Un altro dei motivi per cui non avevo la minima intenzione di perdermi il loro concerto riguarda la mia eterna fissazione per i dischi, insomma il feticismo dell'acquisto compulsivo. E siccome dei cari "egiziani de Roma" avevo soltanto una canzone contenuta nella compilation della Borgata, ero pronto a fare man bassa. E così manco il tempo di entrare e di ordinare una Menabrea al bar, che ero già al banchetto, mentre dietro suonavano i Cuccioli Morti. In un secondo ho agguantato sette pollici e lp. Ma sapevo che sarei tornato a "sprecare" le mie palanche. Nel frattempo le birrette correvano come macchine impazzite. E lo stomaco protestava. Dei McNamara Playhround Heroes non ho un gran ricordo. Ma appena sono saliti sul palco gli Hiss, sempre romani e sempre del solito giro buono, mi sono avvicinato con curiosità. Minchia: batteria furiosa, basso ed effetti, la formazione definitiva. Due pazzi al timone e un suono così acido e marziale, che mi faceva sobbalzare. Anche se ero in piedi. Robe belle. E infatti mi sono messo il 10 pollici in saccoccia (risentito è uno sballo). A quel punto non toccava ad altri che ai Trans Upper Egypt: le star della serata. E in effetti hanno suonato da paura. Sporchi, marci e imbecilli come pochi. Dilatati alla massima potenza e furiosi. Dal vivo (ho scoperto dopo) sono un po' diversi rispetto al disco. Tanto che sembrano quasi due band differenti. Splendide in entrambe le versioni, sia chiaro. Ma quasi l'alter ego l'una dell'altra. Parte della bellezza sta anche nel loro approccio alle cose e questo vale per tutte le band della Borgata. Gente che va in saletta e si registra senza troppe cazzate. Produce cdr e vinili con tanto di supporto di quei pazzi della Bubca Records, mentre tutti suonano con tutti, in cento gruppi diversi. Una sorta di Great Complotto all'amatriciana. Dove il genere che si fa non è importante. Basta tirare fuori ciò che hai dentro in quel momento. Ed è solo quello che conta.
domenica 30 settembre 2012
Rocking like an Egyptian
Non me ne ne fregava un cazzo di essere a stomaco vuoto e di aver passato una di quelle giornate spaccaculi al lavoro, dove non alzi quasi mai la chiappe dalla scrivania. Appena ho potuto mollare quella maledetta sedia, giovedì sera, intorno alle dieci ho preso la macchina parcheggiata di rapina vicino alle strisce blu e sono andato in Buridda. C'erano i Trans Upper Egypt e il resto contava poco e niente. Era quasi un anno che li volevo vedere. Dopo che mi avevano fulminato alla Claque con la combriccola della Borgata Boredom. Musica acida e krauta, psichedelia nuova di zecca e attitudine "no wave". Un bel mistone di cose, anche se alla fine non si tratta che di rock'n'roll cosmico a bassa fedeltà.
Un altro dei motivi per cui non avevo la minima intenzione di perdermi il loro concerto riguarda la mia eterna fissazione per i dischi, insomma il feticismo dell'acquisto compulsivo. E siccome dei cari "egiziani de Roma" avevo soltanto una canzone contenuta nella compilation della Borgata, ero pronto a fare man bassa. E così manco il tempo di entrare e di ordinare una Menabrea al bar, che ero già al banchetto, mentre dietro suonavano i Cuccioli Morti. In un secondo ho agguantato sette pollici e lp. Ma sapevo che sarei tornato a "sprecare" le mie palanche. Nel frattempo le birrette correvano come macchine impazzite. E lo stomaco protestava. Dei McNamara Playhround Heroes non ho un gran ricordo. Ma appena sono saliti sul palco gli Hiss, sempre romani e sempre del solito giro buono, mi sono avvicinato con curiosità. Minchia: batteria furiosa, basso ed effetti, la formazione definitiva. Due pazzi al timone e un suono così acido e marziale, che mi faceva sobbalzare. Anche se ero in piedi. Robe belle. E infatti mi sono messo il 10 pollici in saccoccia (risentito è uno sballo). A quel punto non toccava ad altri che ai Trans Upper Egypt: le star della serata. E in effetti hanno suonato da paura. Sporchi, marci e imbecilli come pochi. Dilatati alla massima potenza e furiosi. Dal vivo (ho scoperto dopo) sono un po' diversi rispetto al disco. Tanto che sembrano quasi due band differenti. Splendide in entrambe le versioni, sia chiaro. Ma quasi l'alter ego l'una dell'altra. Parte della bellezza sta anche nel loro approccio alle cose e questo vale per tutte le band della Borgata. Gente che va in saletta e si registra senza troppe cazzate. Produce cdr e vinili con tanto di supporto di quei pazzi della Bubca Records, mentre tutti suonano con tutti, in cento gruppi diversi. Una sorta di Great Complotto all'amatriciana. Dove il genere che si fa non è importante. Basta tirare fuori ciò che hai dentro in quel momento. Ed è solo quello che conta.
