lunedì 14 dicembre 2020

Il disco perfetto per il cimento invernale è quello dell'Alcalde de la noche

Lo so, il mio grado di latitanza da questo blog è pari solo alla mia pigrizia nel trovare sempre la scusa migliore per giustificarmi. È anche vero, però, che le cazzate che scrivo qui interessano a ben poche persone, quindi faccio ammenda con i miei due lettori scalcinati e prometto un dicembre con un po' di aggiornamenti (anche perché le cose da scrivere sono parecchie, purtroppo per voi). Inizio quest'ennesima ripresa con il recupero di una recensione dell'ultima fatica dell'Alcalde de la noche, che sarebbe dovuta uscire ad agosto su Go-Go zine. Ma visto che il sito è in stand by da qualche mese e lo stesso Alcalde mi ha minacciato più volte di improvvisare un concerto notturno sotto casa mia sfidando il coprifuoco, ho deciso di pubblicarla qui, modificando solo qualche tempo verbale. Beccatevela e recuperate questo dischetto tamarro e golosissimo 

Alcalde de la noche - Fantasía Ibiza

Anche se l'estate è finita da un pezzo, il disco perfetto per il cimento invernale è senza dubbio "Fantasía Ibiza", il nuovo ep dell'Alcalde de la noche, che segue di un paio d'anni lo sfavillante esordio "Direccion Destroy". Prima di continuare con i miei sproloqui, però, sono necessarie alcune premesse: prima di tutto l'Alcalde è un progetto musicale che vede coinvolti due storici agitatori dell'underground genovese: Michele (voce, basi e testi) e Fabio (basi). Il primo con un background più psichedelico e anni Settanta, il secondo con una lunga militanza nella scena punk cittadina, senza mai nascondere però un forte amore per l'elettronica. Il risultato è una splendida tamarrata da farvi rizzare i peli sotto le ascelle. L'Alcalde de la noche, infatti, non sembra avere alcun legame con il passato musicale di Michele e Fabio - ma è decisamente figlio della loro totale anarchia creativa - e suona come un omaggio a cuore aperto all'italo disco più sfrenata e caciarona (Fratelli La Bionda e Righeira su tutti), con un pizzico di techno e dance anni Novanta. I testi sono in spagnolo (Michele ha vissuto nella penisola iberica una decina d'anni e quindi la pronuncia doc è assicurata) e parlano della vita dei giovani dell'era post franchista (soprattutto anni Novanta), tra vecchie leggende, personaggi, "bande giovanili" e tribù assai particolari. "Fantasía Ibiza" è un concept nel concept, perché oltre a continuare a raccontare, a colpi di synth e ignoranza, questo periodo piuttosto intenso della storia spagnola, si concentra sull'isola di Ibiza, regno degli sfattoni e dei discotecari, ma anche degli hippie e dei dissidenti del franchismo. Fattanza e libertà, insomma, giusto per parafrasare un bellissimo film di Ken Loach sulla guerra civile spagnola uscito, guarda caso, nel 1995.

I brani di questo secondo ep sono 5 e hanno tutti una diversa storia da raccontare. La title track, che parte con un ritmo martellante come il cuore di un truzzo pieno di napalm, è dedicata a coloro che per tutto l'anno sognavano le due settimane di balli sfrenati e vita al limite che avrebbero trascorso a Ibiza. La voce di Michele è profonda e quasi dark, ma il ritornello è un vortice irresistibile che ti brucia il cervello come un trip. "Come siempre en el Pacha" è un omaggio alla nota discoteca delle ciliege (il Pacha, appunto), che anche un vecchio punk sulla soglia dei 40 anni come il sottoscritto ha sentito nominare almeno una volta nella vita. La base è più eterea e lo-fi, mentre Michele salmodia come un Giovanni Lindo Ferretti con la felpa dell'Essenza.

L'inizio ipnotico della "Ruta de las rulas", terzo pezzo in scaletta dell'ep, è un'ode agli impasticcati, che per reggere giorni e notti di balli  sfavillanti si "mangiavano" di tutto. La melodia della base richiama tantissimo la dance anni Novanta, con quelle sue aperture verso lo spazio infinito e l'incedere etereo. Per me resta il pezzo forte del disco. Ottima anche la voce di Michele, grazie a un'interpretazione mai sopra le righe e ricca di pathos. I tramonti coloratissimi e suggestivi di Ibiza sono il tema principale de "La puesta del sol", la ballad dell'ep. Anche qui l'influenza della dance di una trentina di anni fa è piuttosto forte, grazie a una bellissima melodia che si insegue per tutto il brano. Chiude l'ep "Italianos dance", che strizza l'occhio all'italo disco vecchia scuola. Michele canta in spagnolo maccheronico sciorinando una serie di luoghi comuni degli italiani a Ibiza, cercando di imitare i tic e la parlata dei tamarri di periferia che, negli anni Novanta, sbarcavano sull'isola spagnola in cerca di chiavate facili e divertimento. La base ha in sé qualcosa di epico e cresce di intensità insieme al brano. Il finale è brusco, come l'atterraggio quando si torna a casa da una vacanza a base di edonismo e devastazione.

Come i più sagaci di voi avranno intuito non si tratta del classico disco punk che recensisco abitualmente. Anzi la musica in questione è la tanto vituperata dance, che odiavamo da ragazzini. Personalmente, però, trovo che sia molto più punk un disco assolutamente fuori moda (e fuori di testa) come questo, rispetto all'ennesima band fotocopia di NOFX e Rancid. Anche perché se avete ascoltato i Sigue Sigue Sputnik e certa elettronica fatta in casa, forse l'Alcalde de la noche non vi sembrerà poi così alieno (ma se così fosse sarebbe un altro punto a suo favore). Non dimenticate, poi, che punk vuol dire soprattutto fare ciò che gli altri non si aspettano. E che i Righeira, soprattutto Johnson, prima di fare il botto con i loro capolavori italo disco, arrivavano proprio dalla prima scena punk e new wave italiana ("We wanna be punk" vi dice qualcosa?). Insomma bando alle ciance, tirate su il colletto della vostra polo taroccata e masticata dal cane, mettetevi gli occhialini 3D e gettatevi in pista a ballare. Sarà come essere in un mosh pit in cui tutti limonano.


giovedì 17 settembre 2020

Un po' di recensioni a babbo/19 Liguria la punk e altre delicatezze dal resto d'Italia

Rieccomi con un po' di belle novità. Due delle quali tutte liguri. Per il momento non ho altro da dire, vostro onore.


Manges - Punk Rock Addio

"Punk Rock Addio", il nuovo disco dei Manges esce tra una decina di giorni, ma grazie ai miei potentissimi mezzi (scherzo) sono riuscito a sentire in anteprima gli mp3. L'album, è bene dirlo subito, è strepitoso: non ha un pezzo fuori posto e suona alla perfezione (grazie anche all'impeccabile produzione di Lorenzo Moretti e Danilo Silvestri dei Giuda). Chi temeva, magari suggestionato dal titolo, che la band spezzina mollasse il vecchio punk rock per battere nuovi territori musicali stia tranquillo: a parte qualche timida divagazione (che tra l'altro corrisponde ad alcuni dei pezzi migliori in scaletta), "Punk Rock Addio" non è così diverso dai precedenti lavori dei Manges. E secondo me è un'ottima notizia. Siamo sinceri: credo che siano pochissimi i fan della band in attesa di una qualche svolta musicale. Tutti, me compreso, non vedono l'ora di ascoltare la solita splendida broda a base di tre accordi veloci e melodie a presa rapida. E "Punk Rock Addio" va proprio in questa direzione: 12 pezzi spesso sotto i due minuti, che suonano come un martello pneumatico ricoperto di zucchero, pronto a traforarvi le orecchie. La voce di Andrea - secondo me il vero marchio di fabbrica della band - è come al solito perfetta. A chi continua a menarla con la storia dei cloni dei Ramones (e vabbè, grazie al cazzo!), rispondo subito che i Manges, in 27 anni di onorata carriera, sono riusciti a sviluppare uno stile talmente personale e riconoscibile, che il paragone con i 4 finti fratellini newyorkesi regge fino a un certo punto. Forse, diversamente dal passato, "Punk Rock Addio" è un po' più tirato e meno pop del solito e le melodie migliori sono riservate ai pezzi meno in linea con la classica formula punk-rock. Detto questo, dopo oltre dieci ascolti filati, non mi sono ancora stancato di schiacciare il tasto play. Ma vediamo come sono queste canzoni e partiamo proprio da quelle non allineate. "Paninaro", per esempio, con i suoi sintetizzatori bubblegum è davvero un brano irresistibile. Sembra un pezzo degli Epoxies in versione Lookout Records: pagherei oro per un disco tutto così. L'altro pezzo 'insolito' è "Tootsie Rolls" un plagio autorizzato (vista la presenza di Lorenzo e Danilo in regia) dei Giuda, ma anche la dimostrazione che se i Manges volessero mettersi a fare glam non sfigurerebbero affatto. "Take it on the Chin", uno dei brani più melodici del disco, è una cover di William Elliott Whitmore, cantante country statunitense, mentre "Off my tree" è un pezzo scritto da CJ Ramone e ragalato alla band: una canzone carina, ma non irresistibile. Il resto, come detto, è una mitragliata di classico punk rock suonato a manetta, senza un attimo di respiro. Dal trittico iniziale "Next to zero", "Vietnam addio" e "Endless detention" - stile primi Ramones (anche se avevo detto che non avrei fatto paragoni) - a "Ice capades", un surf punk robotico, da mare blu metallizzato. E poi ancora il pop-punk trascinante di "Chinese dragons", le bastonate a suon di riff di "Viper room", "North Korea", con una strofa melodica deliziosa che mi ricorda "Vengeance is mine" (uno dei mie prezzi preferiti dei Manges) e il rock'n'roll di "L.E.N.D.O.R.M.I.N.", che ricorda (non solo nel titolo) "R.A.M.O.N.E.S." (aridaje). Come ho già detto: un disco davvero splendido: semplice e diretto, come quasi nessuno sembra più essere in grado di fare. Eppure la prima volta che ho ascoltato "Punk Rock Addio" erano davvero pochi i pezzi che mi avevano colpito. Ora che le mie orecchie lo hanno macinato almeno una decina di volte, però, ne vado letteralmente pazzo. Mi ci sono voluti almeno tre ascolti per iniziare ad amarlo. Ma forse è perché ormia, anche chi ascolta punk-rock a palate è meno abituato a una certa immediatezza. E così, quando ci si ripresenta davanti restiamo tutti un po' interdetti. Detto questo, "Punk Rock Addio" è uno dei dieci dischi più belli usciti quest'anno. Lo dico senza timore di smentita e nonostante manchino tre mesi e mezzo al 31 dicembre. Non so se sarà davvero l'epitaffio dei Manges. Se così fosse credo che i ragazzi non avrebbero potuto scegliere un album migliore. Siamo ai vertici della loro discografia.

