mercoledì 25 ottobre 2017

Nico, 1988 - Adesso faccio pure l'esperto di cinema

Ma lo sapete che a me, invece, "Nico 1988" è piaciuto? E sottolineo l'avverbio "invece" perché negli ultimi giorni ho letto parecchi giudizi negativi su questo film (salvo poi scoprire - dopo la mia esternazione su Facebook - che qualcuno che la pensa come me esiste, eccome). Ma al di là delle affinità e divergenze fra i compagni del giro punk e noi (inteso come gruppo di spettatori soddisfatti) uno dei vari pregi di "Nico, 1988" - regia di Susanna Nicchiarelli e con Trine Dyrholm nei panni della protagonista - è soprattutto l'idea che sta dietro questa produzione italo-belga e cioè raccontare un'icona della musica, ma anche della cultura pop (nel senso più artistico del termine), in uno suoi periodi meno glamour e più difficili: la decadenza e la morte improvvisa. Il film, infatti, parla degli ultimi due anni di vita di Nico, dal 1986 al 1988, quando l'ex femme fatale dei Velvet Underground era costretta a sbarcare il lunario imbarcandosi in tour europei scalcinati, tentava di riallacciare un rapporto difficile con il figlio e si faceva regolarmente di eroina. Non c'è traccia (tranne che in fugaci e lisergici flash back) della bellezza teutonica che aveva incantato la Factory di Wahrol e un giovane Iggy Pop, che con Nico aveva avuto una travolgente relazione ai tempi di "Fun house" provocando scazzi enormi all'interno della band; la protagonista di questo film è una donna di quasi 50 anni (anche se al mezzo secolo Christa Paffgen non arriverà mai per una manciata di mesi) che pare piuttosto infastidita da quell'immagine da sex symbol con cui tutti la identificano. Non ha paura dell'età che avanza e dei chili di troppo. E deve lottare ogni giorno con i fantasmi di un'esistenza tormentata. Insomma: chi va a vedere il film su Nico per vedere un film sui Velvet Underground lasci perdere e resti a casa ad ascoltare il disco con la banana in copertina. Gli altri, magari i fan di "The Marble index", "Chelsea girl" e del resto della sua obliqua e spiazzante produzione solista si accomodino pure in poltrona. "Nico, 1988", lungi dall'essere un capolavoro, è un film semplice, ma al tempo stesso intenso. E' costruito più su un collage di momenti - magari non sempre a fuoco come quelli che raccontano le tappe del tour in Italia (purtroppo non si parla della sua esibizione genovese) - che su una trama lineare. E questo, per me, è un altro punto di forza. La musica c'è; si sente ed è - scusate la banalità - catartica e dirompente. Trine Dyrholm è una Nico incasinata e ingestibile, insoddisfatta e magnetica. Forse non del tutto aderente alla realtà (perché a quanto pare Nico era una figura ancora più contraddittoria e indecifrabile di quanto venga descritta qui). Ma è comunque molto credibile. Certo, nel film ci sono alcune scelte un po' particolari che non sempre risultano condivisibili, come il fatto che l'attore che interpreta Dome La Muerte dei Not Moving (ma anche dei CCM) abbia inspiegabilmente la barba. Ma si tratta di dettagli, dai. Cose che notano solo i nerd del punk; tanto più che in una bella intervista sul film, lo stesso Dome appare divertito e soddisfatto di come sia stata racconta la sua parte nella vicenda (anche perché il suo personaggio riveste davvero un bel ruolo nell'economia della storia). Ma non voglio fare il solito sbrodolone e mi fermo qui. E l'unica cosa che mi sento di dire è che, a mio modestissimo parare, "Nico, 1988" vale i soldi del biglietto. Se proprio devo trovare un difetto a questo film direi che gli spettatori che non conoscono - almeno superficialmente - la storia della protagonista potrebbero non comprendere appieno la vicenda (per esempio che Nico muoia non è così immediato e se uno non lo sa, magari neppure se ne accorge).