Che dire del resto, a inizio serata ho persino fatto un piccolo smarrone con il loro bassista, visto che il giorno prima avrei dovuto intervistarli per il "Corriere Mercantile" ma poi sono scoppiati i soliti casini e ho dovuto fare dell'altro. Quando mi sono "denunciato" al bar mi ha dato un pacca sulla spalla e ha fatto un sorrisone. Come ho detto più volte: i Trans Upper Egypt sono una band da leccarsi le dita dei piedi.
Un altro dei motivi per cui non avevo la minima intenzione di perdermi il loro concerto riguarda la mia eterna fissazione per i dischi, insomma il feticismo dell'acquisto compulsivo. E siccome dei cari "egiziani de Roma" avevo soltanto una canzone contenuta nella compilation della Borgata, ero pronto a fare man bassa. E così manco il tempo di entrare e di ordinare una Menabrea al bar, che ero già al banchetto, mentre dietro suonavano i Cuccioli Morti. In un secondo ho agguantato sette pollici e lp. Ma sapevo che sarei tornato a "sprecare" le mie palanche. Nel frattempo le birrette correvano come macchine impazzite. E lo stomaco protestava. Dei McNamara Playhround Heroes non ho un gran ricordo. Ma appena sono saliti sul palco gli Hiss, sempre romani e sempre del solito giro buono, mi sono avvicinato con curiosità. Minchia: batteria furiosa, basso ed effetti, la formazione definitiva. Due pazzi al timone e un suono così acido e marziale, che mi faceva sobbalzare. Anche se ero in piedi. Robe belle. E infatti mi sono messo il 10 pollici in saccoccia (risentito è uno sballo). A quel punto non toccava ad altri che ai Trans Upper Egypt: le star della serata. E in effetti hanno suonato da paura. Sporchi, marci e imbecilli come pochi. Dilatati alla massima potenza e furiosi. Dal vivo (ho scoperto dopo) sono un po' diversi rispetto al disco. Tanto che sembrano quasi due band differenti. Splendide in entrambe le versioni, sia chiaro. Ma quasi l'alter ego l'una dell'altra. Parte della bellezza sta anche nel loro approccio alle cose e questo vale per tutte le band della Borgata. Gente che va in saletta e si registra senza troppe cazzate. Produce cdr e vinili con tanto di supporto di quei pazzi della Bubca Records, mentre tutti suonano con tutti, in cento gruppi diversi. Una sorta di Great Complotto all'amatriciana. Dove il genere che si fa non è importante. Basta tirare fuori ciò che hai dentro in quel momento. Ed è solo quello che conta.
giovedì 20 settembre 2012
I've got a new NOFX album again
E' un periodo in cui mi stanno passando per le mani parecchi dischi. Quando sono andato in ferie ho avuto due giorni di follia su Ebay e ho preso di tutto (aspetto ancora una compilation surf dall'Inghilterra). E poi naturalmente Gian e Taxi Driver, i concerti: insomma, mi sono rovinato.Però nessuno di questi - e qui parte la scomunica - mi ha colpito come "Sefl Entitled" di NOFX. Sarà che ormai per me Fat Mike e soci rappresentano una questione di cuore. Un pezzo importante della mia adolescenza (ma che dico: tutta quanta), con tanto di prime sbronze, primi concerti, casini a scuola e "Durgs are good" (titolo di una loro canzone) scritto sulle mani col pennarello. Robe sceme da bambino punk, che però ti restano sempre. E a cui ripensi con un po' di indulgenza ma anche con molta soddisfazione.