 

Cocks - Arena

Conosco i Cocks da quando facevano ancora il liceo e venivano ai concerti punk-rock al TDN. Erano dei ragazzini, ma si capiva subito che avevano l'attitudine giusta. Oggi che sono degli uomini e girano l'Italia e l'Europa con la loro band credo siano arrivati a un punto di svolta importante. "Arena", il nuovo ep targato Flamingo Records, è forse il loro disco migliore in assoluto. E sancisce la definitiva maturazione di un gruppo che, dopo essere nato tra i banchi di scuola e aver pagato dazio alle classiche influenze musicali di chi ha iniziato ad ascoltare punk-rock una dozzina di anni fa, oggi può contare su un suono solido e assolutamente personale. La differenza che salta subito alle orecchie rispetto al passato è la voce di Antonio, che in queste cinque tracce è decisamente meno impostata e più naturale. Anche la struttura dei pezzi è più libera e meno legata a certi cliché del punk-rock di nuova generazione. Spesso, quando sento parlare dei Cocks l'etichetta che viene utilizzata più frequentemente per definire la loro musica è pop-punk. Sinceramente ho sempre preferito parlare di hc melodico, perché è da lì, secondo me, che bisognerebbe partire per provare a capire dove collare questa band. Poi certo, per chi suona sentir parlare di certe etichette è una gran rottura di scatole da giornalistucoli o critici da quattro soldi. Ma a me hanno sempre aiutato a capire, in anticipo, l'essenza stessa di un gruppo. Passando invece alle canzoni di questo ep credo che i Cocks abbiamo sviluppato una certa compattezza di fondo, mescolando a dovere melodia, malinconia e velocità. Come conferma anche l'artwork – disseminato di una serie di vecchie foto e cartoline color seppia del quartiere genovese di Sampierdarena, dove la band è nata - lo spirito del disco è molto nostalgico. Lo si percepisce immediatamente in "The secret" e in "Alpha", i due pezzi di apertura, pieni di melodie liquide e corali. "Full speed haed" è forse il brano più 'duro' del disco, anche se restiamo sempre nei territori del pop-core. "Day by day", invece, è una classica ballata punk-hc, di quelle che partono piano, ma che sanno toccare le corde del cuore senza perdere intensità. Chiude l'ep "Boomers alert", che oltre al titolo divertente, è una altro pezzo malinconico e dilatato, perfetto per concludere un disco: una sorta di psichedelia hardcore. Un ringraziamento speciale va senza dubbio a Emi e Alberto di Flamingo Records che, ancora una volta, non solo danno alle stampe un ottimo album, ma dimostrano di essere un punto di riferimento fondamentale per la scena genovese e il suo sviluppo. Credo che senza la loro passione e il loro entusiasmo questa città sarebbe molto meno ricca di band e dischi. Da quando hanno aperto il loro negozio in piazza delle Vigne sono cresciuti tantissimo e hanno dato un contributo essenziale alla crescita dei gruppi di casa nostra. Grazie, ragazzi! 

 

Ghiblis - Domino

E' passato un anno dal singolo dei Ghiblis, che ho recensito su questo blog scalcinato. E oggi la band piacentina torna a farsi sentire con un album di 11 pezzi, targato ancora una volta Area Pirata e intitolato "Domino". Gli ingredienti sono sempre gli stessi: surf strumentale, mescolato a un retrogusto esotico ed etnico. Una sorta di world-surf, se mi passate il termine, con il sax in primo piano e l'amore per le colonne sonore anni Sessanta e Settanta a fare da sfondo. Certo, la matrice surf è quella predominante, ma sono i dettagli a rendere questo disco molto diverso dal classico album per coloro che amano cavalcare le onde su una tavola di legno. L'atmosfera è quella della balera da ultima spiaggia, un mix di vecchi smoking sgualciti e di cocktail party a base di droghe psichedeliche e pieni di brutti ceffi. I brani sembrano un inno alla decadenza malinconica, un soffio di aria viziata a increspare il mare inquinato. Un esempio di quest'inquietudine di fondo è la title-track, "Domino", con quelle voci soffuse che ogni tanto si fanno largo tra le chitarre poliziesche e ripetitive. Più classicamente surf "La nana", "The dachschund walk", “Oki Doki” e “Gonzo twist”, ma se questo genere musicale ha quasi sempre sprigionato una vitalità quasi rilassata e pacifica, nella versione dei Ghiblis assume un tono più nero e perturbante. Il lato dark della musica da spiaggia. 

 

 Dayglo Demons - Dayglo Demons

Una lunga suite di quasi un'ora dentro la quale si intersecano punk, noise, avanguardia, surf, jazz, raggae, rap, elettronica minimale e sperimentazioni varie. Non è facile inquadrare un disco selvaggio e totalmente fuori schema come quello di Dayglo Demons: un album lungo 28 pezzi, totalmente autoprodotto e distribuito da Area Pirata. Le poche cose che so dell'autore - Dario Troso aka Gopher, storico esponente dell'underground italiano e in particolar modo della scena punk-hc anni Ottanta e rap anni Novanta (ha partecipato ad alcune esperienze leggendarie come l'Isola Posse) - non aiutano molto a capire. Ma in questi casi l'unico modo per approcciarsi a un disco così intricato e al tempo stesso affascinante è infilarlo nello stereo e acoltarlo. Almeno due o tre volte di fila. E così ho fatto. Anche se non è un'esperienza agevole. Proprio per questo “Dayglo Demons” è un disco punk nel più crudo e viscerale senso del termine. Un ammasso di suoni sporchi e registrati in bassa definizione, una miscela di influenze e passioni diverse, che però sembrano nascondere un unico filo conduttore: la ferocia. Episodi più classicamente rock (o punk) come "Grave diggin'", "Invisible sun" e "Paperback writer" si alternano a suoni di tamburi, trombe free, divagazioni etnico-elettroniche e spippolamenti vari. Il disco sembra una versione più accessibile e variegata (diciamo più rock) di Bologna Violenta. Anche se la rabbia di fondo mi pare la stessa. Ci sono chitarre che sfrigolano come zanzare contro un lampione acceso, batterie elettroniche sparate a mille all'ora e una voce ruvida, perfetta per l'hardcore, ma anche per il raggae ("Wrong direction") e per il rap-core ("Quiet maze"). Tutti i brani sono piccoli frammenti sonici, messi uno in fila all'altro per disorientare l'ascoltatore. In poche parole una macedonia di frutta fresca e verdura marcia, che i meno corazzati di voi impiegheranno pochissimo a odiare. 

 

The Smoking Bones - Down to the high

Un pezzo originale e una cover di Elvis. Pronti via. Scivola rapido, ma lascia comunque il segno "Down to the high", il singolo degli Smoking Bones pubblicato da Area Pirata. Gli ingredienti principali sono il rock roccioso anni Settanta e buona vena melodica. Gli Smoking Bones hanno un suono pieno, costruito su ottimi ritornelli a base di cori poderosi (la title track). Ma sanno anche reinterpretare a modo loro e senza timore reverenziale un classico del Re come "Burning love", trasformandolo in un trascinante pezzo power-pop tutto da ballare. Un singolo appetitoso per chi ama il rock, senza tante declinazioni.

