martedì 3 ottobre 2017

Propagandhi live (fast, die young) - Il mio brutto rapporto con la mia ex band preferita

Ogni tanto un po' di sana polemica ci vuole anche da queste parti. E quindi in barba alle reazioni entusiastiche (e a caldo) lette in questi primi giorni, ecco la mia serena analisi sul nuovo disco dei Propagandhi, "Victory lap", appena uscito per Epitaph: due palle.
Vorrei precisare, a scanso di equivoci, che quella che vi accingerete a leggere fra pochissime righe non è un vera e propria recensione, perché il disco l'ho sentito soltanto due volte in mp3 e quindi non sono in grado di dare un giudizio puntuale sulla sua reale qualità. E allora che cazzo stai a scrivere? potreste giustamente obiettare; in realtà è che già dopo il primo svogliatissimo ascolto di "Victory lap", ho capito di trovarmi di fronte al classico album dei Propagandhi post John K. Samson (l'ex bassista, che per la cronaca ha mollato la band nel 1996) e cioè all'ennesima metallata, che non ho più la forza di ascoltare e soprattutto di comprare. E quindi il problema non è quest'album in sé, ma cosa sia diventata oggi quella band che tanto amavo da ragazzino.
Mi spiego meglio. Ho scoperto i Propagandhi, (per chi non lo sapesse sono un gruppo hardcore canadese) alla fine degli Anni Novanta grazie al solito Tito, che mi ha aveva duplicato su cassetta il primo disco del 1993, "How to clean everything", uscito per la Fat Wreck. Ed è stata una botta che levati. Canzoni velocissime e potenti, ma allo stesso tempo melodiche, testi ben scritti e "impegnati" (sì lo so, fa schifo come termine, ma almeno ci capiamo) e una follia dissacratoria, che non aveva (e non ha) eguali. Un copione perfetto replicato, anche se non con lo stesso impatto, pure nel secondo album, "Less talk, more rock", che, se vogliamo, è ancora più "politico" del primo (ci sono pezzi di spoken word), ma che comunque si basa sempre sulla formula vincente: melodia, aggressività e grandi liriche. Siamo al 1996 e a quel punto John, il bassista, decide di mollare il gruppo per fondare gli Weakerthans (un mix fra pop, rock acustico, indie-rock ed emo che non mi ha mai fatto saltare sulla sedia, ma che comunque aveva e ha una sua dignità). E lì iniziano i casini. Il terzo disco su Fat arriva dopo 4 anni (nel 2001) e si intitola "Today's empires, tomorrow's ashes": il suono si è decisamente inspessito, le melodie hanno iniziato a scarseggiare, ma, e lo dico a posteriori (dato che all'epoca rimasi delusissimo), l'album resta un buon lavoro. Magari con i suoni leggermente più sporchi e duri rispetto al glorioso passato, però si tratta ugualmente di una svolta interessante e non scontata. All'epoca Chris (il cantante-chitarrista) e Jord (il batterista) avevano detto di essersi stancati del classico hardcore melodico in stile Fat Wreck e di voler riscoprire le loro radici punk e hardcore Anni Ottanta, fatte di suoni brutali e metallici, canzoni veloci e voci urlate. E va bene, in fondo ci poteva anche stare. Però poi, da lì in avanti, si sono fatti un po' prendere la mano. E per quel che mi riguarda sono diventati una band molto meno interessante e - scusatemi se lo dico - molto più anonima.
Il disco della svolta in negativo, per quel che mi riguarda, è il successivo: "Potemkin City Limits", uscito nel 2005 e ultimo sotto l'egida della Fat (e poi capiremo anche perché). Ricordo che, quando è uscito, mi sono precipitato, come al solito, a comprarlo sulla fiducia (anche perché all'epoca era difficile trovarlo da scaricare in anticipo), con la (folle) speranza che i Propagandhi potessero tornare quelli degli Anni Novanta. E invece niente. Anzi, il suono aveva preso una piega, o forse sarebbe meglio dire deriva, inaspettata, visto che oltre a proseguire sulla strada dell'hc-metallico, i nostri si erano persino inventati una sorta di hardcore "progressivo" (ok, adesso potete pure sparare quando volete) che non aveva nulla a