domenica 10 settembre 2017

Downtown Boys - Cost of living

Ogni volta che parlo dei Downtown Boys finisce che mi prendono per il culo. Non per la band in sé, ma per la venerazione che ho nei confronti di questi ragazzetti di Providence, in cui mi sono imbattuto un po' per caso un paio di anni fa. Non starò a farla tanto lunga, ma al di là delle battute e delle piccole frecciatine che ci scambiamo quotidianamente su Facebook o su Whatsapp c'è una "sottile" linea rossa che divide chi li adora come il sottoscritto e chi, senza troppi trionfalismi, li considera una buona band hardcore da ascoltare in macchina o sul treno, mentre va al lavoro: averli visti dal vivo. In Italia non siamo in tanti ad aver avuto un tale privilegio, visto che per ora la band ha suonato qui da noi soltanto due volte: una a Milano e una a Imperia, con una media di venti spettatori a botta. Sta tutta lì però la differenza fra me e voi stolti che ve li siete persi. Perché va bene che i dischi usciti finora sono una bomba, dal primo demo ristampato su vinile (grezzo, veloce e rabbioso), al capolavoro "Full Communism" fino il nuovissimo "Cost of living". Ma un concerto dei Downtown Boys è un'esperienza così totale ed elettrizzante, che vi sembrerà quasi di assistere al vostro primo live hardcore. Di questa storia però ho già parlato su Sottoterra e chi mi ha incontrato in giro nell'ultimo anno avrà sentito ormai cento volte il mio racconto di quel folle lunedì sera a Imperia insieme a Luca, Marco, mio fratello e un altro manipolo di illuminati (grazie Ale Pio per averli portati all'Arci Camalli). Quello di cui vorrei parlare oggi, invece, è il loro ultimo disco, uscito il mese scorso su Sub Pop.
Devo ammettere che quando ho saputo che i Downtown Boys avevano firmato per la label di Seattle ho storto un po' il naso, perché temevo che un ciclo - seppur breve - si fosse ormai concluso e che il loro hardcore così particolare potesse in un certo senso normalizzarsi. E' successo a tante band e, in alcuni casi, non è stato neppure un male. Per altre, invece, ha rappresentato un disastro. E così quando sono iniziati a uscire i primi pezzi in anteprima, che ho accolto come farebbe un tossico col metadone, ho cercato di capire se i miei timori fossero fondanti oppure no. Intendiamoci: non è che le due o tre canzoni pubblicate come antipasto del disco fossero brutte e insignificanti (che poi in questi casi è quello il maggior pericolo). Però non riuscivano a entusiasmarmi. E mi rodeva parecchio. Poi, poco prima che partissi per le vacanze è uscito in streaming l'intero album e due giorni dopo era già nei negozi.
Ascoltando il disco tutto insieme, anche se un po' di fretta, ho capito che le mie paure erano decisamente esagerate. Certo, la nostalgia per "Full Communism" era ancora molto forte. E ho dovuto attendere di stringere fra le mani il vinile, metterlo sul piatto e stapparmi una Moretti per fare definitivamente pace con "Cost of living". Pur essendo consapevole che non lo amerò mai come il suo predecessore (che beneficia comunque dell'effetto "sorpresa" e del fatto che, come tutti i dischi importanti, è stato scritto e inciso in uno stato di grazia forse irripetibile), il nuovo lavoro dei Downtown Boys è comunque un altro album che lascia il segno. La struttura resta fondamentalmente la stessa: hardcore isterico e progressivo, con sax impazzito a rincorrere la voce stridula di Victoria; canzoni politiche e schierate ma senza il classico abuso di slogan, cantante in inglese e in spagnolo. Un vortice di suoni che mescola Fugazi, X-Ray Spex, MC5, Minutemen e jazz-rock. "A wall", il pezzo che apre il disco è un vero e proprio inno e un nuovo classico dei Downtown Boys, con il suo incedere epico e storto, capace di farti battere il cuore anche alla veneranda età di 35 anni. Saltando come un grillo al lato B, "It cant' wait" è un'altra scheggia impazzita impastata di melodie acide cantante in coro, mentre "Promissory note" (di uovo lato A) è quasi un omaggio ai già citati Fugazi (non a caso in regia siede Guy Picciotto...). Ma come dico spesso (ripetendomi) è tutto l'album a funzionare a dovere. Ogni brano sembra aggredire l'ascoltatore per non lasciarlgi scampo ("Because you" parte lenta e indecifrabile e poi ti prende letteralmente a bastonate sulle orecchie), il sax di Joe sfrigola come un matto in "Tonta" e sorregge l'intero impianto di un brano tumultuoso e ruvido come "Clara Rancia". Un altro inno contenuto nel disco è senza dubbio "I'm enough (I want more)" in cui i proclami irresistibili di Victoria si incastrano fra le linee di chitarra. E potrei restare qui per ore e ore a raccontarvela, per dirvi sostanzialmente che "Cost of living" è un ottimo album, che non vi tradirà. Quindi forse è arrivato il momento di piantarla e di andare a pulire il bagno.


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