 

Maximilian D - Maximilian D

Voce impastata da alcol e sigarette, cappellaccio da gringo e stivali di pelle ai piedi. Me lo immagino così Maximilian D - e cioè Massimiliano Muoio degli storici Nia Punx - mentre registra questi 11 pezzi in bilico fra country, musica rurale, blues minimale, atmosfere mariachi e rock scarnificato. Roba da cowboy con i pantaloni strappati e la spilla dei Gun Club attaccata sul chiodo sdrucito. Un tex-mex insaporito alla nduja, con la voce cavernosa di Massimiliano che mastica le corde della chitarra e del banjo in un assolato pomeriggio di agosto. Questo album, pubblicato da Mania Records e uscito lo scorso anno, è carico di echi e riverberi, melodie inquiete e solenni e lunghe cavalcate soniche. Un disco molto americano, non solo nei suoni, forte di una grande compattezza di fondo. E' come se Maximilian D avesse voluto esplorare il lato più dark e goth della musica country, mescolando vampiri e vecchi fuorilegge a cavallo. Non è facile scegliere un pezzo più rappresentativo,vista la coesione dei brani. Personalmente mi piacciono molto "Rattlesnakes", la ballata "Memories of your future past", con quella sua chitarra deliziosa e carica di malinconia e "Blues is my heart", un vero gioiello che risplende lungo la linea dell'orizzonte. Insomma, come avrete capito si tratta di un disco molto intenso e da scoprire ascolto dopo ascolto. A tratti mi ricorda i genovesi Sleeves. Anzi, credo proprio che questo album possa piacere parecchio ai fratelli Cheldi e ai loro fan.

 



mercoledì 5 agosto 2020

Tre libri is megl che uan - Recensioni lampo delle biografie di Roger Miret e Alex Chilton e di "No Control".

E' un periodo che leggo molto lentamente. E non è solo perché con una bimba di pochi mesi al seguito si dorme poco e si è, per forza di cose, più stanchi e deconcentrati. E' proprio un momento così: una di quelle fasi della vita in cui capita di impiegare anche un mese a leggere un libro di 300 pagine. Quando fino a poco tempo prima bastavano due settimane. Certo, nel frattempo sto divorando parecchie riviste, quotidiani, fumetti, fanzine e qualche articolo interessante su alcuni siti Internet. Però questa lentezza nella lettura di romanzi, saggi e biografie musicali - la mia classica dieta libraria - un po' mi scazza. Soprattutto perché sta uscendo un sacco di roba pazzesca, che, quando va bene, accumulo sul comodino e quando va male finisco direttamente per non comprare, in attesa di momenti migliori. Così è passato parecchio tempo da quando in questo blog scalcinato si è parlato di libri. E visto che tra quarantena e vacanze ne ho letti almeno tre a carattere musicale, beccatevi queste tre recensioni lampo.

p.s. leggendo meno mi sono anche arrugginito parecchio nello scrivere. Ok, non sono mai stato un drago, ma visto che nella mia vita mi sono sempre guadagnato da vivere più o meno così, non è che sia propria una cazzata. Scrivere non è un dono. Per farlo bene bisogna leggere e - naturalmente - scrivere tanto. E' come fare una maratona: se non ti alleni arrivi ultimo o ti ritiri a metà percorso. Bene, ora che vi ho tediato in abbondanza con le mie stupidaggini parliamo di cose più serie.

My Riot. Agnostic Front: la mia vita hardcore - di Roger Miret e Jon Weiderhorn

Ho comprato questa biografia di Roger Miret degli Agnostic Front sulla fiducia. Perché a stamparla in italiano è la Hellnation di Roberto Gagliardi e l'intera operazione è stata seguita da Flavio Frezza e dalla sua Crombie Media. Un atto di fede, quindi. Anche perché l'hardcore di New York e gli Agnostic Front non sono mai stati il mio pane. Conosco per sommi capi la scena in questione e ho quasi tutti i dischi considerati fondamentali - compresi i primi due della band di Miret e Stigma - ma il mio timore era che questo libro non fosse altro che una variazione sul tema della biografia di Harley Flanagan dei Cro-Mags: un volume che avevo faticato a finire e che non mi aveva convinto per niente (si parlava quasi solo di risse, droga, risse, droga, risse e ancora droga. Insomma: alla lunga due palle). Per come la vedevo io Miret e Flanagan erano due facce della stessa medaglia. E quindi mi aspettavo che anche questo libro fosse il solito concentrato di scazzottate, coltellate, onore, vita di strada e... sticazzi. Invece in "My Riot" la musica è assai diversa. Prima di tutto il libro è scritto (e quindi anche tradotto) molto bene. Si legge tutto d'un fiato, con le parole che scorrono rapide lungo le circa 300 pagine di questa semplice, ma al tempo stesso ottima, edizione italiana. Certo, la vita di Miret è un bel casino come quella di Flanagan. Si parla molto della sua infanzia difficile da immigrato cubano, dei problemi con il suo patrigno violento e della sua vita di strada sin da giovanissimo. A questo poi si aggiunge tutto il calvario dell'età adulta: le relazioni incasinate, la droga, lo spaccio e la galera. Ma c'è anche parecchio spazio dedicato alla musica e alla scena punk di New York di fine anni Settanta e di tutti gli anni Ottanta. Per farla breve non si parla solo di disagio. Non fraintendetemi: non voglio dire che quell'aspetto delle biografia musicali sia noioso o inutile. Anzi, il vissuto personale di un artista è fondamentale per capire l'origine della sua musica, soprattutto in una scena come quella punk (ma più in generale nel giro underground), dove è difficile scindere vita e arte. Però c'è modo e modo di affrontare l'argomento. E credo che Miret, ma soprattutto Weiderhorn, che ha materialmente scritto il libro, lo abbiano fatto nel modo giusto. "My Riot" parla di cosa voglia dire essere un immigrato cubano nella New York di fine anni Sessanta e Settanta, ci racconta una città dolente e in decadenza, che proprio nel suo momento più difficile (la Grande Mela era vicina alla bancarotta) è riuscita a diventare un punto di riferimento culturale per tutto l'occidente. E poi in questa biografia si racconta anche come sono cambiati il punk e l'hardcore nel corso degli anni. Di come, nel giro di tre lustri, siano passati dall'essere la musica dei reietti a scalare le classifiche e diventare la nuova gallina dalle uova d'oro del music business (anche se Miret ha cominciato a vedere qualche dollaro solo in tarda età). "My Riot" è un libro completo. Che bilancia bene biografia personale e biografia musicale. Una bella sorpresa, anche per chi non è un fan accanito degli Agnostic Front (anzi: grazie a questa lettura li ho riscoperti con grande piacere).


Alex Chilton. Un uomo chiamato distruzione - Holly George-Warren
Aspettavo questo libro - pubblicato da Jimenez - da parecchi anni. Almeno da quando Giulio mi ha convinto a comprare il mio primo disco dei Big Star, "Radio City", dopo che gli avevo confidato di aver appena scoperto il magico mondo del power-pop. "Se ti piacciono quelle band devi assolutamente ascoltare i Big Star - mi aveva detto con una certa solennità mentre spulciavamo i dischi da Fnac - Loro sono i capostipiti del genere". Aveva dannatamente ragione. E "Radio City" resta uno degli album pre punk più belli della mia collezione.
Alex Chilton, però, come ci racconta questa splendida e approfondita biografia, è stato molto più che un semplice precursore del power-pop. Anche perché i Big Star rappresentano solo una fase della sua immensa storia musicale. Gli inizi, ancora adolescente, con i Box Tops e il successo incredibile - direi quasi planetario - di quella teen band, le delusioni verso il music business, la lenta discesa all'inferno (con l'inspiegabile flop dei Big Star e i problemi con alcol e droghe), le storie d'amore laceranti, la carriera solista che non decolla e che lo porta ad accettare lavori umili e concerti per pochi spiccioli, la fiducia ritrovata, il punk che lo riabilita e una nuova dimensione da padre nobile dell rock alternativo. Sono queste alcune delle tappe cruciali della vita incredibile e convulsa di Alex Chiltron, morto ad appena 59 anni nel 2010. Holly George-Warren, che lo aveva conosciuto nei primi anni Ottanta (e aveva battezzato la loro amicizia vomitandogli nel lavandino di casa) racconta questa storia incredibile e molto americana con una dovizia di particolari che ha del miracoloso. La vita di Chilton, in queste 400 e rotte pagine, viene passata al setaccio sin dal suo albero genealogico. George-Warren si sofferma anche su alcuni episodi molto personali come la tragica e prematura morte del fratello più grande e l'eccentrica vita della sua famiglia. Qualcuno, ora non mi ricordo più chi, pur avendo amato questo libro, ha criticato lo stile di scrittura dell'autrice, definendolo un po' troppo didascalico. Non sono d'accordo. A mio modestissimo parere questa biografia è scritta molto bene, anche dal punto di vista stilistico. Certo, non è un romanzo e a volte le citazioni hanno la meglio sulla vivacità della scrittura. Ma pur avendo impiegato parecchio tempo a finirlo, ho trovato "Un uomo chiamato distruzione" decisamente ben fatto. La parte più interessante del libro - ma forse il mio è un giudizio di parte - è la seconda e cioè quella che parte con lo scioglimento dei Big Star (anche se è stato bellissimo leggere la genesi di album incredibili come "#1 Record" e "Radio City"). Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta Alex Chilton ha vissuto letteralmente sulle montagne russa, ma ha anche fatto la vita che probabilmente ha sempre desiderato. Ha suonato ciò che amava per pochi fedelissimi spettatori e si è riscattato grazie all'ammirazione di band sulla cresta dell'onda che erano cresciute con i suoi dischi (soprattutto con quelli dei Big Star). Parlo di gente come Replacements e Rem, tanto per chiarire. E ha pubblicato alcuni ottimi dischi che sono stati dei meravigliosi insuccessi commerciali (l'ep per la Ork Records in pieno fermento punk e l'apparentemente sconclusionato ma secondo me superbo lp "Like flies on sherbert").
Uno dei libri dell'anno. Procuratevelo al più presto.


