di comprare un disco dei NOFX in cui ci fosse un solo pezzo della durata di oltre 18 minuti. Roba da rock progressivo, ho subito pensato quando ho infilato il cd nel computer (all'epoca non avevo uno stereo degno di questo nome) e ho letto: 1 traccia, minuti 18,19. Poi però ho schiacciato play ed è stata una rivelazione. Anche perché "The decline" è più un collage di pezzi che una canzone unica. E visto che mantiene tutte le caratteristiche essenziali dei NOFX (velocità e melodia) ci sono subito andato a nozze.

PUMP UP THE VALUUM - Mancava poco ai miei 18 anni (estate 2000) e io volevo a tutti i costi farmi regalare il nuovo disco dei NOFX. Altro che macchine (vabbè, magari) e feste in smoking (vi rendete conto di cosa andava di moda all'epoca???). Per il conseguimento della mia maggiore età desideravo soltanto mettere le mani sul nuovo album di una delle mie band preferite, che sarebbe uscito di lì a poco. Così mi sono fatto anticipare il regalo dai miei di qualche giorno e sono corso sul lungomare nel nuovo negozio di dischi a comprare "Pump up the valuum", giusto poche ore prima del mio primo concerto dal vivo dei NOFX al Decunstruction tour (che giorni meravigliosi erano quelli!). L'album non è niente male, la formula magari comincia un po' a stancare, ma i testi di Mike migliorano e i pezzi belli non mancano. Anzi ricordo che all'epoca mi piacevano praticamente tutte le canzoni e me le cantavo giorno dopo giorno in cameretta. Di ska non ce n'è praticamente più (anzi all'epoca i NOFX suonavano dal vivo un pezzo che si intitolava "We don't play ska anymore"). Ma la chiusa è un brano memorabile e folle come "Theme for a NOFX album": una specie di incrocio fra una polka e un pezzo tradizionale irlandese (che poi però accelera alla fine) in cui viene presentato ciascun componente della band.

WAR ON ERRORISM - Passa qualche anno, è il 2003, sono all'università ed esce il nuovo disco dei NOFX. Lo compro da Felipe Records e, come avevo letto su Internet e in qualche rivista nei mesi precedenti, l'album è fortemente schierato politicamente contro la rielezione di Bush a presidente degli Stati Uniti (in copertina il caro W è ritratto come un clown). Ancora una volta il mio giudizio a caldo è positivo: i pezzi mi piacciono (sono sempre i NOFX, belin) e l'esplicita scelta di campo (che proseguirà con punkvoter, le compilation "Rock against Bush" e tante altre iniziative) vale decisamente un punto in più. Oggi però, risentendo "War on errorism", al di là dell'immutato apprezzamento politico, sono meno entusiasta di un tempo. Certo ci sono pezzi che ancora adesso sono tra i miei preferiti dei NOFX: su tutti la doppietta "We got two Jealous Agains" e "13 stitches" che canto regolarmente sotto la doccia e che mi hanno fatto scoprire una marea di band e di dischi hc che non conoscevo (le due canzoni sono una sorta di bignami del punk). Però secondo me, in questo album, Mike e soci hanno iniziato ad accusare un po' di stanchezza.

WOLVES IN WOLVES' CLOTHING - Siamo nel 2006 e il mio rapporto coi NOFX è un po' meno solido. Addirittura l'album lo compro su ebay a qualche giorno dalla sua uscita, evitando il solito stalkeraggio ai danni del negoziante di dischi di turno. Eppure "Wolves in wolves' clothing" è un gran disco. Molto meglio del suo predecessore, ma forse va anche oltre "Pump up the valuum". I testi sono sempre più lunghi, corposi e ben scritti, ma anche le melodie fiche non mancano. Probabilmente siamo di fronte al disco più sottovalutato dei NOFX e Mike lo ricorda spesso nelle interviste. Non lo dico perché anch'io all'epoca l'abbia un po' snobbato, ma perché tutti, forse, in quel 2006, avevamo delle cose più interessanti da fare che appassionarci all'ennesimo disco (bello) dei nostri beniamini. "The Marxist brothers", titolo e testo geniali, è una presa per i fondalli degli ex amici (poi faranno la pace, he) Propagandhi, che avevano polemizzato con Fat Mike per "Rock against Bush" e poi lo avevano perculato in un pezzo del loro ultimo album, dicendogli in sostanza che se il punk era diventato così innocuo (domanda che lo stesso Mike si poneva nel primo brano di "War on errorism") la colpa era anche sua. Comunque: belle canzoni e bei testi, in questo disco. Non sottovalutatelo, mi raccomando.

COASTER  - Ci vogliono quasi tre anni (2009) per fare uscire "Coaster", anche se in mezzo ci sono i soliti singoli e progetti folli della band. Il disco, per una volta, è davvero una mezza delusione. Intendiamoci i pezzi non sono da buttare, ma dopo 25 anni i NOFX cominciano a usare un po' di mestiere. L'ho risentito recentemente e come tutti gli album della band post '92 suona bene: è compatto e melodico. Ma le canzoni sono un po' anonime (a parte rare eccezioni come "My orphan year"). I NOFX sono punk di mezza età, che hanno fatto i soldi (e non c'è niente di male in tutto questo). Però è chiaro che la benzina non può durare per sempre e in qualsiasi condizione. Detto questo meglio "Coaster" di "Liberl animation" e "S&M airilines" (dai, scherzo, su!).

SELF ENTITLED - Oltre al titolo geniale, quest'album del 2012, a mio modesto parere, rappresenta la vera resurrezione dei NOFX. Mike ha appena divorziato e se ne esce fuori con un disco difficile proprio perché nasce da una situazione di grande sofferenza. Anche il suo rapporto con le droghe, da qualche anno a questa parte, è diventato molto più intenso, e il risultato di questa miscela esplosiva è un album cupo, ma molto bello e granitico. C'è la solita satira senza compromessi ("72 Hookers"), ma ci sono anche pezzi che parlano senza remore dei suoi casini coniugali ("I've got one Jealouse Again, again" riaggiorna la precedente dichiarazione d'amore alla moglie diventata adesso ex). Ma "Sel Entitled" è un album che va ascoltato tutto insieme, senza prendere i pezzi qua e là. I brani sono ruvidi e veloci. Non ce n'è per nessuno.

FIRST DITCH EFFORT - Dopo un disco bello ma sofferto come il precedente il futuro dei NOFX (di questi NOFX) appariva piuttosto fosco: sciogliersi, pubblicare un album orrendo (tipo quello dei Green Day), piangere la morte prematura di Fat Mike (lanciato a mille nella sua esplorazione a tutto tondo delle sostanze più disparate). Erano queste, più o meno, le opzioni sul tavolo che i fan della band stavano vagliando. E invece questi vecchi punkettoni ciquantenni se ne sono usciti fuori, nel 2016 e quindi quasi quattro anni dopo "Self entitled", con un'altra bomba. Tredici pezzi stupendi, marci, sporchi, sinceri, addirittura cattivi (come nei pochi secondi di "Happy father's day" in cui Mike insulta il padre morto qualche anno prima): un vortice di hc melodico (moooolto melodico) in cui le canzoni restano il perno fondamentale. Perché sembra banale dirlo, ma i pezzi sono belli e ben scritti, tanto che "First ditch effort" appare, sin dal primo ascolto, come uno dei lavori migliori in assoluto sfornato dai NOFX, anche se è stato registrato in un momento piuttosto complesso per la band. Che bellezza: ho finito questo lunghissimo post inutile.