giovedì 24 febbraio 2011

Bilal

Ci sono dischi che ti cambiano la vita. E qualche volta persino delle persone. A me, pochi giorni fa è successo con un libro (un evento ciclico che si ripete ogni otto anni circa). Ma questa volta il solco è più profondo. Quando ho finito di leggere "Bilal", il capolavoro di Fabrizio Gatti, inviato dell'Espresso che chiamare collega solo in virtù di questo stupido tesserino che ci accomuna mi pare una bestemmia, ho capito che non sarei stato più lo stesso. E lo sto sperimentando ogni giorno sulla mia pelle. Non si esce vivi da una lettura come questa e, fuori da ogni retorica, si cominciano a guardare (tutte) le altre persone in maniera molto diversa. La storia raccontata da Gatti (anzi l'inchiesta, perché nulla in queste 500 pagine è inventato) è un colpo al cuore e al cervello. Si parte con il viaggio lungo il deserto che gli immigrati africani affrontano per andare in Libia (e quello che sta succedendo ora c'entra eccome con queste vicende), poi si prosegue con l'esperienza diretta nel Centro (all'epoca Cpt oggi Cie) di Lampedusa, dove Gatti si è infiltrato facendosi passare per un profugo iracheno ripescato in mare, e poi il lavoro nell'edilizia e nelle piantagioni di pomodori del Sud, fra l'arroganza dei padroni italiani e la violenza dei caporali di ogni sorta di nazionalità. Storie che si intrecciano, vite che finiscono (non sempre con la morte) e soprattutto il significato di cosa voglia dire oggi la parola immigrazione. "Bilal" dovrebbe essere un libro obbligatorio per gli studenti delle medie e delle superiori. Alla stregua di "Se questo è un uomo". Perché qui c'è dentro il genocidio di generazioni, perpetrato per il denaro e il benessere di una piccola parte di mondo che ci ostiniamo a chiamare occidentale, anche se come, dice Andrea Pomini "il Patto di Varsavia non esiste più dal 1991, il Mali è più a Ovest dell'Italia e in ogni caso la Terra è rotonda e visti dalla Cina gli Stati Uniti sono oriente". Leggetelo. Regalatelo. Fatene tesoro.



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