No Control. Storie di hardcore punk californiano 1980-2000 - Federico Guglielmi.
L'avvertenza scritta dall'autore nell'introduzione è chiara e onesta: "questo libro non è un'enciclopedia dell'hardcore punk californiano né una guida pratica del fenomeno in questione". Si tratta invece di un raccolta delle interviste, delle recensioni (soprattutto) e degli articoli scritti da Federico Guglielmi nei suoi primi vent'anni di carriera giornalistica (anche se limitatamente a un preciso argomento). Un bel vademecum, quindi, su come una delle firme più conosciute del giornalismo rock italiano abbia raccontato l'hardcore punk, sin dalle sue origini fino all'esplosione commerciale del 1994 e poi lungo le sue successive diramazioni, su alcune delle riviste mainstream italiane più importanti degli ultimi 30 anni: Mucchio Selvaggio, Rumore, Velvet (solo per citarne tre). Ma se da una parte è piuttosto interessante, soprattutto per chi, come me, ha scoperto certe sonorità soltanto a metà anni Novanta, leggere come venivano accolti e raccontati in tempo reale certi dischi nel nostro Paese, dall'altra credo che questo libro sia soprattutto una grande occasione persa Mi spiego meglio. Quando ho letto il titolo "No control. Storie di hardcore punk californiano" e poi, in calce, la firma di Guglielmi - che oltre a essere un grande appassionato del genere è anche piuttosto ferrato in materia avendolo seguito sin dalle sue origini, come detto poco sopra - ho sperato subito in un volume che documentasse e raccontasse l'epopea di questo fenomeno (che anche io adoro e seguo in tutte le sue sfaccettature). Una sorta di storia ragionata dell'hardcore punk californiano (sul tema esistono diversi libri, purtroppo quasi mai tradotti in italiano). Invece, in questo caso, si è preferito fare un collage - esteticamente anche molto bello, visto che la Tsunami cura sempre molto bene la grafica delle sue uscite - di qualcosa di già edito e che per tante ragioni, qualche volta, suona pure un po' datato. Un'operazione analoga a quella di "Noi conquisteremo la luna", raccolta di articoli, interviste e recensioni, sempre di Guglielmi, sul "nuovo rock" italiano degli anni Ottanta (la scena new wave e post-punk, insomma), pubblicata qualche anno fa da Rave Up. Un libro interessante, che ho letto con piacere. Ma anche in quel caso mi ero chiesto: perché uno che conosce così bene questo fenomeno, che l'ha vissuto e raccontato in tempo reale (a volte persino in solitaria, visto che il resto della stampa specializzata all'epoca lo snobbava) e che dispone di un archivio sonoro e cartaceo così imponente, non scrive da zero una storia omogenea di quella scena? Mi rendo conto che si tratta di un lavoro immane. E lo stesso vale per l'hardacore punk californiano. Però il risultato sarebbe stato nettamente migliore. "No control", comunque, resta una lettura interessante. Soprattutto dal punto di vista storico-giornalistico. Per i neofiti, inoltre, è una miniera di consigli utili per districarsi all'interno di una discografia enorme, che conta parecchi outsider straordinari, sui cui Guglielmi, giustamente, "spreca" parecchio inchiostro (Middle Class, Rikk Agnew, Shattered Faith, CH3, solo per fare alcuni esempi). Davvero notevoli poi alcune interviste (Bad Religion e Robbie Fileds della Posh Boy su tutte). Mentre ho trovato un po' poco approfondita la parte sul revival degli anni Novanta (si parla poco di Lookout, per esempio). In definitiva: "No control" è un libro che un appassionato di hc-punk californiano non può farsi sfuggire. Anche perché sfido chiunque a trovare altri volumi così completi in italiano. Detto questo mi sarei aspettato qualcosa di più. Anzi, sotto sotto, spero che questo libro sia solo l'antipasto di qualcosa di più elaborato e strutturato su una delle scene musicali più eccitanti di sempre. Se le vendite sono andate bene come spero (e credo), Tsunami e Guglielmi (o anche qualche altra casa editrice e qualche altro autore) ci facciano almeno un pensierino...


martedì 9 giugno 2020

Un po' di recensioni a babbo/18 Maggiorenne da vent'anni

Il lockdown probabilmente non mi ha reso migliore. Sicuramennte non ha avuto effetti positivi sulla mia proverbiale lentezza. Quindi ecco una manciata di rencesioni che avrei dovuto pubblicare un paio di settimane fa. Dischi davvero clamorosi che vi consiglio caldamente. Ok, qualcuno dirà: ma minchia ti piacciono sempre tutti? No, è che di solito le ciofeche si fermano prima di arrivare al mio stereo. E a meno che non facciano cagare al cubo - e allora mi diverto - non perdo tempo a scriverci sopra neppure mezza riga.

La Furnasetta/Sara Ohm – Bat Kvinnor split tape
Lo split tape tra la Furnasetta (la band avant con base a Casale Monferrato, che i due lettori di questo blog ormai hanno imparato a conoscere) e l'artista svedese Sara Ohm sembra rispondere a una delle domande più leziose degli ultimi anni: come suonerebbe oggi il nuovo punk? Probabilmente così. Sempre che, quando parliamo di punk, intendiamo qualcosa che vada al di là dei rigidi canoni musicali e privilegi piuttosto l'aspetto spiazzante, urticante e rivoluzionario. Ma come detto la domanda è leziosa. E anche la risposta non è da meno. Di certo il nuovo punk non è la trap. Almeno questo consentitemelo. Tornando al disco in questione – pubblicato su cassetta da Industrial Coast, ma voi potete ascoltarlo separatamente in streaming sulle due pagine bandcamp della Furnasetta e di Sara Ohm - l'atmosfera generale che pervade “Bat Kvinnor” è decadente e apocalittica. Lo so che si tratta di due elementi molto diversi tra loro e poco conciliabili, ma quando sento l'incedere tribale di “Italian spread it better” (titolo geniale) sostenuto dalla voce lamentosa di Zen-Ga – quasi un omaggio a “Penis envy” dei Crass – e i rumori da discoteca siderurgica di “New possibilities” mi sembra di essere di fronte a un manifesto politico, che recupera la radicalità del passato, filtrandola con i suoni del futuro. “Flowers on the loose” è minimalismo allo stato puro, come una navicella perduta nello spazio, la cui eco arriva flebile sino a noi. “Trapped under ice” è una radio impazzita dai toni glaciali, mentre “Brass tactics” è una viaggio elettronico-psichedelico tra curve e tornanti, che termina con i rumorismi di “Absestos rescue” - che cita la label di Casale che produce gran parte dei lavori della Furnasetta e che ha registrato questo lato dello split –: un pezzo rovente di industrial, che assomiglia a un match di lotta a mani nude.
Il secondo lato dello split è quello musicalmente più politico. Sara Ohm non è solo una musicista, ma anche un'attivista (almeno, così credo di aver capito) e il suo noise-punk sperimentale è la colonna sonora perfetta della rivolta. Suoni monotoni e martellanti soffocano le urla di “Girl, you are a human now” (altro titolo bellissimo). “Future” è una cantilena lontana, che si perde in spazi vuoti e angusti e che, anche quando esplode, resta sepolta sotto coltri di feedback. “Scum/Vs” sembra quasi la registrazione su cassetta e in presa diretta di un vecchio concerto hardcore trasmesso alla radio. Il nastro è consumato dal tempo e dagli ascolti, ma in lontananza si sentono il furore e la rabbia, nonostante la ricezione disturbata. I fischi e i larsen che accompagnano tutto il lato di Sara Ohm aumentano di intensità in “Images of you”, un brano costruito su una voce ossessiva e ansiogena. Chiude il lato e il disco “Confront them”, il pezzo più violento e dissonante dell'intera tape. Anche qui si sento l'eco dei Crass e in particolare della già citata parte femminile del collettivo anarcho punk inglese. Una chiusura del cerchio per l'album (visto che si ricollega – almeno secondo me – a “Italian spread It better” della Furnasetta) ma anche per l'intero progetto che vi sta dietro. La nuova radicalità musicale è anche un fatto politico e “Bat Kvinnor” ha il gusto acido dei lacrimogeni che atterrano sull'asfalto.

Bag of Snacks – Paper girls
Paolo Meranda è uno dei tipi più punk che conosca. Non perché abbia il moicano verde, indossi ogni giorno il giubbotto di pelle o beva una bottiglia di gin la mattina, appena sveglio. Anzi se vi capitasse di vederlo a un concerto e vi venisse in mente di offrigli da bere ricordatevi che non tocca una goccia d'alcol neppure a capodanno. Quello che fa la differenza, per quel che mi riguarda, è il suo approccio alla musica. Paolo non è uno che sta troppo a menarsela e quando ha un'idea mette su una band e nel giro di qualche settimana ha già pronto un disco. Musica veloce e urgente, suonata con una spontaneità (che se fossimo dei fricchettoni definiremmo spontaneismo) davvero micidiale. Tra i suoi tanti progetti – quasi tutti improntati a un rock'n'roll sporco e travolgente – Bag of Snack è forse quello che mi piace di più (e già ero un fan accanito di Ase e dei Kinn-Oks, che ho recensito il mese scorso). Il disco – coprodotto da una serie di piccole etichette tra cui la genovese Flamingo Records, che non sbaglia mai un colpo – è un lussuoso picture disc serigrafato e registrato su unico lato, con dodici pezzi spettacolari che, in un solo caso, superano i 2 minuti di lunghezza (“Come on!” dura appena 14 secondi). Il titolo dell'album, “Paper girls” è anche il manifesto del concept attorno al quale girano le canzoni (he sì, anche i punk sanno fare i concept album, ma durano come un solo pezzo prog). I nostri, infatti, hanno deciso di dedicare ogni brano a una diversa eroina dei fumetti, meglio se erotici o porno. Il risultato è da 10 e lode e una parte del merito è anche dello splendido artwork di Delicatessen. Alla solita furia iconoclasta tipica dei gruppi del Merenda, questa volta si aggiunge anche un pizzico di vena melodica in più, merito degli altri due componenti della band: Rudelph al basso e cori e Denny alla batteria e alle doppie voci. Il mio pezzo preferito è “Paper girl” (la title track) con i suoi coretti surf irresistibili, ma tutto il disco è una vera bomba. Immaginate le canzoni dei Queers cantante con la voce del cantante degli Zeke: un sogno! I testi sono minali e spesso ruotano intorno a un'unica frase ripetuta per un minuto i mezzo. Il disco è stato registrato in presa diretta, ma suona da Dio e qua e là ci sono piccoli cameo di alcuni eroi del punk italiano come Mauro Codeluppi dei Raw Power, Paolo Ciaccio dei Semprefreski, Lucky del Kid Combo e Alberto Cagnoli de Permanent Scar.