Come accade per altri gruppi poi, anche per i NOFX, mi ricordo quando e dove ho comprato tutti i loro dischi. Il primo - per me - "Heavy petting zoo", l'ho preso da Sonorama a Pegli dopo una cassetta che mi aveva letteralmente fulminato (ero stato costretto a vendere "Blood sugar sex magic" per trovare i soldi). E poi "So long" da Ricordi dopo la recensione su "Musica" di "Repubblica", Punk in Drublic in via del Campo e tutti i dubbi che mi sono venuti la prima volta che l'ho messo su (ora è uno dei miei dischi da isola deserta). E ancora: "The longest line" nuovamente da Ricordi dopo uno sciopero a scuola, "White trash" preso a Madrid in gita scolastica e "Liberal animation" da Dibe (<guarda che fa schifo> mi aveva avvertito). "S&M airilnes" l'ho comprato al Music Store prendendo l'1 da Pegli e bossandomi i compiti per il giorno dopo, mentre "Maximum rock'n'roll" dopo molto peregrinare l'ho trovato da Pink Moon. "The decline" invece l'ho aspettato giorni e giorni da Discanto a Sestri, dove ho preso anche "Pump up the valuum" la sera prima del loro concerto a Milano. Lo split coi Rancid me lo sono procurato nel negozio degli Ignoranti, Wynona Records e la raccoltona con le rarità me l'ha fatta arrivare a Pegli M Musica, giusto qualche mese prima di chiudere e sei mesi dopo aver aperto. "Ribbed", comprato tardissimo perché avevo una cassetta scalcinata che mi avevano fatto dei ragazzi più grandi a scuola, l'ho comprato alla Fiera del disco, mentre per "War on errorims" mi sono rivolto a Felipe. "Wolf in wolves' clothing" invece è arrivato con la posta tramite Ebay, "Coster" l'ho preso da Fnac e "Self Entitled" infine da Disco Club
Tornando proprio a questo nuovo "parto" dei NOFX (contenti che vi ho risparmiato dove ho preso le altre raccolte, i singoli, gli ep ecc?) sono giorni che non faccio altro che ascoltarlo, prima su Youtube e da ieri, finalmente, nel mio stereo. La prima volta che ho schiacciato il tasto play e mi sono sistemato il portatile sopra le coperte ho pensato che Mike si fosse bevuto il cervello. Non trovavo né un capo né una coda al disco. Mi sembrava solo un minestrone. Poi ho dato un'occhiata ai testi (il mio inglese fa pena, ma mi sono arrangiato), ho risentito il super-file di Youtube di nuovo per intero e ho cominciato a sentire che qualcosa stava cambiando. I ritmi erano veloci senza mai una pausa, i pezzi incazzati me sempre melodici. E così ho capito quello che mi aveva spiazzato all'inizio: non c'era una canzone di punta. Erano tutte sullo stesso livello. E tutte spaccavano. E così da un 6 politico iniziale, sono arrivato a un 7 e mezzo, se non di più. Ma passiamo alle canzoni. "72 hookers", il primo pezzo è una cavalcata hardecore a mille all'ora, mentre brani come "I Believe in goddes" e "She didn't lose her baby" sono classiconi NOFX un po' più ruvidi. Poi ci sono fulmini come "Cell out" e melodie quasi pop come "This machine is 4"; per non parlare della ballatona post divorzio con tanto di autocitazione "I've got one Jelous again, again", infarcita di riferimenti a band anni Ottanta e cantanta con un'amarezza mai sentita in Fat Mike. Il resto, direbbe Flaiano, fa volume. E invece no, perché tutti i 12 pezzi del disco funzionano alla grande. Il modo migliore per sentirli però è partire dal primo all'ultimo. Senza scorporali, o cambiargli di posto. "Self Entitled" si ascolta tutto insieme. E' un disco punk, anzi hardcore melodico nella più nobile accezione del termine. Semplice, diretto e potente, tanto per tirare fuori un po' di banalità. Però è vero. L'unica avvertenza è che se vi fa cagare al primo ascolto, sarebbe il caso di dargli almeno un'altra possibilità. Se il sintomo persiste consultare il medico (o tornare ad ascoltare i Guns n' roses e andare a fanculo).
