mercoledì 28 novembre 2018

Con Jesse Malin (al Bloser) ti porti a casa un pezzo di New York

Sogno di vedere dal vivo Jesse Malin da vent'anni. Da quando, nel 1998, sedicenne sbarbo coi capelli a mezzo collo, mi ero messo a spulciare le novità punk del Music Store del Porto Antico. All'epoca - prima del file sharing e di Yotube - l'unico modo per sentire qualche disco in anteprima era fiondarsi in quel paradiso del cd a mezzo chilometro del capolinea dell'autobus numero 1, mettersi sotto l'apposita colonnina, scegliere uno degli album selezionati dal personale del negozio, indossare le cuffie e schiacciare play. E' così che ho scoperto i D Generation, gruppo punk newyorkese anni novanta guidato da Jesse Malin. Una scoperta col botto, visto che la prima traccia di quel disco - l'ottimo "Through the darkness" - era la magnetica "Helpless", che parte a razzo con quel "nonononono" cantato con strafottenza pop da Jesse, inseguendo una melodia acida e fulminante: una canzone che mi aveva mandato letteralmente in pappa il cervello, esplodendomi a tradimento nelle orecchie. Insomma, fu amore al primo ascolto, tanto che, ancora oggi, quel brano resta, inspiegabilmente, una delle mie più longeve ossessioni musicali. Lo so, non ha le caratteristiche del classico pezzo della vita, eppure è proprio questo l'effetto che continua a farmi a distanza di vent'anni. Ma la mia passione per i D Generation nel 1998 era più che altro platonica, visto che non sapevo chi fossero, da dove venissero, quanti dischi avessero fatto e soprattutto non avevo i soldi per comprarmi "Through the darkness" (tanto che sono riuscito a recuperarlo soltanto un anno e mezzo fa, mentre "Helpless" l'ho scaricata da Napster pochi anni dopo averla ascoltata e, da allora, l'ho infilata in qualsiasi compilation per walkman e autoradio). E questo, più o meno, è tutto. O almeno lo era fino a qualche giorno fa, quando ho letto che al Bloser, a pochi chilometri da casa mia, in un freddo martedì di novembre, sarebbe atterrato proprio Jesse Malin, oggi cinquantenne e con una solida carriera solista, fatta di brani acustici più pop-rock che punk. Musica figlia di quel suono delle strade di New York dove Jesse è cresciuto e che ti lascia un'impronta assolutamente inconfondibile. Certo, inizialmente, il fatto che il concerto fosse chitarra acustica e pianoforte (suonato da tal Derek Cruz) mi aveva un po' inquietato. Ma come si fa a non andare a sentire il cantante dei D Generation quando ce l'hai quasi sotto casa? Se il me stesso di vent'anni fa avesse saputo una cosa del genere mi avrebbe sicuramente preso a calcio in culo (anche se probabilmente già dovrebbe farlo per come mi sono rammollito con la vecchiaia). Comunque, fidandomi della mia solita incoscienza, ho preso coraggio e insieme a Grazia mi sono diretto al Bloser. Abbiamo parcheggiato come al solito lontanissimo e siamo entrati in questo piccolo teatrino sotterraneo, dietro il Duse e il Politeama. Ad aprire il concerto c'era Eugenia Post Meridiem, con chitarra elettrica e una voce grande così. Conosco la ragazza e l'avevo già sentita dal vivo. Devo ammettere che non è stata niente male, col suo piglio da Joni Mitchel postatomica. Anche se, sulla carta, non è che sia proprio "la mia tazza di tè".  