mercoledì 11 ottobre 2017

I pirati dei Navigli - Il nuovo libro di Marco Philopat

Ogni volta che esce un nuovo libro di Marco Philopat vado in sbattimento. Perché è grazie a una lettura illuminante come "Costretti a sanguinare" (il suo esordio) se ho preso coscienza del punk italiano degli Anni Ottanta e se mi sono reso conto che la musica che tanto amavo e che mi aveva cambiato la vita non era fatta soltanto di stupide canzonette suonate a mille all'ora, ma era una vera e propria sottocultura (o controcultura), con radici forti e robuste anche in una periferia dell'impero come l'Italia. Volendo semplificare: "Costretti a sanguinare" - che non ho letto nel 1997 ma a cavallo tra '98 e '99 - è stato a tutti gli effetti il mio primo manuale di educazione "politica" al punk, inteso come "strategia di guerra", tanto per citare il Luca Frazzi delle mitiche "Guide pratiche di Rumore"; una "lettura maledetta" grazie alla quale mi sono infilato in tunnel di rumore assordante (la prima volta che ho sentito parlare dei Wretched e della prima scena hc italiana è stata in quelle pagine) e di movimenti di occupazione e autogestione, slegati e alternativi e quelli classici della sinistra extraparlamentare e post-sessantottina, seppur non così antitetici (ok la pianto che altrimenti sembro Folagra...). Insomma quel libro per me resta un totem assoluto, su cui sono tornato spesso nel corso degli anni e che considero l'apripista di una lunga e fortunata serie di volumi sul punk e l'hardcore italiani che continua ancora oggi. E così, quando ho saputo che, dopo vent'anni, Philopat avrebbe ripreso il filo del discorso che si era interrotto con lo sgombero del Virus, raccontando il "seguito" di quella vicenda sono corso in libreria e mi sono buttato a capofitto nella lettura de "I pirati dei Navigli".

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Prima di proseguire a parlare del libro, però, visto che di solito mi piace farla lunga e contorta, vorrei fare ancora qualche considerazione preliminare, che naturalmente consiglio a tutti di saltare a piè pari. Per gli amanti del masochismo invece ecco due o tre osservazioni in libertà. Innanzitutto mi sembra molto interessante che Philopat abbia deciso di continuare a raccontare la sua storia, da dove si era fermato "Costretti a sanguinare", dopo anni di lavori che l'avevano portato - narrativamente parlando - quasi sempre altrove: e cioè lungo un percorso a ritroso nella storia dei movimenti milanesi ("La banda Bellini" e "I viaggi di Mel", che compongono insieme all'esordio una splendida trilogia) e poi a confrontarsi con veri e propri romanzi di fiction (anche se intrisi di sottocultura) come "Roma k.o." e "Rumble bee", entrambi scritti insieme al Duka. Certo, Philopat era tornato a  parlare del punk italiano con "Lumi di punk" del 2006, ma quella era più un'antologia di testimonianze dirette dei protagonisti dell'hc di casa nostra e rappresentava quasi un compendio - fondamentale e assolutamente da leggere - a "Costretti a sanguinare". L'ultimo considerazione che vi voglio sottoporre riguarda, infine, la casa editrice che ha pubblicato "I pirati dei Navigli": Bompiani e non Agenzia X, fondata e diretta dallo stesso Philopat dopo aver lasciato Shake una decina di anni fa. Una scelta interessante e azzeccata, perché porta a un pubblico più ampio una storia che un tempo si sarebbe considerata di nicchia. Anche se ormai i libri, purtroppo, sono un fatto di nicchia di per sé, indipendentemente da chi li pubblica.

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Venendo invece a "I pirati dei Navigli", in queste 300 pagine Philopat racconta il periodo storico per certi versi meno epico (forse perché di transizione) della controcultura milanese: i "pieni" Anni Ottanta, quelli di Craxi, Pillitteri, dell'edonismo, della Milano da bere e del riflusso; anni lontanissimi dal '68, ma anche dal Movimento del '77 e nel corso dei quali certe dinamiche e pratiche del passato venivano messe in discussione non per innovarle - com'era accaduto fino a poco tempo prima - ma per reprimerle. Certo, per chi riesce ad andare un po' al di là delle apparenze - e questo libro aiuta molto a farlo - gli Anni Ottanta italiani e milanesi furano, per fortuna, anche tanto altro, visto che misero le basi delle contaminazioni future e dei movimenti del decennio successivo che portarono avanti le lotte contro la globalizzazione e utilizzarono per la prima volta uno strumento all'epoca pionieristico e oggi fulcro delle nostre vite: Internet. In mezzo a tutto questo Philopat infila la sua vicenda personale, che è anzi il motore propulsore di un libro, che risulta assai meno "politico" e più "confidenziale" di quelli precedenti. Ne "I pirati dei Navigli" l'autore, raccontando se stesso, ricostruisce una storia comune dell'underground milanese, in uno dei momenti più difficili per quel movimento, anche se non mancarono - e da queste pagine lo si capisce bene - tanta fantasia, situazioni interessanti e grandi intuizioni. L'Helter Skelter - il "clubbino" post-punk del Leoncavallo -, l'occupazione di Conchetta, il ruolo della Calusca, i primi vagiti della rivista "Decoder" e della cooperativa Shake: tutto viene visto e filtrato attraverso gli occhiali spessi di Philopat e mescolato alle sue paranoie, al suo rapporto con la famiglia e con gli ex virusiani, alle sue storie sentimentali e alle nuove e in alcuni casi "strane" amicizie che stringe nel corso del tempo. Si parla di punk, naturalmente, anche se molto meno rispetto ai tempi di "Costretti a sanguinare". Mentre un personaggio chiave resta Primo Moroni, una sorta di mentore e padre politico-culturale per Philopat e per tutto il movimento milanese che arrivava dal punk e da via Correggio. Per farla breve "I pirati dei Navigli" è un libro assolutamente fondamentale e necessario, che aggiunge un tassello importante nella storia della controcultura italiana, raccontando una vicenda umana e politica che prima di oggi nessuno aveva messo nero su bianco. Un volume complementare, tra l'altro, a una pubblicazione uscita in questi mesi proprio per Agenzia X, "Fame", la storia romanzata dell'omonima fanzine realizzata dalla "creature simili" di cui lo stesso Philopat parla in "Costretti a sanguinare" e ne "I pirati dei Navigli". Insomma tanti pezzi di un unico puzzle sulle controculture, per raccontare la storia dei movimenti italiani direttamente dall'interno.