Come accade per altri gruppi poi, anche per i NOFX, mi ricordo quando e dove ho comprato tutti i loro dischi. Il primo - per me - "Heavy petting zoo", l'ho preso da Sonorama a Pegli dopo una cassetta che mi aveva letteralmente fulminato (ero stato costretto a vendere "Blood sugar sex magic" per trovare i soldi). E poi "So long" da Ricordi dopo la recensione su "Musica" di "Repubblica", Punk in Drublic in via del Campo e tutti i dubbi che mi sono venuti la prima volta che l'ho messo su (ora è uno dei miei dischi da isola deserta). E ancora: "The longest line" nuovamente da Ricordi dopo uno sciopero a scuola, "White trash" preso a Madrid in gita scolastica e "Liberal animation" da Dibe (<guarda che fa schifo> mi aveva avvertito). "S&M airilnes" l'ho comprato al Music Store prendendo l'1 da Pegli e bossandomi i compiti per il giorno dopo, mentre "Maximum rock'n'roll" dopo molto peregrinare l'ho trovato da Pink Moon. "The decline" invece l'ho aspettato giorni e giorni da Discanto a Sestri, dove ho preso anche "Pump up the valuum" la sera prima del loro concerto a Milano. Lo split coi Rancid me lo sono procurato nel negozio degli Ignoranti, Wynona Records e la raccoltona con le rarità me l'ha fatta arrivare a Pegli M Musica, giusto qualche mese prima di chiudere e sei mesi dopo aver aperto. "Ribbed", comprato tardissimo perché avevo una cassetta scalcinata che mi avevano fatto dei ragazzi più grandi a scuola, l'ho comprato alla Fiera del disco, mentre per "War on errorims" mi sono rivolto a Felipe. "Wolf in wolves' clothing" invece è arrivato con la posta tramite Ebay, "Coster" l'ho preso da Fnac e "Self Entitled" infine da Disco Club
Tornando proprio a questo nuovo "parto" dei NOFX (contenti che vi ho risparmiato dove ho preso le altre raccolte, i singoli, gli ep ecc?) sono giorni che non faccio altro che ascoltarlo, prima su Youtube e da ieri, finalmente, nel mio stereo. La prima volta che ho schiacciato il tasto play e mi sono sistemato il portatile sopra le coperte ho pensato che Mike si fosse bevuto il cervello. Non trovavo né un capo né una coda al disco. Mi sembrava solo un minestrone. Poi ho dato un'occhiata ai testi (il mio inglese fa pena, ma mi sono arrangiato), ho risentito il super-file di Youtube di nuovo per intero e ho cominciato a sentire che qualcosa stava cambiando. I ritmi erano veloci senza mai una pausa, i pezzi incazzati me sempre melodici. E così ho capito quello che mi aveva spiazzato all'inizio: non c'era una canzone di punta. Erano tutte sullo stesso livello. E tutte spaccavano. E così da un 6 politico iniziale, sono arrivato a un 7 e mezzo, se non di più. Ma passiamo alle canzoni. "72 hookers", il primo pezzo è una cavalcata hardecore a mille all'ora, mentre brani come "I Believe in goddes" e "She didn't lose her baby" sono classiconi NOFX un po' più ruvidi. Poi ci sono fulmini come "Cell out" e melodie quasi pop come "This machine is 4"; per non parlare della ballatona post divorzio con tanto di autocitazione "I've got one Jelous again, again", infarcita di riferimenti a band anni Ottanta e cantanta con un'amarezza mai sentita in Fat Mike. Il resto, direbbe Flaiano, fa volume. E invece no, perché tutti i 12 pezzi del disco funzionano alla grande. Il modo migliore per sentirli però è partire dal primo all'ultimo. Senza scorporali, o cambiargli di posto. "Self Entitled" si ascolta tutto insieme. E' un disco punk, anzi hardcore melodico nella più nobile accezione del termine. Semplice, diretto e potente, tanto per tirare fuori un po' di banalità. Però è vero. L'unica avvertenza è che se vi fa cagare al primo ascolto, sarebbe il caso di dargli almeno un'altra possibilità. Se il sintomo persiste consultare il medico (o tornare ad ascoltare i Guns n' roses e andare a fanculo).