Baby Jesus – Words of hate
“Words of hate” dei Baby Jesus è un disco della madonna. Inutile girarci troppo intorno. La band svedese, con questo suo terzo album pubblicato in vinile dall'italiana Area Pirata, ha fatto centro. Garage, country, surf, power-pop e psichedelia si fondono alla perfezione in un mix perverso e irresistibile, che ricorda i Black Lips più scanzonati degli ultimi bellissimi dischi. L'album è pieno zeppo di canzoni dalle melodie svogliate e sopraffine, suonate con uno scazzo magistrale e una dolcissima indolenza. “Country I C” - la mia preferita in assoluto - “Red fangs”, “Who you are” e la title track “Words of hate” sono dei veri e propri gioielli di rock sfilacciato e zuccheroso, che ti restano addosso come il fumo di una sigaretta puzzolente. “Bjorns” e “No money”sembrano appena uscite da un volume perduto “Nuggets”, mentre il blues-punk malato di “Baked for money” è quasi un'invocazione laica al dio del rok'n'roll. Ma se continuo di questo passo finisce che vi elenco ogni singolo pezzo e mi metto a svarionare come al solito. Il fatto è che “Words of hate” non ha un brano debole neppure a pagarlo. Ogni canzoni vale il prezzo del biglietto. Quindi poche storie: fate vostro questo disco e mi ringrazierete per il resto dei vostri giorni.

AA/VV – Last white X-Mas
Quando si recensisce un disco come “Last white X-Mas”, il doppio cd pubblicato da Area Pirata che cattura il concerto del 4 dicembre 1983 a Pisa in cui hanno suonato alcuni pesi massimi dell'hardcore italiano degli anni Ottanta (quasi tutti del Granducato Hc a parte i Raw Power), si rischia di parlare molto più della portata storica dell'evento, che dei contenuti dell'album. Anche perché questo raduno, al di là dell'aspetto musicale, rappresenta uno dei punti cardine di una storia bellissima e incandescente come quella dell'hardcore italiano e in particolare della scena Toscana. Un avamposto controculturale, che andava sotto il nome del già citato Granducato Hc, all'interno del quale sono fioriti gruppi meravigliosi, sono state date alle stampe fanzine pazzesche e organizzati concerti da capogiro. Insomma un minimo di contestualizzazione è inevitabile. Ma poi bisogna parlare della musica. Anche perché Alessandro Sportelli, che 36 anni fa aveva registrato il concerto e lo aveva affidato allo statunitense Chirs BCT affinché lo pubblicasse in due cassette con la sua etichetta indipendente, ha interamente rimasterizzato i nastri originali. E il risultato ha dell'incredibile. Il suono dei 71 (avete letto bene, 71!) pezzi contenuti in questi due cd è pazzesco. Ruvido e sporco, certo, ma al tempo stesso nitido e pieno di calore. Eppure stiamo parlando di band hardcore punk di quasi 40 anni fa, equipaggiate con strumenti scadenti, dotate quasi tutte di una tecnica elementare e registrate in presa diretta da un gruppo di ventenni. Quel giorno, però, Brontosauri, Jaggernaut, Stato di Polizia, Putrid Fever, Dements, Useless Boys, Wardogs, A'ufchlang, Cheetah Chrome Moterfuckers (CCM), I Refuse It! e Traumatic (i pezzi dei Raw Power non compaiono nel cd per un questione di diritti) dovevano trovarsi in un vero e proprio stato di grazia.
Quella del Granducato era una delle scene più “americane” dell'hardcore italiano. Infatti molte band toscane cantavano in inglese – cosa gravissima all'epoca, sopratutto per le frange anarcho-punk vicine ai Crass – e amavano sperimentare nuove soluzioni musicali, rispetto al classico canone hc. Gruppi come gli I Refuse It! - nome in inglese ma testi in italiano – erano delle vere e proprie mosche bianche all'interno della scena. I loro testi erano claustrofobici, citavano film d'essai ed esprimevano una poetica unica, a tratti esistenzialista. Anche i CCM rappresentavano un mondo a parte. A volte erano stroppo ostici persino per chi ascoltava solo hardcore. Il loro suono abrasivo e violentissimo, accompagnato dalle performance massacranti del cantante Syd, ha lasciato un segno indelebile nella storia dell'hc (non solo italiano). E poi c'erano i Putrid Fever, una delle band più legate al suono statunitense e tra i miei preferiti del Granducato, grazie a un approccio totalmente nichilista (e quindi molto punk), filtrato attraverso la lente massiccia dell'hc. Ecco, volevo parlare del disco e sono finito a disquisire dei massimi sistemi. Ma in fondo lo sapevo che non sarebbe stato facile scrivere lucidamente di questo doppio cd. Quindi mi avvio alla conclusione dicendo che, tra le band meno blasonate presenti in “Last white X-Mas”, quelle che mi hanno colpito di più sono gli Stato di Polizia, dissonanti al limite del noise pur con qualche breve sprazzo di melodia e gli A'fschlag, che non avevo mai sentito prima, con la loro disperazione sparata a mille all'ora, come un missile terra-aria.
In definitiva: mettendo per un attimo da parte l'enorme valore storico di questa raccolta – un'operazione meritoria che mi ricorda un altro ottimo doppio cd uscito recentemente: “Rock & metropoli”, il disco compilato da Stefano Gilardino e Luca Frazzi che fotografa il concerto del 23 novembre 1979 al Palalido di Milano, uno dei battesimi ufficiali della prima scena punk italiana – “Last white X-Mas” è una vera e propria leccornia, per tutti coloro che amano il suono feroce e brutale dell'hc italiano degli anni Ottanta. Se avete tra le mani uno degli album (o singoli) usciti all'epoca, ma anche una delle tante ristampe pubblicate negli ultimi 20 anni, noterete che la qualità sonora di questo cd targato Area Pirata non di discosta molto da quelle produzioni. Se poi qualcuno nutrisse ancora dei dubbi sulla bellezza di questo “oggetto” vi dico solo che il ricco libretto interno, oltre ad alcune note interessanti sul concerto (con testi in inglese di Chirs BCT e di alcune delle band presenti), raccoglie anche una serie di splendide fotografie in bianco e nero dell'evento. Un disco monumentale.

Lisa Beat e I Bugiardi – Dal tramonto all'alba
Che spettacolo questo 7'' di Lisa Beat e I Bugiardi appena pubblicato da Area Pirata! Tre pezzi di coloratissimo pop anni Sessanta, tra citazioni più o meno esplicite dei Question Mark & The Mysterians (l'hammond eccitante che guida le danze nel primo pezzo intitolato “Dal tramonto all'alba”), beat italiano purosangue (“Inutile piangere” sembra uscita da una serata al Piper) e cover da sballo come la travolgente “Little latin Lupe Lu”, scritta da Bill Medley, ma portata al successo dai Righteous Brothers. Un singolo tutto da ballare e da rimettere sul piatto senza sosta, impreziosito da una grafica super sixties davvero clamorosa. Se amate le melodie e i balli sfrenati al centro della pista ecco la band che fa per voi. 


venerdì 8 maggio 2020

Un po' di recensioni a babbo/17 Roma punkona e co.


Torno ad aggiornare il blog dopo un mese di silenzio con qualche recensione, visto che mi sono trovato per le mani una manciata di ottimi dischi. Quattro su cinque sono targati Area Pirata.