Quando finalmente è arrivato Jesse Malin, il Bloser è esploso, ma un piccolo problema tecnico a un microfono ha immediatamente indispettire il nostro più del dovuto, tanto che, un po' stizzito, ha deciso di rifugiarsi in camerino, insieme al fidato Cruz. Il guasto, in realtà, era cosa da poco ed è stato risolto in tre minuti d'orologio, ma quando è tornato sul palco, Jesse, ha dato quasi l'impressione di essere un po' scazzato, si è messo a torturare il pianoforte e ha cominciato a parlare al microfono. Eccallà - ho pensato col morale sotto le suole - vedrai che si rivelerà uno stronzo egocentrico e, per una cazzata come questa, farà un concerto di merda, che mi rovinerà l'immagine che ho di lui. Invece, tempo trenta secondi netti, Jesse ha messo su un sorriso sornione da vecchia volpe, è partito con un tiritera sul fatto che avrebbe parlato inglese lentamente per farsi capire da tutti e poi, carico come una miccia, ha iniziato uno dei concerti più belli che mi sia capitato di vedere quest'anno (e forse anche oltre). Dopo le prime note anche Grazia si è illuminata, mi ha stampato un bacio sulla guancia e io sono salito direttamente in Paradiso. Il concerto stava piacendo anche a lei e mi sentivo come un bambino a Disneyland. Jesse Malin, quello che mi aveva sconvolto la vita al Music Store quando avevo 16 anni, era lì davanti a me che cantava. Eravamo a un palmo di mano l'uno dall'altro e lui suonava canzoni bellissime, che non conoscevo per niente, pescando a piene piena mani dai suoi quattro o cinque dischi solisti che, a quel punto, avrei voluto comprare in blocco (ma alla fine mi sono accontentato di prendere soltanto la ristampa del primo cd). Ha attaccato con "Broocklyn", "Black haired girl", si è lanciato in una cover spericolata dei Pogues e poi ha presentato"Broken radio", una vecchia canzone scritta per sua madre - morta quando lui aveva sedici anni - che qualche anno fa ha inciso insieme a Bruce Springsteen (ok, odio Bruce Springsteen, ma per un secondo me lo sono dimenticato). Jesse, tra un brano e l'altro, si è messo a chiacchierare col pubblico e a spalleggiarlo in silenzio c'era sempre il fido Cruz, discreto e preziosissimo non soltanto al piano, ma anche alla seconda chitarra e ai cori. In ordine sparso il buon Malin ci ha parlato dell'importanza dei piccoli negozi di dischi; di quella volta che mentre si trovava a Los Angeles a registrare un album, si è messo a camminare per mezza giornata ed è finito in una zona piena di prostitute; dell'intervista surreale che gli aveva fatto un giornalista di Rolling Stone Germania sul titolo del suo primo album ("The fine art of self destruction"); di quando ha registrato la canzone per sua madre a casa di Bruce Springsteen e il Boss si è presentato con un'ora di ritardo e in sella a una moto; di come in Italia anche il cibo del peggiore autogrill sia meglio di quello servito nel miglior ristornate di New York e di quando si è trovato Shane MacGowan dei Pogues a bordo palco (con tanto di imitazione ignorantissima del vecchio Shane). Il resto è stato una cascata di canzoni dalle melodie cristalline, suonate con piglio punk, ma con strumentazione folk. Jesse ha una voce limpida e gentile e l'altra sera sferzava le corde della sua chitarra come un matto. E' sceso anche in mezzo al pubblico, riuscendo a convincere tutti a sedersi per terra, mentre Cruz suonava leggero sui tasti del pianoforte. "Sembra di stare a New York"  mi ha detto Grazia, a un certo punto. Ed era proprio vero. Malin, che ripeteva tra un aneddoto e l'altro che bisogna vivere giorno per giorno, è riuscito a trasformare uno sfigatissimo martedì sera in un concerto da incorniciare. Quando alla fine - dopo il classico bis - ha detto, quasi automaticamente: "Ci vediamo l'anno prossimo", io ho sgranato gli occhi e l'ho preso come un impegno. Chi se l'aspettava una serata così, vibrante e da batticuore, a mezzo metro da uno degli eroi della mia adolescenza pop-punk? E invece vedi alle volte che succede a inseguire i sogni di quando eri ragazzino. 

Jesse Malin al Bloser nella foto scattata da Giovanni Villani

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