mercoledì 1 agosto 2012
Tony Sly and the family stoned
Sono qui che mi bevo l'ennesima birra presa dal frigo e ascolto i No Use For A Name. Come il più tipico e insulso fan sconvolto, appena ho saputo che Tony Sly, il cantante e fondatore dei No Use, era morto, mi sono buttato sul divano e ho cominciato ad attaccarmi alla bottiglia. Nel verso senso della parola. Carlsberg gelata, perché alla Coop erano in offerta. Prima di stappare la seconda birra, però, ho preso il vinile di "Leche con carne" e l'ho infilato sul piatto. E appena finirà il lato B, butterò dentro lo stereo il cd di "More betterness, il mio album preferito dei No Use e anche l'unico che abbia veramente comprato (quell'altro me l'ha dato in comodato d'uso Andre). Insomma per farla breve sta notiza della morte di Tony Sly mi ha sconvolto. Letteralmente. Cazzo: aveva 41 anni e sul sito della Fat non c'è scritto quasi nulla sulle cause. Dicono solo che Tony non c'è più e bla bla bla. Il motivo al momento resta ignoto. Non che importi poi molto, per carità, però quando muore qualcuno che ti ha tenuto compagnia per così tanti anni, prima nella tua cameretta e poi nel buco che hai eretto a tua nuova ed eslcusiva dimora, è normale voler conoscere ogni minimo dettaglio sull'accaduto.
Anche perché - diciamocelo - non è che io i No Use gli ascoltassi tutti i giorni. E come ho detto prima non li seguivo neanche in maniera morbosa, da comparmi ogni loro singolo disco. Nonostante questo però li ho sempre considerati un gruppo speciale, che ha associo a parecchi bei momenti della mia adolescenza e dei miei vent'anni. La prima volta che li ho visti dal vivo non sapevo molto di loro. Era il 2000, credo, e mi trovavo a Bologna per il secondo Indipendent Day Festival. I No Use hanno suonato nel cuore del pomeriggio. Sotto un sole da vertigini e allucinazioni mistiche. Ma la cosa che ricordo di più di quel caldo giorno di fine agosto (forse addirittura di inizio settembre) di dodici anni fa è un tizio coi capelli rossi e la maglietta dei Descendents, che, in mezzo al pogo polveroso, canta spensierarato e a scuarcia gola "Coming too close". Una scena che chissà per quale motivo mi è rimasta stampata nella testa.
Qualche anno dopo invece, nel 2005, li ho rivisti al primo Rock in Idro insieme a un'ammucchiata di band da lacrime agli occhi (Nofx, Offspring, Me First, Pennywise, Turbonegro, Hives, Millencolin: la summa della mia adolescenza hardcore melodica). E anche in quel caso Tony e compagni non si sono risparmiati. Ci hanno regalato quasi un'ora di melodie cristalline e chitarre elettriche, belle canzoni e sorrisi.
Anche perché se devo essere proprio sincero (e qui forse mi sputtano definitivamente) i No Use che ho sempre amato di più sono stati quelli del medio-ultimo periodo. Quelli più melodici e power-pop, insomma, magari un po' scontanti, ma sempre forti della stupefacente capacità di Tony di scrivere pezzi magnifici. Forse da qualche anno erano diventati un gruppo più pop-core, che una band punk-rock. Ma per me non è mai stato un problema. Anzi, quando sentivo la voce cristallina di Mr.Sly rincorrera la sua chitarra Les Paul sulla classica ritmica hc melodica anni Novanta non potevo fare a meno di sorridere. D'ora in poi sarà più difficile.