martedì 3 ottobre 2017

Propagandhi live (fast, die young) - Il mio brutto rapporto con la mia ex band preferita

Ogni tanto un po' di sana polemica ci vuole anche da queste parti. E quindi in barba alle reazioni entusiastiche (e a caldo) lette in questi primi giorni, ecco la mia serena analisi sul nuovo disco dei Propagandhi, "Victory lap", appena uscito per Epitaph: due palle.
Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che quella che vi accingerete a leggere fra pochissime righe non è un vera e propria recensione, perché il disco l'ho sentito soltanto due volte in mp3 e quindi non sono in grado di dare un giudizio puntuale sulla sua reale qualità. E allora che cazzo stai a scrivere? potreste giustamente obiettare; in realtà è che già dopo il primo svogliatissimo ascolto di "Victory lap", ho capito di trovarmi di fronte al classico album dei Propagandhi post John K. Samson (l'ex bassista, che per la cronaca ha mollato la band nel 1996) e cioè all'ennesima metallata, che non ho più la forza di ascoltare e soprattutto di comprare. E quindi il problema non è quest'album in sé, ma cosa sia diventata oggi quella band che tanto amavo da ragazzino.
Mi spiego meglio. Ho scoperto i Propagandhi, (per chi non lo sapesse sono un gruppo hardcore canadese) alla fine degli Anni Novanta grazie al solito Tito, che mi ha aveva duplicato su cassetta il primo disco del 1993, "How to clean everything", uscito per la Fat Wreck. Ed è stata una botta che levati. Canzoni velocissime e potenti, ma allo stesso tempo melodiche, testi ben scritti e "impegnati" (sì lo so, fa schifo come termine, ma almeno ci capiamo) e una follia dissacratoria, che non aveva (e non ha) eguali. Un copione perfetto replicato, anche se non con lo stesso impatto, pure nel secondo album, "Less talk, more rock", che, se vogliamo, è ancora più "politico" del primo (ci sono pezzi di spoken word), ma che comunque si basa sempre sulla formula vincente: melodia, aggressività e grandi liriche. Siamo al 1996 e a quel punto John, il bassista, decide di mollare il gruppo per fondare gli Weakerthans (un mix fra pop, rock acustico, indie-rock ed emo che non mi ha mai fatto saltare sulla sedia, ma che comunque aveva e ha una sua dignità). E lì iniziano i casini. Il terzo disco su Fat arriva dopo 4 anni (nel 2001) e si intitola "Today's empires, tomorrow's ashes": il suono si è decisamente inspessito, le melodie hanno iniziato a scarseggiare, ma, e lo dico a posteriori (dato che all'epoca rimasi delusissimo), l'album resta un buon lavoro. Magari con i suoni leggermente più sporchi e duri rispetto al glorioso passato, però si tratta ugualmente di una svolta interessante e non scontata. All'epoca Chris (il cantante-chitarrista) e Jord (il batterista) avevano detto di essersi stancati del classico hardcore melodico in stile Fat Wreck e di voler riscoprire le loro radici punk e hardcore Anni Ottanta, fatte di suoni brutali e metallici, canzoni veloci e voci urlate. E va bene, in fondo ci poteva anche stare. Però poi, da lì in avanti, si sono fatti un po' prendere la mano. E per quel che mi riguarda sono diventati una band molto meno interessante e - scusatemi se lo dico - molto più anonima.
Il disco della svolta in negativo, per quel che mi riguarda, è il successivo: "Potemkin City Limits", uscito nel 2005 e ultimo sotto l'egida della Fat (e poi capiremo anche perché). Ricordo che, quando è uscito, mi sono precipitato, come al solito, a comprarlo sulla fiducia (anche perché all'epoca era difficile trovarlo da scaricare in anticipo), con la (folle) speranza che i Propagandhi potessero tornare quelli degli Anni Novanta. E invece niente. Anzi, il suono aveva preso una piega, o forse sarebbe meglio dire deriva, inaspettata, visto che oltre a proseguire sulla strada dell'hc-metallico, i