AAVV – Rocks these ancient ruins – Mamma Roma's kids
Non è sempre stata figa come oggi la scena punk romana. Ha attraversato varie fasi, come capita spesso. Ma ci ha sempre regalato grandi band. Prendete il periodo d'oro dell'hardcore italiano: nei furiosi anni Ottanta erano decisamente altre le città a dettare la linea. Anche se dalla Capitala arrivava un gruppo stratosferico a metà fra il punk 77 e l'hc che tutti voi dovreste conoscere e amare: i Bloody Riot del compianto Roberto Perciballi. E proprio nei Bloody Riot ha mosso i primi passi uno dei pilastri della Roma punk di ieri e di oggi: Alex Vargiu, che sin dalla fine degli Anni Settanta è stato (ed è tuttora) uno dei protagonisti della scena capitolina, grazie a una serie di band incredibili come i Bingo, autori di un solo album e di una manciata di singoli nella seconda metà degli anni novanta (altro periodo fertilissimo per la Città Eterna). Ma dicevamo di Alex - che ho avuto il piacere di conoscere una volta da Hellnation –: è sua, in tandem con Pauletta Du (Plutonium Baby e Motarama), la mano dietro lo splendido artowork di “Rocks these ancient ruins – Mamma Roma's kids”, splendida raccolta di band punk, rock'n'roll e glam della scena romana, curata e compilata con grande gusto da Simone Lucciola (Blood 77, Gioventù Bruciata e la fanza Lamette) e Lorenzo Canevacci (Wendy?! e Bloody Riot). Un'idea semplice, ma meravigliosa - nata sulla scia delle prime edizioni del “Raw rock'n'roll festival” - che ci dimostra quanto siano vivi e pulsanti certi suoni nelle viscere della Capitale. La compilation, prodotta da Area Pirata e Surfin' Ki Records in vinile, non mette in fila solo i migliori gruppi attualmente in circolazione, ma butta nella mischia anche qualche nome storico tornato recentemente alla ribalta. Il piatto è davvero ricchissimo e la scaletta è con i contro fiocchi. C'è il punk dritto e sporco degli Alieni, il power-pop glammoso degli Wendy?! e il punk melodico e velenoso di Alex Dissuader (Alex Vargiu), che è, senza ombra di dubbio, tra le cose migliori che potrete ascoltare su questi solchi. E ancora: il garage psichedelico dei Plutonium Baby, il punk-rock ramonesiano dei Beats Me (che non conoscevo e che mi sono piaciuti molto), il rock'n'roll marcio e catarroso dei Blood '77 e i Cyclone (altro gruppo che ho ascoltato per la prima volta grazie a questa raccolta) con la loro trascinante e dissonante "Fuga fuori Roma", una sorta di oi! sperimentale. Non saprei definirla altrimenti.
Anche se in questa compilation mancano i Giuda ci sono comunque i mai troppo lodati Taxi (l'incarnazione precedente e punk della band di Tenda e Lorenzo): un gruppo pazzesco, che andrebbe riscoperto all'istante. I Queen Kong – band al suo esordio assoluto con Alex Vargiu e Daniela dei Plutonium Baby e Carlo Panta - hanno una vena pop seducente, che si insinua come un serpente sotto una chitarra punk che macina riff a manetta, mentre gli Human Race - tra i miei preferiti fra i nuovi gruppi romani - vanno alle radici del punk '77 californiano e toccano le corde del cuore. Gli Idol Lips sono una macchina ben oliata di garage a tutta velocità, mentre i Tigers in Furs sono un'altra punk band "alla vecchia" - come i già citati Human Race - da cui attendo, ormai da tempo, un album sulla lunga distanza. Chiudono questa compilation pazzesca - non c'è neppure un pezzo fuori posto – altre due grandi band: i Mad Rollers, vorticosi e in bilico tra punk, glam e power-pop, e un pezzo di storia del primo punk romano di fine Settanta come i Ferox, che qualche mese fa hanno pubblicato il loro primo disco su Rave Up. La nota critica del disco è curata dal giornalista Federico Guglielmi (che non credo abbia bisogno di presentazioni).

Smallatown Tigers – Five things
Punk sporco e indolente, una voce catarrosa che fa da contraltare a melodie allo zucchero filato avariato e un'urgenza, come si dice in questi casi, che ti riconcilia con il mondo. Le Smolltown Tigers sono tre teppiste di Rimini che suonano un rok'n'roll cattivo e senza pretese, pieno di coretti deliziosi e guidato da un suono di chitarra minimale ed eccitante. Per quel che mi riguarda hanno tutti gli ingredienti della band perfetta. Non fanno nulla per farsi piacere e invece sono irresistibili. Questo lp di 8 pezzi targato Area Pirata arriva dopo un ottimo e promettente singolo uscito qualche mese fa. Ma quello era solo l'antipasto: con "Five things" le ragazze dimostrano che ci sanno fare alla grande. "Girl", il secondo pezzo in scaletta, è una vera bomba, così come "Runaway girl", con quel ritornello zoppicante e quel riff clamoroso, che ti entra subito in testa. Ma tutte le otto canzoni in scaletta sono dei veri gioielli. L'album sembra registrato 45 anni fa, agli albori del punk, quando una manciata di band decise di resuscitare il vecchio rock'n'roll, con una dose di cattiveria in più. Non voglio tirarla troppo per le lunghe, ma credo proprio che "Five things" si candidi a diventare uno dei dischi più belli usciti quest'anno. Non è un caso che le Smalltown Tigers siano in piedi da poco tempo, ma abbiano già suonato in giro per l'Europa.

Strange Flowers – Songs for imaginary movies
"Songs for imaginary movies" è il nome perfetto per l'ottavo album degli Strange Flowers, targato Area Pirata e Surfin' Ki. La band neo psichedelica pisana (attiva dal 1987) non ama guardarsi indietro e nella sua seconda vita iniziata 17 anni fa e costellata di alcuni cambi di formazione - anche se qui i ragazzi si riprestano con il nucleo praticamente originale - ha dimostrato di sapersi sempre reinventare, senza perdere il proprio tocco "magico". E questo nuovo disco ne è uno splendido esempio. Gli undici brani in scaletta (più due bonus per la versione cd) scorrono limpidi e avvolgenti come un Margarita ghiacciato, bevuto a bordo vasca e hanno una carica onirica unica, che li fa sembrare davvero la colonna sonora di un film. Ci sono i rimandi alla psichedelia anni Sessanta, chiaramente, ma non mancano neppure i punti di contatto con il power-pop della origini (alla Big Star, tanto per capirci): quel suono malinconico ma dannatamente rock, che ti ammalia subito con le sue melodie liquide e ricercate. D'altra parte gli Strange Flowers sono un gruppo che fa le cose per bene e che cura nei minimi dettagli ogni pezzo (gli arrangiamenti sono uno dei punti di forza del disco). La freschezza di "Song of the jungle" fa da contraltare alla psichedelia di "Heal", il garage (quasi funk) di "Supermodel" va a braccetto con il folk di "The girl with the moon in her eyes". Un album che colpisce subito al cuore e che si fa amare sin dal primo ascolto.

Golden Shower – Dildo party
Si fa presto a dire garage. I Golden Shower sono un gruppo urticante di punk'n'roll tagliente, che non disegna la melodia acida e il rock delle radici. Sin dal nome (ma anche dal titolo del disco: "Dildo party") i nostri non fanno nulla per farsi accettare nei salotti buoni della musica di tendenza. E fanno maledettamente bene. Anche perché il rock'n'roll non è mai stato un party di gala, al massimo un dildo party. D'alltra parte se la musica del diavolo oggi non fa più paura a nessuno, riuscire a imbarazzare qualche anima candida è il minimo sindacale per chi suona un certo tipo di musica. Ma in questi tredici pezzi i Golden Shower non si limitano a mettere a nudo - è il caso di dirlo - la nostra falsa moralità: la band punta soprattutto a farci ballare e divertire. Come si fa a stare fermi con il ritmo vorticoso di "Velvet sky"? E che pezzo da sballo è "Timeless", con la sua inaspettata vena "pop" che ricorda gli ultimi Black Lips? "Dildo party" è un album davvero ottimo, che parte bello spedito, ma che è anche capace di rallentare e regalarci pezzi intensi e rock "all'americana". Un disco davvero eccellente, che porta il marchio di qualità Area Pirata.

The Trip Takers – The Trip Takers collection
Esattamente un anno fa (vabbè, era l'11 maggio ma siamo lì) ho recensito su questo scalcinato blog "Don't back out now" dei Trip Takers, un ottimo lp di scintillante r&b anni Sessanta, che mi aveva colpito al cuore. Dodici mesi dopo Area Pirata - che aveva prodotto quel 33 giri - ha deciso di pubblicare un cd con tutto il materiale della band e quindi oltre a "Don't back out now" anche il singolo "Jumpers blues/Another one" del 2018 e il mini album omonimo del 2017. Otto tracce in più rispetto al disco dell'anno scorso, che rendono ancora più speciale questa "raccolta". Gli ingredienti che mi avevano fatto amare "Don't back out now" ci sono tutti, ma devo dire che il primo materiale della band - che ignoravo totalmente - è ancora più devoto alla causa sixties dell'album uscito 365 giorni fa: i campanellini di "You are not me", che chiude il mini, sono spettacolari, mentre il 7'' sembra uscito direttamente dalla penna dei Count Five. Sulla qualità dell'album dell'anno scorso non mi sto a ripetere: era una figata molto Kinks e Creation. Ma se proprio vogliamo trovare una piccola differenza tra il materiale più vecchio e quello più recente dei Trip Takers direi che prima i modelli di riferimenti mi parevano più americani, adesso - almeno per quanto riguarda"Don't back out now" - direi che lo sguardo è rivolto soprattutto (ma non solo) all'Inghilterra.