Anche perché - diciamocelo - non è che io i No Use gli ascoltassi tutti i giorni. E come ho detto prima non li seguivo neanche in maniera morbosa, da comparmi ogni loro singolo disco. Nonostante questo però li ho sempre considerati un gruppo speciale, che ha associo a parecchi bei momenti della mia adolescenza e dei miei vent'anni. La prima volta che li ho visti dal vivo non sapevo molto di loro. Era il 2000, credo, e mi trovavo a Bologna per il secondo Indipendent Day Festival. I No Use hanno suonato nel cuore del pomeriggio. Sotto un sole da vertigini e allucinazioni mistiche. Ma la cosa che ricordo di più di quel caldo giorno di fine agosto (forse addirittura di inizio settembre) di dodici anni fa è un tizio coi capelli rossi e la maglietta dei Descendents, che, in mezzo al pogo polveroso, canta spensierarato e a scuarcia gola "Coming too close". Una scena che chissà per quale motivo mi è rimasta stampata nella testa.
Qualche anno dopo invece, nel 2005, li ho rivisti al primo Rock in Idro insieme a un'ammucchiata di band da lacrime agli occhi (Nofx, Offspring, Me First, Pennywise, Turbonegro, Hives, Millencolin: la summa della mia adolescenza hardcore melodica). E anche in quel caso Tony e compagni non si sono risparmiati. Ci hanno regalato quasi un'ora di melodie cristalline e chitarre elettriche, belle canzoni e sorrisi.
Anche perché se devo essere proprio sincero (e qui forse mi sputtano definitivamente) i No Use che ho sempre amato di più sono stati quelli del medio-ultimo periodo. Quelli più melodici e power-pop, insomma, magari un po' scontanti, ma sempre forti della stupefacente capacità di Tony di scrivere pezzi magnifici. Forse da qualche anno erano diventati un gruppo più pop-core, che una band punk-rock. Ma per me non è mai stato un problema. Anzi, quando sentivo la voce cristallina di Mr.Sly rincorrera la sua chitarra Les Paul sulla classica ritmica hc melodica anni Novanta non potevo fare a meno di sorridere. D'ora in poi sarà più difficile.
lunedì 2 luglio 2012
Walking out on Paul
Era da quando avevo sentito i Radio Days suonare "Rock'n'roll girl" che volevo vedere Paul Collins dal vivo. E tutte le volte che il re del power pop aveva fatto tappa in Italia me l'ero perso. Così, sabato, dopo aver agguantato di culo un giorno di festa nel fine settimana (con la promessa di lavorare domenica, però) non potevo certo lasciarmi scappare l'occasione di vedere i Beat, o quello che restava di loro, allo Shake della Spezia. C'è da dire, poi, che ogni volta che vado da quelle parti, finisco per fantasticare su come sarebbe bello trasferirmi lì.Vivere in Val di Vara o alla Piana Battolla dove ha la casa Alberto. Prendere la residenza a Ca' di Mare o fare qualche tuffo a Portovenere. Insomma ho scoperto che la riviera di Levante, non quella genovese, quella spezzina, mi fa andare fuori di testa. Quel punto di collegamento fra la spiaggia e la campagna placida e silenziosa, coi grilli e l'erba alta, le strade polverose e l'acqua limpida, resta per me un luogo magico. E poi alla Spezia c'è la Skaletta, c'è lo Shake e c'è una scena punk che noi ce la sognamo. La provincia ha superato il grande centro urbano (non quello di Casini...). Da alemno 15 anni lì accadono delle cose, mentre noi restiamo a rimorchio. Pazzesco. Anche Paul Collins, cazzo, mica è venuto a Genova. C'è toccato guidare fino allo Shake per vederlo. Detto questo è anche vero che andare ai concerti resta una bella occasione per fare una gita. Buttarsi in macchina verso le sei con Grazia, mettere "Exodus" di Marley e godersi l'autostrada libera. Chiacchiere, siga, baci e poi una cena a Muggiano, su una piazzette disegnata apposta per noi dove c'hanno portato ravioli di pesce e sgabei. La ciliegina sulla torta è stato il concerto, che prima di partire sembrava l'obiettivo finale e poi, forse, si è rivelato solo un pretesto. Un pretesto stupendo, intendiamoci. Perché Paul, irriconoscibile fisicamente rispetto agli anni d'oro dei Beat, con quella pelata da zio d'America e il fazzoletto rosso al collo, sa ancora farti palpitare il cuore a dovere. Certo, la voce sembrava