che fare col passato. Sui testi, naturalmente, nulla da dire. Sempre la solita lucidità senza compromessi. Anche se, quella volta, Chris e co., hanno leggermente pisciato fuori dal bulacco, visto che nel pezzo "Rock for sustainable capitalism" se la sono presa persino con Fat Mike (che però gli ha pubblicato ugualmente il disco, guarda un po') accusandolo di essere uno dei responsabili della "normalizzazione" e della commercializzazione del punk (tutto era nato dalle posizioni pro Democratici del cantante dei NOFX contro la rielezione di Bush). Ma vabbè adesso non è che questa storia ci freghi più di tanto. Il fatto è che, invettiva contro Mike a parte, "Potemkin", anche a distanza di tempo, resta un disco ben scritto, ma con un suono di merda, pieno di canzoni piatte che faticano a entrarti in testa. Quando l'ho sentito per la prima volta sono stato tentato di prenderlo e cacciarlo fuori dalla finestra. Ma erano pur sempre i Propagandhi, cazzo, una delle mie band preferite. E poi tutti ne parlavano bene. Così me ne sono stato zitto e buono, sperando che con l'album successivo questa follia sarebbe giunta al termine. E invece niente. Pure "Supporting Caste" del 2009, stavolta pubblicato dalla loro G7 Welcoming Comittee (perché Mike è bravo e buono, ma fino a un certo punto) è un altro disco pieno di schitarrate, mini-assoli, hardcore progressivo, zero ritornelli, nessuna melodia decente, voce alta e cambi di tempo. In parole povere: una specie di thrash metal senz'anima (mica parliamo dei Sod, purtroppo). Ma visto che sono un inguaribile romantico e per un breve periodo della mia vita ho avuto qualche soldo da buttare in dischi inutili, tre anni dopo ci sono ricascato e appena è uscito il nuovo album dei Propagandhi -. e siamo arrivati al 2012 - c'ho lasciato le solite 18 carte a scatola chiuse. Mi ero illuso che uscendo per Epitaph (ma dovevo capire che si trattava pur sempre dell'Epitaph degli anni Duemila) ci sarebbe stato un magico ritorno alle origini. E ancora una volta sono rimasto deluso. "Failed states", siamo sempre lì, è il solito disco monolitico da mezzi metallari (i ritmi sono pure più lenti), che contiene una sfilza di brani cantati male, suonati (tecnicamente) bene (e scusate se mi incazzo!), con testi ben scritti, ma con zero personalità. Mi spiace, ma resto un fan del rock'n'roll. E anche se ascolto tonnellate di hardcore vecchia scuola, quello che fanno oggi i Propagandhi (ultimo disco compreso) è tutto fuorché un ritorno alle radici di quel suono. A me, continuo a ripeterlo, pare la solita metallata new school, dove bisogna mostrare i muscoli e persino l'abilità tecnica (ci rendiamo conto?). Tra l'altro, dopo l'uscita di "Failed states", ho avuto persino la malaugurata idea di andarli a vedere dal vivo, sempre nella speranza che facessero un concerto pieno di vecchi classici, tipo "Haille Sellasse up your ass". E invece niente. Mi pareva di stare a sentire gli Snapcase o peggio gli Iron Maiden. Comunque: tutta questa pappardella è servita per farvi capire con quale stato d'animo mi sia avvicinato al nuovo disco del mio ex gruppo preferito, uscito un paio di giorni fa. La diffidenza era tantissima e le aspettative negative sono state ampiamente confermate. E quindi ritorniamo alle "due palle" assegnate all'inizio di questo post delirante. La differenza col passato, però, è che questa volta non mi fregano. L'album non lo compro manco se lo becco usato a metà prezzo. E corro ad ascoltare "How to clean everything" e a sperare in un tour celebrativo di quel disco, per riprendermi i Propagandhi della mia adolescenza e poter finalmente cantare sotto il palco "Anti Manifesto".




2 commenti:

  1. ciao sono simone di iyezine.com, volevo sapere come faccio a contattarti. grazia ciao

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  2. ciao Simo, ti ho scritto su facebook in pvt

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