Kinn-Ocks - Resurrection
Dura 11 minuti per sei canzoni (più un'introduzione e un outro di pianoforte) il nuovo rozzissimo ep dei Kinn-Ocks di Paolo Merenda. “Resurrection” è stato scritto e registrato in piena quarantena e dopo una partenza “lenta” con la ballata “8 bit love”, sfodera una serie di randellate scum punk pronte a spettinarvi i capelli (che tanto sono due mesi che non andate dal parrucchiere e sarete tutti un disastro). Pezzi come “No onions” e la metallica “Old school” sono proiettili di piombo per lupi mannari con la cresta alla moicana. Ma anche i brani più cadenzati e meno violenti come “Capitan underpants” (titolo da dieci, vorrei leggere il testo) e “Donate blood” - con le sue atmosfere dark – sono carichi di ferocia e spontaneità. Chiude (prima dell'outro) un'altra bastonata nei denti intitolata “Nintendo R'N'R”: un piccolo inno malsano, condito da una chitarre che frigge e si tormenta. I Kinn-Ocks sono un dei gruppi più punk in circolazione. Suonano come se non potessero farne a meno. E forse è davvero così. Per il momento il disco esiste solo in formato digitale (lo trovate su Yuotube). Spero di poterlo stringere presto fra le mie vecchie mani rugose.

mercoledì 8 aprile 2020

Nuovo cinema punk-hardcore

In questi giorni di quarantena, pur lavorando e pur avendo una bambina piccola (ok, presto smetterò di scriverlo in ogni post), ho trovato più tempo per fare cose che mi piacciono e piano piano sto cercando di recuperare alcuni dischi, libri, fumetti, film, riviste (e quindi cose importanti) che ho accumulato nei mesi scorsi e che non sono ancora riuscito a godermi appieno. Negli ultimi tre giorni, anche grazie all'aiuto fondamentale di due amici, ho visto tre di documentari che bramavo da diverso tempo: "Turn it around", sulla scena californiana della Bay Area legata al Gilman Street e alla Lookout, "Punk", la serie tv in 4 puntate prodotta da Iggy Pop (che tra l'altro è pure la voce narrante di "Turn it around", vedi i casi della vita) e "Hanno paura di me", il documentario sul Professor Bad Trip.


TURN IT AROUND - THE STORY OF EAST BAY PUNK. 
di Robert Adeuyi.
Partiamo proprio da "Turn it around", uscito un annetto fa e prodotto dai Green Day (con tanto di colonna sonora in vinile): un film bellissimo dalla durata "monstre" di due ore e mezza (anzi, due ore e 37 minuti). Appena ne ho sentito parlare ho cercato in tutti i modi una versione in dvd che contenesse i sottotitoli in italiano. E avrei speso anche 30 euro, se qualcuno lo avesse messo in commercio. Il massimo che sono riuscito a trovare però - grazie alle solite buone dritte - è stata la versione integrale su Youtube in alta risoluzione, senza alcun tipo di sottotitolo (neppure in inglese). Naturalmente in pochi giorni quel video è stato rimosso dalla piattaforma (lode a chi l'ha caricato nottetempo). Ma, fortunatamente, ho avuto l'accortezza di segnalarlo a Gippy (che aveva già sottotitolato lavori simili, ma mai così lunghi) che, in men che  non si dica, l'ha scaricato e si è messo sotto a tradurlo. Un lavoro mastodontico e completamente diy, terminato pochi giorni fa solo grazie alla quarantena.
Esatto, avete capito bene: uno dei migliori documentari sul punk americano è stato finalmente sottotitolato in italiano e oggi se lo possono godere anche i caproni come me (anche perché dovreste provare a decifrare ciò che dicono Mike Dirnt e Matt Freeman nelle interviste... ).
Ma torniamo al contenuto vero e proprio del "film". "Turn it around" prende il nome dalla prima e seminale compilation sulla scena punk (ma non solo) che, a fine anni Ottanta, gravitava intorno al 924 Gilman Street, il circolo giovanile di Berkeley fondato, nel 1986, da Tim Yohannon di Maximumrocknroll e da una schiera di giovani reietti della zona compresa tra San Francisco, Oakland, Berkeley e tutte le piccole e insignificanti cittadini lì intorno (Pinole, Rodeo ecc). Una comunità, che ha potuto contare anche sul supporto della Lookout Records di Larry Livermore, che qualche anno dopo avrebbe fatto il botto grazie ai Green Day e al loro successo planetario su major.
Senza scendere troppo nei dettagli "Turn it around" è indubbiamente uno dei documentari sul punk più appassionanti e coinvolgenti che abbia mai visto. Ma forse la penso così perché adoro quella scena e vado matto per gruppi come Crimpshrine, Mr. T Experience, Operation Ivy, Sweet Baby (ex Sweet Baby Jesus), Lookouts, Isocracy e Corrupted Morals. Insomma il punk e l'hc della Bay Area per eccellenza. Il documentario scandaglia fino in fondo questo periodo storico, che, come precisa qualcuno, sarebbe rimasto sommerso o relegato a una precisa area geografica se non ci fosse stata la Lookout Records. Prima di lanciare Queers e Screeching Weasel, l'etichetta di Livermore ha fatto ciò che tutte le case discografiche indipendenti dovrebbero fare: ha registrato le band della sua zona, dando un chance a un sacco di ragazzini arrabbiati e senza nulla da perdere. In questo modo ha dato dignità a una scena, che, per sua fortuna, era molto viva, creativa ed eterogenea, pur rimanendo all'interno del "recinto" punk. Ogni band, come succede tutte le volte che ci troviamo di fronte a un piccolo miracolo musicale, suonava diversa dalle altre, ma le radici e la matrice erano comuni (anche per il grunge è stato così. E che mi dite del primissimo punk newyorkese, almeno fino al 77?). Quella era la sua forza, corroborata, naturalmente, da uno spazio come il Gilman che, oltre a offrire un palco e un tetto a tutte quelle band, ha anche contribuito alla loro educazione "politica", promuovendo l'aggregazione, l'antirazzismo, l'antifascismo, la lotta al sessismo e a qualsiasi tipo di prevaricazione.
Inutile dire che lungo le 2 ore e 37 minuti di "Turn it around" potrete vedere e ascoltare praticamente tutti i protagonisti di quella storia. E il fatto che siano stati proprio i Green Day a produrre il documentario, secondo me, è un altro segnale importante di come fosse unita la scena del Gilman delle origini. Tim Yohannan (buonanima) non è mai stato tenero con Billie Joe e soci dopo che hanno firmato per la Reprise (anzi, su Maximumrocknroll vennero messi letteralmente alla gogna, anche se non direttamente da Tim) e per molto tempo la band fu addirittura bandita dal Gilman, nonostante fosse stata la sua casa per anni. In tempi recenti - purtroppo dopo la morte di Yohannan, direi, anche se da tempo Tim non guidava più il centro giovanile - i Green Day si sono riappacificati con il club di Berkeley (anche perché molte band di quelle parti devono parecchio a Billie, Mike e Trè) e con questo documentario direi che il cerchio si è finalmente chiuso.
Come detto la voce narrante appartiene - inspiegabilmente, ma va benissimo così - a Iggy Pop. L'inizio di "Turn it around" inquadra dal punto di vista storico, sociale e culturale la Bay Area oggetto di indagine. E al di là delle classiche interviste che scandiscono il tempo del documentario - una costante, ormai, per questo tipo di lavori - ci sono tantissimi filmati dell'epoca che tolgono letteralmente il fiato. In "Turn it around", naturalmente, potrete vedere e ascoltare Jello Biafra, i Green Day, Fat Mike, Tim Armstrong e altri "big" della scena, ma nel documentario non mancano neppure le voci e i volti di personaggi fondamentali, ma meno conosciuti, come Aaron Cometbus, Jesse Michaels e Kamala, solo per citarne alcuni.
In poche parole "Turn it around" è un vero gioiello, che non potete permettervi di non vedere. Adesso non avete più scuse.

PUNK (SERIE TV)
di Jesse James Miller. 
Non avrei mai immaginato che qualcuno si prendesse la briga di tradurre, quasi in tempo reale, "Punk", la serie in 4 puntate prodotta da Iggy Pop sulla nascita e lo sviluppo - principalmente in America e in Inghilterra - di questa controcultura. E invece l'ha fatto Sky Arte: un canale a pagamento mainstream, che con quest'operazione si è guadagnato tutta la mia riconoscenza. Quando cercavo forsennatamente un link per vedere la serie (non ho Sky, visto che già pago Netflix e Prime e i soldi sono quello che sono) in tanti cercavano di indorarmi la pillola avvertendomi che non mi stavo perdendo tutto sto gran che. "Sono le solite robe", mi dicevano.Ma io adoro le solite robe! Cioè la storia del punk, per chi ha letto qualche libro o rivista, è abbastanza chiara, almeno se parliamo del suo sviluppo generale: e cioè i primi vagiti che iniziano a farsi sentire negli Stati Uniti con M5C e Stooges - che rappresentano una sorta di progenitori del "movimento" (anche se io ci metterei pure le garage band di qualche anno prima, come i Count Five) - e poi i New York Dolls e la scena della Grande Mela legata al Cbgb's e al Max verso il 1975. Parallelamente qualcosa stava iniziando a germogliare anche in Inghilterra (e il ruolo di Malcom Mc Laren è stato fondamentale per questa connessione transoceanica) e via di questo passo. Certo, nessuna rivelazione particolare, però, diavolo!, è comunque una bella storia. E se a raccontarla sono direttamente i protagonisti, da Wayne Kramer a Sylvain Sylvain, da Johnny Rotten (parecchio inciccionito) a Fat Mike (i nomi sono tantissimi e di alto livello) la cosa si fa ancora più interessante.
Come già detto ormai la formula del documentario musicale che ti racconta una storia intrecciando interviste (anzi piccoli interventi tratti da interviste più grandi) e immagini di repertorio è un classico. Però la materia, in questo caso, è talmente incandescente che l'originalità della tecnica narrativa passa in secondo piano.
Questa prima serie - che credo sia unica, anche se spero di sbagliarmi - si articolare in 4 puntate. La prima è sul proto-punk, la seconda è sul punk del 77 soprattutto a New Yor, la terza sull'Inghilterra del 77 e sugli anni Ottanta (anche se qui mancano parecchie cose) e la quarta sul revival anni Novanta.
Certo, non si parla mai dei Misfits, degli Husker Du e di un sacco di altri gruppi fondamentali. Ma la storia ha comunque un suo filo logico e non credo che gli autori avessero velleità di completismo. Se si volesse andare più a fondo, però, servirebbe davvero una seconda serie, che colmasse qualche lacuna e magari ampliasse il raggio d'azione. Il punk ha indubbie radici negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma ha attecchito ovunque, riuscendo a cogliere lo spirito del luogo in cui è via via arrivato, manifestandosi, ogni volta, con alcune peculiarità della cultura locale che "aggrediva".
A tal proposito sarebbe un delitto non parlare di scene fertili e stupende come quella australiana o non citare alcune band europee e sudamericane pazzesche (l'hc italiano degli anni Ottanta ha fatto letteralmente scuola, anche in Usa). Del Canada, invece (altra fucina di gruppi incredibili) si fa solo un breve accenno, attraverso i Doa. Ma anche qui si potrebbe aprire un libro enorme.
Detto questo se riuscite a recuperare "Punk" (la prima puntata è gratis in lingua originale su Youtube) guardatela e ditemi se sono stato, come al solito, troppo buono o se anche voi vi siete divertiti.