nostri si erano persino inventati una sorta di hardcore "progressivo" (ok, adesso potete pure sparare quando volete) che non aveva nulla a che fare col passato. Sui testi, naturalmente, nulla da dire. Sempre la solita lucidità senza compromessi. Anche se, quella volta, Chris e co., hanno leggermente pisciato fuori dal bulacco, visto che nel pezzo "Rock for sustainable capitalism" se la sono presa persino con Fat Mike (che però gli ha pubblicato ugualmente il disco, guarda un po') accusandolo di essere uno dei responsabili della "normalizzazione" e della commercializzazione del punk (tutto era nato dalle posizioni pro Democratici del cantante dei NOFX contro la rielezione di Bush). Ma vabbè adesso non è che questa storia ci freghi più di tanto. Il fatto è che, invettiva contro Mike a parte, "Potemkin", anche a distanza di tempo, resta un disco ben scritto, ma con un suono di merda, pieno di canzoni piatte che faticano a entrarti in testa. Quando l'ho sentito per la prima volta sono stato tentato di prenderlo e cacciarlo fuori dalla finestra. Ma erano pur sempre i Propagandhi, cazzo, una delle mie band preferite. E poi tutti ne parlavano bene. Così me ne sono stato zitto e buono, sperando che con l'album successivo questa follia sarebbe giunta al termine. E invece niente. Pure "Supporting Caste" del 2009, stavolta pubblicato dalla loro G7 Welcoming Comittee (perché Mike è bravo e buono, ma fino a un certo punto) è un altro disco pieno di schitarrate, mini-assoli, hardcore progressivo, zero ritornelli, nessuna melodia decente, voce alta e cambi di tempo. In parole povere: una specie di thrash metal senz'anima (mica parliamo dei Sod, purtroppo). Ma visto che sono un inguaribile romantico e per un breve periodo della mia vita ho avuto qualche soldo da buttare in dischi inutili, tre anni dopo ci sono ricascato e appena è uscito il nuovo album dei Propagandhi -. e siamo arrivati al 2012 - c'ho lasciato le solite 18 carte a scatola chiuse. Mi ero illuso che uscendo per Epitaph (ma dovevo capire che si trattava pur sempre dell'Epitaph degli anni Duemila) ci sarebbe stato un magico ritorno alle origini. E ancora una volta sono rimasto deluso. "Failed states", siamo sempre lì, è il solito disco monolitico da mezzi metallari (i ritmi sono pure più lenti), che contiene una sfilza di brani cantati male, suonati (tecnicamente) bene (e scusate se mi incazzo!), con testi ben scritti, ma con zero personalità. Mi spiace, ma resto un fan del rock'n'roll. E anche se ascolto tonnellate di hardcore vecchia scuola, quello che fanno oggi i Propagandhi (ultimo disco compreso) è tutto fuorché un ritorno alle radici di quel suono. A me, continuo a ripeterlo, pare la solita metallata new school, dove bisogna mostrare i muscoli e persino l'abilità tecnica (ci rendiamo conto?). Tra l'altro, dopo l'uscita di "Failed states", ho avuto persino la malaugurata idea di andarli a vedere dal vivo, sempre nella speranza che facessero un concerto pieno di vecchi classici, tipo "Haille Sellasse up your ass". E invece niente. Mi pareva di stare a sentire gli Snapcase o peggio gli Iron Maiden. Comunque: tutta questa pappardella è servita per farvi capire con quale stato d'animo mi sia avvicinato al nuovo disco del mio ex gruppo preferito, uscito un paio di giorni fa. La diffidenza era tantissima e le aspettative negative sono state ampiamente confermate. E quindi ritorniamo alle "due palle" assegnate all'inizio di questo post delirante. La differenza col passato, però, è che questa volta non mi fregano. L'album non lo compro manco se lo becco usato a metà prezzo. E corro ad ascoltare "How to clean everything" e a sperare in un tour celebrativo di quel disco, per riprendermi i Propagandhi della mia adolescenza e poter finalmente cantare sotto il palco "Anti Manifesto".