un po' più roca e meno pulita di un tempo, ma i suoni erano fantstici, le chitarre risplendevano a ogni accordo e Dario dei Radio Days (il cerchio si chiude) era perfetto nel ruolo di sei corde solista della band. Il concerto è inziato tardissimo. Alle 2. Giusto in tempo per farsi mangiare dalle zanzare e scolarsi qualche birra con Cecio (che per fortuna ci ha ospitato alla Piana), Grazia e Joe Falchetto (che come un eroe se l'è fatta a piedi dalla stazione). Paul, comunque, ha saputo farsi perdonare. Uno dopo l'altro ha suonato tutti i suoi pezzi più belli. Praticamente l'intero primo album dei Beat, più qualcosa dal secondo e dai suoi lavori più recenti e, naturalmente, i singoloni dei Nerves. E mentre i ragazzi sul palco suonavano mi veniva da pensare ai vecchi componenti dei Beat, quelli che hanno inciso il disco d'esordio tipo Steve Huff o Michael Ruiz. Chissa che fine hanno fatto. Magari, mentre Paul gira il mondo con quei pezzi, sono a casa, in qualche Stato sperduto degli Usa a guardare la tv come dei normali cinquantenni. Con la moglie che gli rompe le palle e i figli che vanno male a scuola. <Guarda che questi prendono tutto dai Beatles> mi riportava sulla terra Cecio. Lo so, cazzo, però a me piacciono di più. Io a Lennon e co. preferisco i loro imitatori. Che ci posso fare. Dovevate sentirle quelle chitarre: sembrava che cantassero. E quando è partita "Walking out on love" ho preso l'ascensore per andare in Paradiso.
domenica 24 giugno 2012
Il mio Universo
martedì 19 giugno 2012
Bestiacce e bestiari
E' pazzesco: sono di nuovo qui a farmi pubblicità da solo. Però, al di là della mia partecipazione, il "Bestiario del lavoro" pubblicato dalla casa editrice indipendente genovese Bradiponauta è davvero un libercolo che merita di essere letto e comprato. Per prima cosa è completamente Diy: essenziale, anche se curato, semplice, ma ben fatto. E poi dentro ci sono i disegni di Alessandro Ripane, detto Ripa, uno degli artisti underground genovesi più interessanti che conosca. Il progetto è semplice: i ragazzi di Bradipo (essenzialmente Giacomo Bagni) hanno chiesto a tredici persone di scrivere alcune rige - tipo enciclopedia - su una serei di animali fantastici e strambi disegnati da Ripa. A me è toccato - guarda caso - Il Gufo Impiegato, ma ci sono anche la Formica Cuoco, il Gallo Skinhead, l'Amantide Religiosa Cameriere e così via. Uno zoo dell'assurdo, fra Diderot e Debord, corredato dai disegni di Ripa - fatti a penna o col pennino - che in pochi tratti riescono a dare vita a una realtà sghemba e ingarbugliata. Prendete l'animaletto che mi è stato affidato, il Gufo Impiegato, dietro i suoi occhioni da sfigato e i vestiti da quattro soldi, c'è tutto un piccolo mondo di fantasia malata e terrificante realtà. Nella prima parte della spiegazione "scientifica" in cui parlo delle abitudini del pennuto, devo essere sincero, mi sono ispirato alla saga di Fantozzi, anche perché alla parola "impiegato" non ho resistito e mi è subito venuto in mente il mitico ragionier Ugo. Poi, dopo questo omaggio, ho cercato di cavermela da solo.
Oltre alle mi stronzate, nel "Bestiario del lavoro" si trovano parecchi pezzi interessanti come quello di Detrocboi sul già citato Gallo Skinhead e quello di Giulio Olivieri sulla Mantide (roba kafkiana mica da ridere). Ma ripeto: a parte le deliziose follie scritte dentro questo volumetto, la cosa più interessante sono senza dubbio i disegni in bianco e nero e dall'aria spugnosa a tonadeggiante di Ripa.
Il "Bestiario" lo potete trovare direttamente da Bradiponauta su bradiponauta.wordpress.com o da BooksIn in vico del Fieno (Genova). Costa 6 euro. Sono 150 copie numerate a mano. E io ho la numero 5: olè
Oltre alle mi stronzate, nel "Bestiario del lavoro" si trovano parecchi pezzi interessanti come quello di Detrocboi sul già citato Gallo Skinhead e quello di Giulio Olivieri sulla Mantide (roba kafkiana mica da ridere). Ma ripeto: a parte le deliziose follie scritte dentro questo volumetto, la cosa più interessante sono senza dubbio i disegni in bianco e nero e dall'aria spugnosa a tonadeggiante di Ripa.