HANNO A PAURA DI ME. SANNO CHE SONO PUNK E CHE VENGO DAL CANALETTO
di Andrea Castagna e Carmine Cicchetti.
Un'altra perla trovata in questi giorni di quarantena (gratis su Youtube) e dopo mesi di vane ricerche è il breve, ma bellissimo documentario sul Professor Bad Trip e cioè Gianluca Lerici, uno dei più grandi artisti italiani usciti dal marasma controculturale degli anni Ottanta: un disegnatore eccezzionale, legato saldamente alla scena punk italiana. Credo che tutti qui (e cioè tutti e 3, quanti siete) conoscano il Prof. Bad Trip e i suoi fumetti (o le sue tavole) psichedeliche e coloratissime, con quel tratto grasso e pieno, come un Van Gogh punk-hc stordito da un concerto di Dead Kennedys e Fear. Ma se così non fosse fate subito ammenda, guardate il documentario e appena riaprono le librerie compratevi tutti i suoi volumi (che purtroppo non sono molti).
Gianluca, classe 1963, è morto improvvisamente e inspiegabilmente 16 anni fa (è già passato così tanto: è incredibile). Era spezzino, anzi veniva, come ricorda orgogliosamente il titolo del documentario, dal quartiere popolare del Canaletto, zona di "muscolai" (i pescatori che raccolgono i "muscoli", come vengono chiamate in Liguria le cozze) e di parecchie teste di cazzo (a detta dello stesso artista). Autore di fanzine e musicista nella band di culto Holocaust, credo che il Prof. non abbia mai davvero raccolto quanto seminato nel corso della sua breve, ma intensissima esistenza. Mi sono innamorato dei suoi disegni da ragazzino, dopo aver letto "Costretti a sanguinare" di Philopat, che, nell'edizione Shake, conteneva un suo breve fumetto che illustrava il pezzo "I love livin' in the city" dei Fear.
"Hanno paura di me", che dura appena 26 minuti, parla del Professor Bad Trip, ma anche di Gianluca Lerici, dell'artista incredibile che abbiamo perso, ma anche della persone eccezionale che si celava dietro i suoi disegni. Naturalmente c'è anche qualche aneddoto interessante sulla scena punk spezzina, grazie agli interventi Benzo dei Fall Out, storico gruppo cittadino ancora in attività. D'altra parte il Prof. era molto legato alla sua terra e lo testimoniano le sue opere realizzate e regalate alla Skaletta, che ancora oggi impreziosiscono le mura di questo storico circolo punk rock della Liguria.
Insomma lungo questa mezzora scarsa scorre una storia minima, ma al tempo stesso enorme. Un omaggio fatto con il cuore (nel documentario parla spesso anche l'amico e artista Vittore Baroni) a un gigante dell'underground italiano. Uno che, tanto per usare un cliché abusato ma mai così azzeccato, se fosse stato americano o inglese avrebbe esposto i suoi lavori in tutto il mondo e oggi sarebbe ricordato al pari di Pettibon e di altri grandi artisti.


 

giovedì 19 marzo 2020

Siamo nati da soli - Alessia Masini

E' da un pezzo che non scrivo da queste parti. Sarà almeno un mese e mezzo. Ma come molti sapranno sono giorni complicati e al tempo stesso bellissimi, visto che sono diventato papà di una splendida bimba (anche se sto cazzo di Coronavirus ci sta complicando un po' le cose). Questo però non è un blog personale; quindi bando alle ciance e alle classiche scuse, e iniziamo a parlare delle solite cose importantissime.


Siamo nati da soli. Punk, rock e politica in Italia e in Gran Bretagna (1977-1984) - Alessia Masini (Edizioni Le ragioni di Clio)

Avrei dovuto parlarvi di questo libro a dicembre, appena ho finito di leggerlo, perché come accade a tutti gli anziani ho una pessima memoria. Ma per fortuna non sono così suonato da aver dimenticato tutto. "Siamo nati da soli" non è il classico libro di storie sul punk raccontate da protagonisti di prima mano e reduci - certo, ci sono anche alcuni contributi di quel genere -: il volume di Alessia Masini è soprattutto uno studio accurato su un fenomeno controculturale che, nel nostro Paese, è sempre rimasto ai margini della cosiddetta accademia (cosa che, invece, non è avvenuta altrove, per esempio in Inghilterra). Intendiamoci: istituzionalizzare il punk non è mai cosa buona e semplice. E lo dice uno che, nel suo piccolo ci ha persino provato, seppur involontariamente, visto che mi sono laureato con una tesi sulle fanzine punk e hardcore diventata poi un libercolo di scarso successo (che Alessia, gentilmente, cita nelle prime pagine del suo testo). Molti punk, soprattutto, chi ha vissuto sulla propria pelle il periodo tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, non guardano con favore a questo tipo di approccio e tendono a preferire (e approvare) solo i libri scritti all'interno della scena.
Alessia Masini, però, non è solo una giovane studiosa che prende questa controcultura, la viviseziona e la indaga cercando di darle una veste universitaria, è anche un'appassionata militante, una persona che applica la metodologia della storica a un materiale infiammabile, che la coinvolge in prima persona. Il risultato è un libro che riesce a stare perfettamente in bilico tra la ricerca storico-sociale e l'epica del punk. Un racconto coerente e articolato, che va maneggiato con cura e letto con estrema attenzione.
A guidare Alessia in questo viaggio, in molti passi del libro, è una protagonista d'eccezione come Laura Carroli dei Raf Punk (dalla sua collezione personale arrivano molte delle fanzine e dei materiali che l'autrice cita). E già questo basterebbe a mettere da parte qualsiasi tipo di riserva sulla genuinità di questo libro. "Siamo nati da soli", anche se mette in parallelo il punk inglese e quello italiano, si concentra soprattutto su due città cardine per questo asse internazionale: Londra e Bologna. Anche se oltre alla City bisognerebbe citare anche le campagne dell'Essex in cui vivevano i Crass, visto che la band di Steve Ignorant ed Eve Libertine rivestono un ruolo molto importante nell'economia del libro (d'altra parte Bologna è stata una delle città più crassiane d'Italia, proprio grazie ai già citati Raf Punk e alle loro varie diramazioni). 
Tra gli aspetti più interessanti del libro ci sono le riflessioni sulle implicazioni politiche del punk, sulle incomprensioni che nacquero soprattutto inizialmente di fronte a certe provocazioni (le svastiche, tanto per dirne una), che ebbero conseguenze diverse in Italia e in Gran Bretagna. "Siamo nati da soli" è stato scritto attingendo a una ricchissima mole di fonti (dalle riviste alle fanzine più oscure, e proprio questo è uno degli aspetti più gustosi dell'intero volume). Certo, trattandosi di uno studio effettuato con metodo accademico ci sono anche alcune pagine in cui si racconta la genesi del punk inglese e il suo sviluppo: storie che tanti appassionati avranno già letto e conosceranno più o meno a memoria. Ma credo che scrivere solo per una stretta cerchia di persone che sa già tutto della materia (e che quindi, forse, non avrebbero neppure bisogno o voglia di documentarsi) sia la cosa meno punk che ci possa essere. Quindi ben vengano libri come "Siamo nati da soli", che trattano questa controcultura putrescente e fuori dagli schemi con metodi e sistemi nuovi e diversi dal solito. Non si tratta di dare dignità al punk (e chi l'ha mai voluta?), ma di capire, esplorare, collegare e mettere insieme una serie di spunti, per stimolare la nostra curiosità su una storia che ci ha letteralmente cambiato la vita. Questo è ciò che mette in moto Alessia Masini attraverso il suo libro. Un prezioso tassello all'interno di una vicenda che, ancora oggi, dopo oltre 40 anni, riesce a farci litigare e discutere, ma anche commuovere e stupire, come se andassimo ancora al liceo e avessimo la cresta verde.