Il "Bestiario" lo potete trovare direttamente da Bradiponauta su bradiponauta.wordpress.com o da BooksIn in vico del Fieno (Genova). Costa 6 euro. Sono 150 copie numerate a mano. E io ho la numero 5: olè
venerdì 25 maggio 2012
Jeffrey Lewis ti voglio bene
Di solito la regola è: non avere troppe aspettative quando ti consigliano di andare a vedere il concerto di un gruppo di cui non hai mai sentito parlare. E io, naturalmente, l'ho infranta. Anche perché da qualsiasi parte mi arrivasse "l'invito" per la serata in questione, il nome di Jeffrey Lewis & The Junkyard era accompagnato da aggettivi che definire esaltanti era decisamente un eufemismo. E così, quando è stato il momento di andare alla Claque e assistere a sto benedetto concerto un po' di paura-pacco, in fondo in fondo, c'era. Se non altro perché in ste situazioni la sfiga è sempre in agguato e perché anche io, sull'onda dell'entusiasmo, avevo speso nei confronti di Jeffrey e compagni un buon numero di lodi sperticate. "Com'è sta roba che c'è domani alla Claque?" mi hanno chiesto in due o tre. "Ah, una figata pazzesca...!" garantivo io, pentendomi appena un secondo dopo dell'azzardo appena compiuto. Insomma per la serata di mercoledì avevo firmato un po' di assegni a vuoto, non solo con me stesso ma anche con alcuni amici. Ma cazzo se avevo (inconsapevolmente) ragione! Il concerto di Jeffrey Lewis & The Junkyard è stato uno dei più belli in assoluto visti quest'anno e ancora mi mangio le mani per non essere andato a sentirlo la prima volta che è venuto a Genova un anno e mezzo fa. Parlare di anti-folk però, la definizione per eccellenza che è stata appiccicata alla sua musica, secondo me è piuttosto riduttivo. Se non altro perché, come tante etichette che si sprecano in questi casi, difficilmete rende bene l'idea di ciò che è accaduto l'altra sera sul palco della Claque. Prima di totto, ok, è vero: Jeffrey suona folk, ha una chitarra acustica e nella band c'è una tipa che ogni tanto tira fuori un violino. Però non aspettatevi un classico cantautore americano dall'aria triste che racconta quanto vorrebbe suicidarsi. No, il nostro assomiglia più a un novello Bob Dylan deciso a coverizzare i primi quattro album dei Ramones, nella cameretta di casa sua. Un punk in tutto e per tutto, che suona veloce e melodico, scanzonato e aggressivo, ma in punta di piedi. Certo, c'è un po' di gusto lo-fi nelle canzoni di Jeffrey, ma nulla di finto sporco o retro a tutti i costi. I pezzi sono, semplicmente, uno più bello dell'altro. E visto che il nostro è pure un ottimo fumettista, nel corso del concerto ci ha anche deliziato con la proiezione di alcuni "cartoon" undeground accompagnati da storielle cantate in rima. Un vero sballo, per esempio, è stata la storia del punk newyorkese dal 1950 al 1975: un collage di diapositive intervallato da pillole musicali di grandi classici di Velvet Underground, David Peel, New York Dolls e Richard Hell suonate al momento. Filologia rock da vero nerd, per parlare di quando il punk - più che un genere musicale - era un attitudine. E chissà che non sia proprio questa la chiave di lettura per capire davvero il concerto di Jeffrey: molti anni Sessanta, ma anche tanta ruvidezza e una semplicità disarmante. Un libro di storia della controculura elettrica, studiato con una chitarra acustica. Musica da falò per critici rock alla Lester Bangs. Amore a prima vista, insomma. Unico neo della serata il fatto che la band non avesse con sé manco uno straccio di disco o di fumetto. Tutti sold out, ci hanno spiegato sorridenti. Sì vabbè fanculo. Per fortuna che c'è Disco Club. Ora lo chiamo e accendo un mutuo.
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